Le tecnologie avanzano, le norme passano ma le costituzioni rimangono.

La Commissione per i diritti e i doveri in Internet, nota anche come “Commissione Boldrini”, istituita su volontà del Presidente della Camera, ha licenziato la prima bozza della carta dei diritti sulla quale si erano concentrati i suoi lavori nei mesi scorsi.

Si tratta di un primo passo in avanti, senz’altro apprezzabile, nel tentativo di gettare luce su una dimensione, quella della rete, dove, accanto a nuove opportunità per l’esercizio dei diritti umani hanno fatto la loro comparsa anche forme di minaccia inedite rispetto al passato. Troppo spesso lo scenario si è così rivelato incerto, sollevando interrogativi sull’opportunità (rectius: necessità) di istituire regole ad hoc per quest’ambito.

A un primo esame, del tutto preliminare, due paiono i problemi che ancora possono inficiare la riuscita dei propositi, senz’altro lodevoli, sottesi alla Dichiarazione.

Da un lato, l’incertezza sulla “forza” normativa che la Dichiarazione è destinata a rivestire, trattandosi di un documento che -anche per la sua attuale conformazione- appare destinato a essere relegato nell’ambito delle fonti di soft law più che di hard law, e dunque condannato a svolgere una funzione prevalente di moral suasion, e non quella di vera e propria normativa.

Dall’altro lato, oltre ai dubbi sulla forza giuridica e dunque sull’enforcement, si palesa il problema di una tecnica normativa assai carente, che emerge in modo piuttosto evidente dall’analisi delle previsioni contenute nella Dichiarazione. Un contenuto che, sotto il profilo strettamente giuridico, si palesa talora deficitario, forse per effetto del necessario compromesso politico di cui la Dichiarazione costituisce il risultato.

Il rilievo è ovviamente connesso alle ambizioni del progetto: una enunciazione di principi molto valida e opportuna, se tale aspira a rimanere; una carta dei diritti molto debole, se questo è l’obiettivo della Commissione.

Il Preambolo della Dichiarazione offre certamente un quadro di sintesi sulle opportunità create da Internet e sulla sua dirompente portata nel campo sociale, economico, politico. Dato atto dei “meriti” ascrivibili a questo nuovo mezzo, il Preambolo sembra volersi soffermare sulla necessità di approntare un impianto di regole funzionale ad assicurare che le nuove opportunità offerte dalla tecnologia siano effettive ed effettivamente garantite e non si trasformino invece in forme di  discriminazione.

Non appare tuttavia esente da criticità la formulazione impiegata dal Preambolo, laddove compare un riferimento all’art. 8 della Carta dei diritti fondamentali, che afferma il diritto alla protezione dei dati personali. Ebbene, tale norma viene indicata dal Preambolo come “il riferimento necessario per una specificazione dei principi riguardanti il funzionamento di Internet, anche in una prospettiva globale”. Sfugge invero il senso di questo inciso, né esso giova all’argomento della Commissione poiché il diritto alla data protection costituisce senz’altro uno dei principali diritti umani interessati dall’avvento di Internet, ma non certo l’unico né probabilmente il principale, né il più adatto, ad avviso di chi scrive, a racchiudere l’essenza dei principi sul funzionamento di Internet. A ciò si aggiunga che se c’è, nell’era digitale, una declinazione del diritto alla  privacy che sembra non poter ambire ad una protezione globale è proprio la tutela “europea”, in vero quasi assoluta, che l’art. 8 della Carta accorda al diritto alla protezione dei propri dati personali. Tutela che si scontra, come anche recentemente è nitidamente emerso,  con la concezione, molto meno fundamental right based, che dello stesso diritto ha l’esperienza, anche costituzionale, statunitense.

Improprio appare altresì un altro inciso, frutto di una mediazione perlopiù ideologica: la Dichiarazione, recita il Preambolo, si fonda sul riconoscimento di “libertà, uguaglianza, dignità e diversità” di ogni persona. Perché parlare di diversità, se viene tutelata l’uguaglianza? L’uguaglianza è proprio ciò che consente di preservare la diversità, come valore costituzionalmente rilevante, e di impedire al contempo che essa divenga fonte di iniqua discriminazione.

