L’executive order di Trump: una “cronaca costituzionale”

Introduzione

Il 27 gennaio scorso, a pochi giorni dall’insediamento, il Presidente americano Trump ha adottato un executive order intitolato “Protecting the Nation from foreign terrorist entry into the United States”. Il provvedimento, traducendo in atto alcune delle misure più significative anticipate in campagna elettorale, da un lato sospende per 90 giorni l’ingresso di soggetti nati in (o con passaporto di) Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen; dall’altro vieta per 120 giorni l’ingresso di rifugiati di qualunque provenienza, salvo che provengano dalla Siria, nel qual caso il divieto è a tempo indeterminato.

Le reazioni nel dibattito pubblico interno ed internazionale sono state assai accese. Lo scontro politico si è subito trasposto anche nelle sedi giurisdizionali: adite in via d’urgenza, alcune Corti federali (fra le ultime, quella di Seattle, che si è pronunciata con decisione efficace su tutto il territorio americano) hanno sospeso l’applicazione dell’executive order, sebbene solo in via cautelare e senza aver modo di esaurire l’esame nel merito degli aspetti di possibile incostituzionalità.

La vicenda tocca temi cruciali, primi fra tutti i principi di uguaglianza e non discriminazione; ma, in misura non minore, chiama in causa i reciproci equilibri fra potere esecutivo, legislativo e giudiziario, preludendo a una sorta di “constitutional showdown”.

Da qui emerge l’opportunità di una breve riflessione sugli aspetti di possibile incostituzionalità dell’atto presidenziale. In questa prospettiva, seguendo gli orientamenti emersi anche nel dibattito americano, i nodi problematici sono principalmente due: la compatibilità dell’executive order di Trump con la legislazione in materia d’immigrazione; la conformità dei suoi contenuti al XIV emendamento, che assicura a ogni persona l’uguale protezione davanti alla legge.

Il fondamento legale e costituzionale dell’executive order

La prima questione da affrontare riguarda la compatibilità dell’executive order con l’Immigration and Nationality Act (INA), cioè la legge adottata dal Congresso nel 1952 (e più volte modificata) per disciplinare in modo organico la materia dell’immigrazione.

L’atto presidenziale che ci occupa – come si legge nel suo preambolo – è esplicitamente adottato anche sulla base dei poteri che l’ INA attribuisce alla Casa Bianca e ciò impone di verificare se il potere presidenziale sia stato esercitato in conformità ad essa.

Una verifica tutt’altro che agevole. Infatti, il par. 1152 dello U.S. Code, Titolo VIII (in cui l’INA è trasfusa) – fatta eccezione per alcuni casi tassativamente indicati, che riguardano, ad esempio, ipotesi di ricongiungimento familiare, possesso di particolari titoli di studio o benemerenze  – sancisce: “no person shall receive any preference or priority or be discriminated against in the issuance of an immigrant visa because of the person’s race, sex, nationality, place of birth, or place of residence”. Il successivo par. 1182 prevede tuttavia che “whenever the President finds that the entry of any aliens or of any class of aliens into the United States would be detrimental to the interests of the United States, he may by proclamation, and for such period as he shall deem necessary, suspend the entry of all aliens or any class of aliens as immigrants or nonimmigrants, or impose on the entry of aliens any restrictions he may deem to be appropriate”.

Come si vede, la clausola generale di non discriminazione del par. 1152 è temperata, al par. 1182, dalla possibilità per il Presidente di restringere o impedire l’ingresso di tutti gli stranieri o di classi di stranieri, per il tempo e nei modi che ritenga appropriati, là dove questo leda interessi degli Stati Uniti.

A questo quadro va poi aggiunta la disciplina dei parr. 1182, 1226A e 1227, che qualificano come “inadmissibile aliens” e “deportable aliens”, fra gli altri, i soggetti sospettati di terrorismo.

