Libertà e sicurezza: Maryland v. King ovvero il IV Emendamento nell’era del DNA

Con la sentenza Maryland v. King, la Corte Suprema torna a pronunciarsi sui presupposti di legittimità delle misure restrittive della libertà personale, oggetto della garanzia di cui al IV Emendamento, e sulle istanze di tutela della riservatezza che esse chiamano in causa.

Nel 2009, Alonzo King viene arrestato per aggressione e sottoposto a prelievo di un campione salivare, sulla base del Maryland DNA Collection Act, che dispone siffatta operazione a carico di tutti i soggetti arrestati (pur non ancora condannati) per una serie di crimini violenti; analoga previsione si riscontra, peraltro, nella legislazione di altri 28 stati e in quella federale.

Il campione di DNA così raccolto viene processato e collegato ad una traccia biologica raccolta sulla vittima di uno stupro risalente al 2003, il cui autore era rimasto ignoto; sulla base di tale riscontro, King viene accusato e rinviato a giudizio.

L’imputato eccepisce dunque l’incostituzionalità della legge del Maryland, la quale , prevedendo una limitazione della libertà personale irragionevole e non giustificata da uno specifico e circostanziato sospetto, violerebbe il IV Emendamento; la questione, valutata in modo divergente dal giudice di prime cure e in grado d’appello, giunge infine di fronte alla Corte Suprema tramite il writ of certiorari.

Il nodo ermeneutico fondamentale attiene l’individuazione del parametro, sulla cui base valutare la legittimità della misura indubbiata d’incostituzionalità, e più a monte la stessa interpretazione del IV Emendamento.

La maggioranza guidata dal giudice Kennedy (formata da Roberts, Thomas, Breyer e Alito), aderendo alle prospettazioni del Maryland, ritiene che «the touchstone of the Fourth Amendament is reasonableness, not individualized suspicion»; quest’ultimo requisito, nel caso in esame, sarebbe del resto ridondante: la circostanza che il soggetto si trovi già validamente assoggettato ad un regime di custodia, presuppone la sussistenza della probable cause richiesta per l’arresto, la quale assorbe la necessità di ulteriori motivi di sospetto.

Giusta la premessa, alla Corte spetta ponderare e bilanciare i contrapposti interessi, onde successivamente apprezzare la ragionevolezza dell’opzione legislativa.

Nel mappare la “topografia del conflitto”, si evidenziano nel dettaglio la pluralità di interessi pubblici meritevoli di tutela che fronteggiano la libertà personale e il diritto alla riservatezza del soggetto sottoposto al prelievo del DNA: quello all’identificazione dell’arrestato, alla garanzia della sicurezza del personale carcerario e dei detenuti, all’effettivo svolgimento del processo, al giudizio sulla pericolosità sociale, all’eventuale proscioglimento di individui erroneamente accusati.

Tali interessi trovano, nella composizione operata dal legislatore, un assetto non censurabile sotto il profilo della ragionevolezza, atteso il carattere minimale dell’intrusione prodotta dal tampone salivare, equiparabile alla più tradizionale raccolta delle impronte digitali o ai rilievi antropometrici, nei confronti peraltro di un soggetto in vincoli, che per definizione può vantare minori aspettative in termini di privacy.  Senza contare che la misura, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, è oggettivamente inidonea a disvelare informazioni sensibili: l’analisi del DNA effettuata ai sensi della normativa censurata riguarda esclusivamente materiale genetico “non-protein coding”, traducendosi in una stringa numerica utilizzabile a soli fini identificativi.

L’orientamento della maggioranza è avversato, con toni invero aspri e col suffragio di ampi riferimenti storici, dalla dissenting opinion del giudice Scalia (cui aderiscono Ginsburg, Sotomayor e Kagan): l’esclusione in radice di qualunque restrizione della libertà personale che non sia suffragata da un sospetto specifico e circostanziato, è il cuore stesso della garanzia apprestata dai Framers e inequivocamente codificata nel IV Emendamento, concepito come reazione, non priva di precedenti nelle prime costituzioni degli stati membri, ai general warrants imperanti sotto la dominazione britannica.

Nell’argomentare della minoranza, ai fini della legittimità della misura l’individualized suspicion rileva come elemento autonomo e distinto rispetto alla reasonableness: e a ben vedere questo rispetto a quello, pur partecipando del medesimo valore potrebbe dirsi “costitutivo”, rappresenta un posterius, che il giudice è chiamato ad apprezzare solo una volta ravvisata l’integrazione del fumus commissi delicti.

Né la conclusione pare doversi temperare in forza dei precedenti giurisprudenziali invocati dalla maggioranza. E’ ben vero che in certe fattispecie la Corte ha avallato misure restrittive della libertà personale sganciate dal presupposto dello specifico sospetto, ma in ognuno dei casi richiamati tale esito è stato giustificato sulla base di motivi affatto estranei alle esigenze investigative e all’attività di accertamento dei reati (ad esempio, i test tossicologici disposti a carico dei macchinisti, a tutela della sicurezza ferroviaria): «solving unsolved crime is a noble objective, but it occupies a lower place in the American pantheon of noble objectives than the protection of our people from suspicionless law-enforcement searches».

I suindicati motivi difettano nel caso in esame, giacché il prelievo del materiale genetico disposto ai sensi del Maryland DNA Collection Act è qualificato expressis verbis dalla legge stessa come strumento funzionale alle indagini.

Del tutto ingenua, al più concedere, è la tesi abbracciata dalla majority opinion, nella cui ricostruzione il tampone salivare assolverebbe ad esigenze identificative dell’arrestato: ciò non è realistico per le tempistiche dilatate e, soprattutto, per la circostanza che i campioni prelevati vengono processati all’interno del database contenente le tracce genetiche raccolte sulla scena di crimini irrisolti, che ab intrinseco non sono riconducibili a persone previamente identificate.

Nel complesso, la pronuncia in commento esibisce diversi profili di interesse, prontamente posti in luce tanto dalla dottrina quanto dagli ambienti giornalistici. Le nuove tecnologie investigative hanno imposto al supremo giudice statunitense una actio finium regundorum, volta a ridefinire un equilibrio fra i due poli della sicurezza e della libertà: da un canto, esse rappresentano uno strumento di impareggiata efficacia attraverso cui lo stato assolve i compiti di difesa sociale;  dall’altro, non può ignorarsi la loro potenziale lesività al cospetto della pretesa dell’individuo a disporre di una sfera intima inattingibile per l’autorità. Sullo sfondo si scorge l’agitarsi inestricabile di ottimismo ed inquietudine che sempre accompagna il progresso.

Non sorprende quindi che la sentenza, salutata dal giudice Alito come «perhaps the most important criminal procedure case that this Court has heard in decades», abbia prodotto una netta spaccatura in seno al collegio (5-4), spingendo gli old nine a collocarsi su posizioni difficilmente esauribili in termini di cleavages politico-accademici.

Meritano inoltre una menzione i moduli argomentativi impiegati dalla Corte, la quale non esita nel cimentarsi in uno sforzo didascalico costellato di riferimenti e nozioni scientifiche: come dimostra la sentenza (cronologicamente “gemella”) Association for Molecular Pathology v. Myriad Genetics, là dove, come sempre più spesso accade, il discorso giuridico interseca ambiti “tecnici” ma tutt’affatto estranei all’interesse dell’opinione pubblica, la Corte non può esimersi dall’onere, più penetrante rispetto a quello che su essa incombe nella generalità dei casi, di rendere intellegibile, e dunque potenzialmente condivisibile, il proprio processo decisionale ai vari livelli della sua constituency.