Ma l’affermazione più problematica contenuta nel Preambolo è senz’altro quella conclusiva, con la quale la Dichiarazione si auto afferma come “strumento indispensabile per dare fondamento costituzionale a principi e diritti nella dimensione sovranazionale”. Si tratta di una sortita che risulta criticabile per almeno due ordini di motivi.

Il primo. Sotto un profilo strettamente giuridico, in termini di enforcement, non si comprende come un documento, comunque collocato nella gerarchia delle fonti o relegato al campo della soft law, possa assurgere a strumento di protezione di un set di principi e diritti a livello sovranazionale. E’ del tutto evidente che su Internet sono destinate a scontrarsi, per via dell’aterritorialità che le è propria, diverse sensibilità “costituzionali” e diverse visioni dei diritti in gioco. Pretendere che un documento di incerta forza giuridica possa fondare un riconoscimento costituzionale nella dimensione sovranazionale di tali diritti appare, se non una petizione di principio, quantomeno un’ambizione peregrina.

Il secondo. Prescindendo dagli aspetti inerenti all’efficacia sovranazionale di un documento concepito a livello nazionale, viene da interrogarsi se la Dichiarazione non abbia sottovalutato in primo luogo il catalogo di diritti fondamentali tuttora vigente nel contesto europeo, che è frutto del combinarsi tra la Carta dei diritti fondamentali e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Non è casuale che l’attività delle due corti europee, quella di Lussemburgo e quella di Strasburgo, abbia offerto (in modo tendenzialmente brillante) prova della capacità di farsi interprete di una nuova sensibilità nell’applicazione dei diritti fondamentali in gioco nella dimensione di Internet. Il tutto senza che fosse necessaria la definizione di norme ad hoc, che considerassero segnatamente le peculiarità di Internet, ma riconducendo piuttosto le situazione di tutela di volta in volta rilevanti ai parametri di giudizio più conferenti, primo fra tutti la libertà di espressione.

Qui si giunge a un altro aspetto, che interessa l’intero impianto della Dichiarazione e conduce direttamente all’esame dei suoi articoli: è necessario pensare a una carta dei diritti per Internet? Non bastano cioè le regole a tutela dei diritti fondamentali già vigenti? La risposta a questo interrogativo, ad avviso di chi scrive, deve confrontarsi con il rapporto che intercorre fra diritto e tecnologia. Ogni avanzamento di stadio tecnologico ha da sempre creato nuove opportunità e nuove minacce sul piano giuridico, senza tuttavia rendere necessaria l’istituzione di regole appositamente pensate per fronteggiare la novità del mezzo. Per esempio, la disponibilità di nuovi mezzi di trasporto ha certamente ampliato la possibilità di un effettivo esercizio della libertà di circolazione, che trova tutela nell’art. 16 della Costituzione,  senza tuttavia rendere necessario ripensare questa norma. Occorre allora riflettere sull’effettiva necessità di introdurre un diritto di accesso a Internet, quando lo stesso diritto potrebbe senz’altro essere riconosciuto come appendice della possibilità di esercitare, grazie alle nuove tecnologie, le libertà costituzionalmente tutelate in un “ambiente” nuovo, digitale.

Proprio per questo desta dubbi la formulazione dell’art. 2 della Dichiarazione, che se per un verso si riferisce all’accesso come un diritto fondamentale, per altro lo riguarda come un vero e proprio diritto sociale, imponendo la realizzazione degli interventi pubblici necessari”per il superamento di ogni forma di divario digitale”. Ma anche qui, non basterebbe il nostro art. 3 della Costituzione, specie nel suo c. 2?

Analogo problema si riversa nell’art. 4, che si concentra sulla tutela dei dati personali.  La norma appare come una summa, una sintesi a volte un po’ confusa di principi già consolidati nello scenario europeo nella direttiva 95/46/CE sul trattamento di dati personali. Per quale motivo ribadire in questa sede quanto è già parte della legislazione europea e in quella interna di recepimento? Ve ne era la necessità? Forse no, tant’è vero che la norma non menziona mai Internet.

