Le sfide dell’eguaglianza razziale negli Stati Uniti e la decisione del grand jury nel caso Micheal Brown

Una delle cose che colpisce di più lo studioso europeo in visita presso una università americana è il senso della community che si avverte al suo interno. Sono molte le occasioni di discussione tra studenti e docenti, momenti di confronto in cui la composizione pluralistica degli uni e degli altri viene particolarmente valorizzata.

Nelle ultime settimane, due di questi incontri/forum mi hanno aiutato a mettere a fuoco le questioni ancora aperte relative all’eguaglianza razziale negli Stati Uniti (entrambi gli incontri si sono svolti alla Columbia University di New York, dove ho trascorso qualche mese come visiting scholar). Il primo risale alla settimana scorsa e riguarda la decisione del grand jury della contea di St. Louis, nel Missouri, di non incriminare il poliziotto che ha ucciso il giovane afroamericano Micheal Brown. Il secondo si è tenuto più di un mese fa in occasione del 50° anniversario dall’approvazione del Civil Rights Act. Pochi giorni dopo il primo forum, un altro grand jury, a Staten Island, New York, ha emesso un nuovo no bill of indictment nei confronti del poliziotto che, usando la pratica vietata del chockhold, aveva ucciso Eric Garner, anch’egli un cittadino di colore.

Dopo la decisione del grand jury di St. Louis, le città americane sono state attraversate da una serie di proteste, svoltesi sia nel giorno di Thanksgiving sia durante il Black Friday, due date che simboleggiano, in una strana successione, l’adesione ai valori della tradizione civica e il benessere consumistico. Per diversi osservatori, queste forme di protesta hanno rappresentato una rivitalizzazione del civil rights movement, la cui forza sembrava essersi spenta dopo le grandi mobilitazioni popolari degli anni sessanta e l’approvazione del Civil Rights Act (CRA) e del Voting Rights Act (VRA), rispettivamente nel 1964 e nel 1965 (v. al riguardo il post sull’ultimo libro di Ackerman, The Civil Rights Revolution). 

Come lamentato da molti dei civil rights lawyers che hanno partecipato all’incontro per i cinquant’anni del CRA, i fronti di arretramento nell’ambito dell’eguaglianza razziale sono stati molteplici: la risegregazione di fatto delle scuole, il ridimensionamento dei programmi di affirmative action, la discriminazione rispetto agli afroamericani e ai latini nell’ambito del sistema penale, l’erosione del diritto di voto. La Corte Suprema ha avuto la sua parte di responsabilità in questa tendenza, sia colpendo a più riprese le affirmative actions perché discriminatorie nei confronti dei bianchi (v. da ultimo Parents Involved in Community Schools v. Seattle School District No. 1, 2007 e Schuette v. Coalition to defend Affirmative Action, 2014), sia rimuovendo l’obbligo per gli stati, nei quali gli elettori afroamericani sono più svantaggiati, di ottenere l’autorizzazione federale in caso di modifica delle circoscrizioni elettorali (Shelby County v. Holder, 2013). Il bilancio, a cinquanta anni dall’approvazione del Civil Rights Act, è lungi dall’essere pienamente positivo.

Mi ha colpito – ed è un segnale indicativo del cambiamento di clima – il fatto che molti avvocati e attivisti ritenessero che difficilmente oggi il Senato confermerebbe alla Corte Suprema un giudice come Thurgood Marshall (l’avvocato della NAACP che ha portato Brown vs. Board of Education alla Corte Suprema e ha difeso molti altri casi in favore dell’eguaglianza degli afroamericani). E questo ancora prima delle elezioni dello scorso novembre, in cui i repubblicani hanno ottenuto una vittoria schiacciante in entrambe le Camere, sottraendo la maggioranza del Senato ai democratici. Per parte sua, l’elezione di Obama alla Presidenza – senza dubbio un passaggio dalla grande portata storica e culturale – ha ingenerato una serie di reazioni profondamente ostili, tanto che l’ultima campagna elettorale si è giocata tutta sull’opposizione alla sua figura, strategia che nelle urne si è dimostrata vincente.

Questo è il contesto politico e sociale in cui si inserisce la decisione di non incriminare il poliziotto che ha ucciso Micheal Brown (considerazioni analoghe valgono per il caso di Eric Garner, ancora più soprendente perché la dinamica del suo omicidio è stata registrata in un video). Occorre ricordare, anzitutto, che la funzione del grand jury (previsto in molti stati ma non in altri, poiché il relativo diritto di cui al V emendamento non è stato “incorporato”), è quella di decidere sull’eventuale rinvio a giudizio (indictment) di un individuo in caso di reati penali gravi.

Il ricorso al grand jury non è obbligatorio, ma il prosecutor lo utilizza spesso nei casi più delicati, per evitare che la decisione sull’incriminazione ricada solo su di lui. Il prosecutor, infatti, che in molti stati è elettivo, lavora a stretto contatto con la polizia e riceve da questa il materiale per le incriminazioni, e per questo motivo tende ad essere piuttosto benevolo nei confronti degli agenti. L’esito del procedimento dinanzi al grand jury non è un verdetto (non si tratta di un trial), ma, appunto, una decisione sull’indictment.

