Leggendo Comparative Constitutional Theory, ed. By G. Jacobsohn e M. Schor (Elgar, 2018)

Qual è lo stato di salute della scienza costituzional-comparatistica negli Stati Uniti? I costituzionalisti americani restano ancorati alla centralità della propria esperienza nazionale ed alla fiducia nella forza attrattiva e paradigmatica del costituzionalismo statunitense? Gli studi di Mark Tushnet hanno aperto delle brecce nella granitica convinzione che il judicial review fondato dal Chief Justice Marshall sia sempre e comunque il miglior metodo di protezione dei diritti e della Costituzione? Il lavoro di Michel Rosenfeld ha effettivamente ampliato gli orizzonti della comparazione oltre i tradizionali casi di interesse per gli studiosi americani, usualmente limitati all’America latina e ad altri Stati anglofoni? Le analisi di Vicky Jackson sono riuscite a diffondere la consapevolezza che l’esperienza giuridica statunitense sta vivendo una fase di isolamento ed “eccezionalismo” rispetto alle grandi transizioni dell’esperienza giuridica contemporanea, e che stanno progressivamente plasmando un costituzionalismo globale?
Una rassicurante risposta a queste domande viene ora dall’impegnativo volume “Comparative Constitutional Theory” curato da Gary Jacobsohn e Miguel Schor (Elgar, 2018, 539 pp.). Il volume raccoglie 24 saggi di studiosi provenienti da diversi Paesi e Università, chiamati a confrontarsi con le grandi domande della teoria costituzionale contemporanea, che i curatori nella loro introduzione vedono tutte espresse ed efficacemente sintetizzate nel Federalist.
Benché non manchino saggi dedicati ad ambiti ed esperienze specifiche, come l’America Latina o la Cina, o a temi specifici, come la libertà religiosa o la giustizia di transizione, la gran parte dei contributi converge, pur da differenti prospettive, su alcuni nodi comuni: l’emersione di concetti e tecniche globali che le pratiche di judicial dialogue diffondono oltre i confini nazionali; la problematica saldatura della tensione tra processi democratici e judicial supremacy.
Le dinamiche del costituzionalismo globale vengono analizzate da due saggi in tema, rispettivamente, di dignità (Weinrib) e proporzionalità (Ferreres Comella), che fanno il punto sullo sviluppo di queste nozioni e sulla loro diffusione su scala globale.
La tensione tra representative democracy e judicial supremacy è invece al centro di un numero maggiore di saggi, tra i quali spiccano quelli di Gardbaum e Schor. L’interesse di questi lavori dipende dal distacco critico dei due autori dal modello americano di judicial review, e dalla corrispondente valorizzazione delle sollecitazioni di Jeremy Waldron in tema di difesa della dignity of legislation, della parliamentary sovereignty e di un rinnovato popular constitutionalism. Sulla scia di queste suggestioni, vengono valorizzate le esperienze della Nuova Zelanda dopo l’adozione del Bill of Rights, del Regno Unito dopo l’approvazione dello Human Rights Act, e del Canada dopo l’adozione della Carta dei diritti e delle libertà. L’esperienza canadese, in particolare, è considerata con interesse: pur adottando un sistema di judicial review e pur avendo sviluppato tecniche di interpretazione costituzionale attiviste, anche grazie all’apprendimento comparativo da altre giurisdizioni supreme e costituzionali, la Corte Suprema canadese è inserita in una maglia di vincoli costituzionali (richieste di parere preventivo, la notwithstanding clause) che consentono ai parlamenti nazionale e territoriali di intessere un dialogo con la Corte ed opporre esigenze politiche insopprimibili alle sentenze di incostituzionalità.
Gardbaum e Schor convergono in un’analisi critica della debolezza del judicial review statunitense nel suo rapporto con il Government, ed enfatizzano le virtù dei sistemi di sindacato di costituzionalità che Tushnet ha altrove definito “deboli”: essi riescono, in un approccio dialogico e cooperativo, a favorire convergenze e rimeditazioni delle rispettive posizioni di legislativo e giudiziario, e raggiungono un punto di equilibrio più sofisticato tra istanze individuali di giustizia e valori politici generali (sul punto, v. pure il bel saggio di F. Duranti nel recente volume Ius Dicere in a Globalized World. A comparative overview, Roma TrE-Press, 2018, a cura di A. D’Alessandro e C. Marchese).
Qual è, dunque, lo stato di salute degli studi comparativi negli States? Non mi sento di condividere l’ottimismo dei curatori, che nella loro introduzione parlano di un comparative turn nella scienza giuridica statunitense; ma il volume “Comparative Constitutional Theory” segna alcuni spunti di interesse: esso fa convergere su alcuni temi tradizionali del costituzionalismo americano una massa di esperienze, visioni e riflessioni che prescindono dalla centralità del modello americano, evidenziano un dialogo transnazionale assai variegato e spesso indipendente dal canone statunitense ed enfatizzano un’esigenza culturale di dialogo ed allargamento degli orizzonti della conoscenza giuridica.