Discorso identico si applica al successivo art. 5, sull’autodeterminazione informativa: anche qui, infatti, non si ha riscontro di nulla di innovativo, ma solo della rielaborazione testuale di principi che già sono affermati e già hanno efficacia nel panorama interno ed europeo. Lo stesso dicasi per l’art. 7, che parla di trattamenti automatizzati.

L’art. 6 è una norma ancora più curiosa, che mira a estendere (ove mai fosse necessario) la riserva di giurisdizione (ossia la necessità inderogabile di un provvedimento dell’autorità giudiziaria) all’ambito delle intercettazioni dei flussi di comunicazioni elettroniche e alle interferenze con il domicilio informatico. Nulla di più scontato nella giurisprudenza costituzionale e di legittimità che ha interessato l’art. 14 e soprattutto l’art. 15 della Costituzione. Cui prodest un’affermazione (peraltro dalla formulazione davvero infelice) di queste garanzie, che appare davvero ultronea?

Si passa poi a un trittico di norme che appaiono inestricabilmente connesse, dedicate rispettivamente all’identità, all’anonimato e all’oblio.

Sembra anzitutto inopportuna la scelta di scindere in due disposizioni distinte due profili che sembrano riconducibili a unità. Da un lato, infatti, l’art. 8 (diritto all’identità) enuncia il diritto a una rappresentazione integrale e aggiornata della propria identità su Internet. Dall’altro, l’art. 10 codifica il diritto all’oblio come mero diritto alla rimozione di dati dagli indici dei motori di ricerca. Non sarebbe forse il caso di parlare più propriamente di un diritto all’oblio come corollario del diritto all’identità personale, che la giurisprudenza costituzionale ha già riconosciuto trovare fondamenta nell’art. 2 della Costituzione?

Entrambe le norme sono inappaganti.

Dapprima, l’art. 8 fa riferimento al concetto di “rappresentazione integrale e aggiornata” della propria identità. Aggiunge, poi, che “la sua definizione riguarda la libera costruzione della personalità” (il che appare scontato) “e non può essere sottratta all’intervento e alla conoscenza dell’interessato”.

Che cosa significa istituire un diritto alla rappresentazione “integrale e aggiornata” dell’identità? La norma non prevede alcuna forma di bilanciamento rispetto ad altri diritti, come la libertà di informazione. Un’affermazione in termini così radicali sembra poter aprire a conseguenze che sul piano di alcune attività come quella giornalistica sono di sicuro detrimento. Soprattutto, rivendicare il controllo dell’interessato sulla costruzione della sua identità in rete significa trascurare l’esistenza di dati e informazioni di rilevanza o interesse pubblico, il cui ingresso nella sfera pubblica non può essere condizionato dal consenso dell’interessato.

L’art. 10 invece aderisce alla nozione (impropria) di diritto all’oblio elaborata dalla Corte di giustizia nel caso Google Spain. Ma non si tratta di un vero e proprio diritto all’oblio, che è concetto altro rispetto a quanto la Corte di giustizia ha affermato, riconducendolo ai principi enunciati dalla direttiva 95/46.  Oltretutto, nell’utilizzare la formula “dati che, per il loro contenuto o per il tempo trascorso dal momento della loro raccolta, non abbiano più rilevanza” la Dichiarazione riproduce le stesse difficoltà interpretative che connotano la pronuncia della Corte di giustizia, tutt’altro che cristallina nell’indicare a quali condizioni la rimozione dei link possa essere assicurata. Ancora più problematico è quanto segue: l’art. 10 precisa che il diritto può essere esercitato “dalle persone note o alle quali sono affidate funzioni pubbliche solo se i dati che le riguardano non hanno alcun rilievo in relazione all’attività svolta o alle funzioni pubbliche esercitate”. Qui si introduce un primo criterio (appena accennato dalla Corte di giustizia nella sentenza Google Spain) molto debole per distinguere le varie situazioni in cui è richiesta la rimozione di link dai risultati di ricerca. Si parla di persone “note”: quale corrispondente ha questo concetto empirico sul piano del nozionismo giuridico? Appare chiaro che la norma intende alludere alla persistente esistenza di un interesse pubblico alla conoscenza di una notizia, e conseguentemente alla sua indicizzazione sui motori di ricerca. Ma la formulazione è davvero infelice e appare destinata a essere foriera di innumerevoli criticità.