Nel complesso, la legge intesta al Presidente margini d’intervento ampiamente discrezionali, e prefigura essa stessa – sebbene in ipotesi eccezionali – possibili differenziazioni di trattamento, specie ove venga evocata la minaccia terroristica. Queste considerazioni inducono a ritenere che difficilmente il provvedimento di Trump possa essere censurato sul parametro dell’INA.

Alla stessa conclusione si giunge considerando che la legge sull’immigrazione del 1952, pur essendo nella vicenda il più rilevante, non è l’unico fondamento giuridico del potere presidenziale d’intervenire in materia. Occorre ricordare, infatti, che la Costituzione americana – ispirata ad un rigido principio di separazione dei poteri – conferisce in via originaria ed autonoma al Presidente la titolarità del potere esecutivo (art. 2, Sez. I), il compito di provvedere all’esecuzione delle leggi e di dirigere tutti i funzionari e gli apparati dell’amministrazione (art. 2, Sez. III), il ruolo di Comandante in capo dell’esercito (art. 2, Sez. II). Gli executive orders sono uno strumento tipico di cui i presidenti americani si avvalgono per esercitare le proprie attribuzioni: il potere di adottarli discende direttamente dalla Costituzione, e pur non potendo contrastare con la legge, essi consentono un significativo spazio di manovra politica alla Casa Bianca nell’attuare la legge o nel provvedere su aspetti che il Congresso non ha regolato.  In questa prospettiva, non è casuale che nel preambolo del proprio executive order Trump si sia richiamato non solo all’INA, ma anche ai poteri che la Costituzione gli conferisce in qualità di Presidente: ciò al fine di evidenziare come il provvedimento si fondi non solo sulla legge in materia d’immigrazione, ma – in aggiunta e a prescindere – anche sulle prerogative presidenziali legate alla direzione dell’amministrazione, alla sicurezza e alla difesa.

Executive order ed Equal protection clause

Il secondo nodo problematico su cui occorre riflettere riguarda il contenuto dell’atto in esame. Nel dibattito pubblico, la questione è stata riassunta in questi termini: è legittimo il divieto d’ingresso per immigrati e rifugiati in ragione della loro provenienza da Paesi a maggioranza islamica? Tale impostazione, però, non sembra del tutto corretta, se dal piano delle dichiarazioni politiche si passa a considerare il testo dell’executive order. Infatti, è senz’alto vero che Trump, già in campagna elettorale, ha più volte presentato all’opinione pubblica il proprio provvedimento come un “muslim-ban”; tuttavia, all’interno dell’executive order, il divieto d’ingresso non è ancorato a criteri religiosi, ma allo Stato di provenienza e a ragioni connesse al terrorismo.

La differenza, pur sottile, non è affatto irrilevante, e va illustrata. Più in particolare, nell’atto presidenziale, fra i Paesi gravati dal “blocco” solo la Siria viene espressamente nominata. L’individuazione di tutti gli altri è invece operata per rinvio, facendosi riferimento a “countries referred to in section 217(a)(12) of the INA, 8 U.S.C. 1187(a)(12)”. Quest’ultima norma è stata introdotta nel 2015, sotto la presidenza Obama, con il “Visa Waiver Program Improvement and Terrorist Travel Prevention Act of 2015”. Essa esclude che possano beneficiare del Visa Waiver Program (che consente di soggiornare negli Stati Uniti fino a un massimo di 90 giorni senza Visa) quanti, per transito o nazionalità, provengano da Siria, Iraq e dagli altri Paesi che – sulla base della normativa applicabile e delle direttive del Segretario di Stato – abbiano ripetutamente supportato atti di terrorismo internazionale: cioè, se si guarda a tali direttive, proprio Iran, Sudan, Libia, Somalia e Yemen.  Il gioco di  scatole cinesi fra rinvii normativi ha dunque il seguente esito: il perimetro dei Paesi colpiti dall’executive order di Trump è in realtà ripreso in toto dalla precedente legge del 2015, la quale a sua volta lo delinea sulla base di valutazioni legate al rischio terroristico. Ne segue che la riflessione sull’eventuale discriminatorietà dei criteri non potrebbe non coinvolgere, in pari tempo, sia la legge di Obama che l’executive order di Trump. Non è detto, tuttavia, che i risultati di questa ipotetica riflessione debbano essere gli stessi. Mentre infatti la prima si limita a escludere il semplice soggiorno senza VISA, il secondo proibisce tout court l’ingresso. Esiste dunque, fra le due, una significativa differenza in termini di proporzionalità della limitazione apportata, sul medesimo discrimine della provenienza, alla sfera giuridica delle persone.