Come hanno sottolineato Bernard Harcourt e Jeffrey Fagan in un fact sheet diffuso prima del Forum on Ferguson, il procedimento nel caso Micheal Brown è stato anomalo da più punti di vista. Normalmente, il prosecutor presenta le prove essenziali utili all’indictment, evitando di far ascoltare al grand jury molti testimoni per non creare prove utilizzabili dalla difesa durante il trial. In questo caso, invece, il prosecutor ha chiamato più di 60 testimoni, sottoponendo ad una intensa cross-examination quelli favorevoli all’imputazione e facendo apparire inconsistenti le loro deposizioni (mentre lo stesso trattamento è stato risparmiato all’ufficiale di polizia, che ha deposto indisturbato per quattro ore consecutive). Quando si è trattato di trasmettere ai giurati le instructions relative al diritto da applicare, un’assistente del prosecutor ha dato al grand jury le informazioni sbagliate, presentando una norma che ammetteva l’uso della deadly force anche nei confronti di un fuggitivo e senza che vi fosse una minaccia concreta per la sicurezza del poliziotto o della comunità. Una norma analoga di un altro stato, tuttavia, era stata dichiarata incostituzionale dalla Corte Suprema per violazione del IV emendamento (Tennessee v. Garner, 1985). Solo poco prima della fine del procedimento e molti giorni dopo la testimonianza dell’ufficiale coinvolto, l’assistente ha comunicato ai grand jurors la norma corretta. La gravità di questi comportamenti va valutata alla luce del fatto che, nell’aula, i giurati sono soli con il prosecutor e i suoi assistenti, non essendo presente né un giudice né gli avvocati dell’indagato o della vittima (o dei familiari di questa). Nonostante il procedimento davanti al grand jury sia segreto, inoltre, in questo caso il prosecutor ha reso pubblici, poco dopo la decisione di no indictment, tutti gli atti del procedimento, suscitando la falsa impressione che si trattasse di testimonianze assunte in un trial e con le garanzie di quest’ultimo.

Di regola, i procedimenti dinanzi al grand jury si concludono con un’incriminazione, dal momento che lo standard da provare è soltanto la probable cause, ossia la probabilità “ragionevole” che l’indagato abbia commesso il fatto. Nei procedimenti contro i poliziotti, tuttavia, la tendenza si inverte, poiché le fattispecie giustificative della deadly force previste dalle leggi statali restano molto ampie, nonostante la sentenza Tennessee v. Garner richiamata più in alto. Così, la legge del Missouri autorizza l’uso della fatal force se l’ufficiale di polizia lo ritiene necessario “per effettuare l’arresto” … o se crede che “la persona da arrestare [abbia] commesso o tentato di commettere un reato grave … o [possa] altrimenti mettere in pericolo la vita o provocare gravi lesioni fisiche”. Alla luce di ciò, non stupisce che i dati relativi al rinvio a giudizio di poliziotti per l’omicio di cittadini neri siano estremamente bassi (i dati raccolti nel fact-sheet di Harcourt e Fagan sono eloquenti in proposito).

Il problema appare quindi in una duplice prospettiva: i pregiudizi razziali nel sistema penale e di polizia si affiancano ad un uso della deadly force particolarmente frequente da parte dei poliziotti a livello statale, uso incentivato dalle norme permissive in materia di possesso di armi (gli agenti spesso motivano la reazione, risultata poi letale, dichiarando di aver creduto che la vittima fosse armata).

Quali sono i rimedi nei confronti della decisione del grand jury della contea di St Louis nel caso Micheal Brown e di quella di Staten Island nel caso Eric Garner? Il bill of no indictment non è impugnabile, ma rispetto ad esso non opera il ne bis in idem (protezione della double jeopardy). A livello statale è possibile, ancorché improbabile, che venga convocato un altro grand jury da parte del medesimo prosecutor. Un’alternativa meno remota potrebbe essere la nomina di uno special prosecutor che ripresenti le prove dinanzi ad un nuovo grand jury per l’incriminazione (la nomina può avvenire da parte del governatore o di una corte statale). In passato, è avvenuto che qualche corte statale rimuovesse i prosecutors locali per ragioni di conflitto di interesse. A livello federale, il Department of Justice sta già svolgendo indagini parallele, anche se l’imputazione per un reato federale è più ardua da raggiungere, richiedendo la prova, “al di là di ogni ragionevole dubbio”, dell’intento di privare la vittima di un suo diritto costituzionale. Le famiglie delle vittime, infine, possono presentare un’azione civile per danni in una corte federale.

Al di là dei problemi pratici legati ai singoli rimedi giuridici, le uccisioni di Michael Brown e di Eric Garner (e molte altre simili se ne potrebbero ricordare) catturano la nostra attenzione perché continuano a interrogare le diverse comunità che, più o meno direttamente, sono state coinvolte, su questioni di identità, di appartenenza e di giustizia. Questi avvenimenti, in altre parole, scuotono profondamante il discorso pubblico sul significato della costituzione come base del vivere comune.