Un solo cenno al diritto all’anonimato, di cui all’art. 9: giusto tutelare anche la libertà di comunicare elettronicamente (meglio sarebbe stato dire “diffondere elettronicamente il proprio pensiero”) come strumento di esercizio effettivo di libertà civili e politiche. Vero è, però, che l’art. 21 della Costituzione tutela la libertà di manifestare il “proprio” pensiero. Occorre forse maggiore cautela, o comunque un raccordo che permetta di leggere in armonia queste disposizioni.

Tra le ultime disposizioni, balza all’occhio la norma affidata all’art. 12: un concentrato di tutto.

Si parte con la sicurezza in rete, definita “interesse pubblico”.  E fin qui, poco da discutere, sennonché le infrastrutture sono strumenti privati e forse rivendicare un intervento pubblico a tutela della sicurezza delle reti appare improprio.

Ma  veniamo al punto successivo: da un lato, si afferma solennemente che non sono ammesse limitazioni della libertà di manifestazione del pensiero; dall’altro si prevede la garanzia della dignità delle persone da abusi connessi a “comportamenti negativi” come l’incitamento all’odio, alla discriminazione e alla violenza. Che cosa vuole asserire questa norma? Che è tutelata ogni forma di espressione tranne il cosiddetto hate speech? Sono queste le uniche limitazioni ammesse? E quelle previste dall’art. 21 della Costituzione e dalle altre disposizioni dell’ordinamento che codificano i cosiddetti “limiti impliciti”? Ma poi, quali strumenti per limitare –in questi casi- la libertà di espressione? Occorre comunque un set di garanzie, considerando che si incide su una libertà costituzionalmente tutelata? Mistero assoluto.

Il commento all’ultima delle norme previste dalla bozza di Dichiarazione permette di trarre, anche sulla base di quanto si è finora argomentato, alcune conclusioni.

La norma è dedicata ai “criteri per il governo della rete” ed evoca, quali condizioni per la tutela dei diritti in rete: la costruzione di regole conformi alla dimensione universale della rete, che ne garantiscano il carattere aperto e democratico; la partecipazione dei vari stakeholders anche in forme di autoregolamentazione in grado di preservare la capacità innovativa della rete; la costituzione di autorità nazionali e sovranazionali.

Si tratta indubbiamente di un novero di strumenti, alcuni dei quali già efficacemente collaudati (si pensi alle autorità indipendenti in materia), che risultano funzionali ad assicurare maggiori possibilità per un effettivo enforcement di quel set di diritti che la Dichiarazione stessa proclama. E, tuttavia, occorre riflettere, muovendo da quanto si è già ampiamente evidenziato riguardo all’opportunità di regole pensate ad hoc per Internet, se un’ulteriore compartimentazione giovi al proposito di rafforzare la tutela dei diritti fondamentali in rete. La frammentazione del reticolato giuridico che deriva dall’adozione di strumenti che riflettono la sensibilità squisitamente domestica su problematiche di dimensione globale, in altri termini, appare invero più un ostacolo che uno strumento utile alla causa dei diritti in rete. Quantomeno se la Dichiarazione, come sembra, pare volersi ritagliare un ruolo da protagonista e forse da traino rispetto ad analoghe iniziative in altri stati, trascurando però che molti dei risultati cui essa aspira sono già stati raggiunti attraverso la valida opera interpretativa delle corti. Se invece l’obiettivo è quello, più modesto e meno ambizioso, di voler guidare l’interpretazione delle disposizioni già esistenti e forse stimolare alcune riforme che rafforzino la tutela di alcuni valori in gioco, con i miglioramenti del caso la Dichiarazione potrà senz’altro aver pregio.

Le tecnologie si succedono, le norme forse passano ma le costituzioni rimangono.

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