Il discorso, a questo punto, deve necessariamente spostarsi a quanto la Costituzione americana e la giurisprudenza della Corte Suprema stabiliscono in materia di trattamenti discriminatori. La Costituzione, al XIV emendamento, impedisce di  “deny to any person […] the equal protection of the laws”. Nella propria giurisprudenza, la Corte Suprema ha chiarito come la previsione – che si applica pure ai soggetti non cittadini – impedisca discriminazioni nel godimento dei diritti fondamentali basate su parametri quali la razza, la religione, la nazionalità (cioè, le “suspect classifications” rivolte alle “insular minorities”), salvo che non venga dimostrato: a) che la discriminazione sia strettamente e ragionevolmente correlata alla soddisfazione di un interesse indifferibile dello Stato; b) che non vi siano misure alternative meno invasive, ugualmente idonee a soddisfare l’interesse pubblico. L’applicabilità di questa forma stretta di scrutinio alle norme dettate rispetto agli immigrati è stata espressamente enunciata nella sentenza Graham (1971). Numerosissimi, e di segno anche opposto fra loro, sono i precedenti, in cui sono venute in rilievo classificazioni basate su religione o provenienza. Limitandosi a quelli maggiormente sovrapponibili, si possono citare: il caso Chae Chan Ping (1889), in cui la Corte Suprema convalidò la legge che vietava l’ingresso ai cinesi su suolo americano; i casi Hyrabayashi (1943) e Korematsu (1944), in cui si sono ritenuti legittimi il coprifuoco e il trasferimento coatto di cittadini americani di origine giapponese, per evitare rischi di spionaggio in tempo di guerra; il caso Graham (1971), ove si è dichiarata incostituzionale una legge che escludeva da alcune misure assistenziali gli stranieri; il caso Doe (1982), in cui la Corte ha censurato una legge texana che impediva l’accesso alle scuole ai bambini entrati illegalmente negli Stati Uniti; il caso Church of the Lukumi Babalu Aye (1993), in cui si è ritenuta illegittima un’ordinanza che vietava l’uccisione di animali se non per fini alimentari, perché finiva per colpire in realtà solo una religione minoritaria presente sul territorio.

Come è chiaro, nell’intricato panorama giurisprudenziale è difficile predire la sorte di un eventuale (ma forse inevitabile) giudizio della Corte Suprema sull’executive order di Trump, sul quale, peraltro, giocherebbe in maniera decisiva il cleavage politico: è ancora ben presente all’opinione pubblica lo stallo decisionale che nel 2016 (U.S. vs. Texas) ha impedito alla Corte, divisasi esattamente fra repubblicani e democratici (4-4), di pronunciarsi sul merito dell’executive order di Obama, che consentiva ai migranti irregolari una permanenza temporanea sul suolo americano. Appare invece certo che questo ipotetico giudizio – come è avvenuto per la maggior parte dei precedenti finora citati – non rimarrebbe certo ininfluente sui rapporti fra giurisdizione, Presidenza e Congresso, contribuendo almeno in parte a ridefinire gli equilibri  in un assetto costituzionale, come quello americano, diviso fra “separated institutions competing for sharing power”.

 

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