L’«urgenza democratica» come sfida politica e istituzionale all’Unione europea: a proposito della proposta “Democratizzare l’Europa!” di Hennette, Piketty, Sacriste e Vauchez

Nel dibattito sulla condizione degli attuali assetti democratico-istituzionali dell’Unione europea e la loro riforma si sono di recente inseriti, con un evidente obiettivo politico (Piketty è consigliere del candidato alla Presidenza francese Benoît Hamon), gli autori di un’ambiziosa proposta che, intitolata Democratizzare l’Europa!, indica nel sottotitolo, al contempo, il contenuto e la finalità dell’iniziativa: Per un Trattato di democratizzazione dell’Europa (il T-Dem). Firmato da Stéfanie Hennette, Thomas Piketty, Guillame Sancriste e Antoine Vauchez il libro, pubblicato in Italia dalla casa editrice La Nave di Teseo (2017), introduce, articola e commenta una proposta di Trattato, il T-Dem (57 ss.), che si prefigge di superare le gravi tensioni che scuotono oggi l’Unione europea, mettendone in discussione financo la sopravvivenza (dal populismo, alle politiche di austerità, alla diseguaglianza). Inaugurando un percorso che, con l’obiettivo di realizzare una piena democratizzazione dell’Unione europea, dia vita ad una vera e propria Assemblea che coinvolga cittadini, istituzioni, forze della società civile e chiunque voglia prendervi parte, si vuole così progressivamente dare spazio a quel «contropotere rappresentato dai partiti e dai movimenti sociali» che avrebbe il compito di «rintracciare i percorsi della politica europea» per opporsi «all’alternativa funesta tra un ripiegamento nazionale privo di respiro e lo status quo delle politiche economiche di Bruxelles» (17). A tal fine, sin dalle prime pagine, si invocano maggiore responsabilità politica e l’esigenza di «uscire dall’opacità» (14).
Parallelamente, del resto, anche a livello europeo si avverte con una certa chiarezza il tentativo di individuare futuri possibili sentieri da intraprendere per superare l’attuale fase di crisi, che però non sembrano sempre del tutto convergenti. Mentre la Commissione, per esempio, nella prospettiva di inserire i contenuti del Fiscal Compact nei Trattati così come previsto dall’art. 16 del TSCG, pubblica una comunicazione intitolata The Fiscal Compact: Taking Stock, cui sono collegati un Report, redatto ai sensi dell’art. 8, sull’attuazione dell’art. 3 II e una serie di documenti che presentano lo stato di attuazione paese per paese, gli stati europei, come noto, hanno da ultimo tentato di rilanciare il progetto europeo con la Dichiarazione di Roma. La direzione indicata in questo documento, più nel dettaglio, individua quattro principali ambiti di azione: un’Europa sicura, un’Europa prospera e sostenibile, un’Europa sociale e un’Europa più forte sulla scena mondiale. Da tutto ciò si ha l’impressione, lasciando da parte le implicazioni e le prospettive di un inserimento dei contenuti del Fiscal Compact nei Trattati e pur salutando con un certo favore le affermazioni contenute nella Dichiarazione, che proprio la questione dell’idea di democrazia cui si vuole tendere nei prossimi anni e dei contenuti di cui si vuole riempiere un concetto che appare necessario tentare di definire meglio sembri rimanere un po’ sullo sfondo. Se non si considerano i riferimenti alla sussidiarietà, allo spazio che si riconosce «alle preoccupazioni espresse dai nostri cittadini» e al ruolo degli stati membri e dei loro parlamenti nei futuri processi decisionali, a parte un breve passaggio iniziale, infatti, nel testo della Dichiarazione si rinviene un richiamo espresso al tema della democrazia europea solo quando si legge che gli stati si impegnano a promuovere «un processo decisionale democratico, efficace e trasparente, e risultati migliori». E tuttavia, se il riferimento all’Europa sociale può in effetti sembrare strettamente intrecciato con la questione democratica, come in Europa si è sempre verificato sin dalle ottocentesche battaglie per il suffragio universale, nello spazio pubblico europeo il tema del futuro dell’integrazione europea pare quasi indissolubile dalla condizione e dalla concezione della democrazia europea, come già era accaduto al tempo in cui la discussione si era focalizzata sul processo di parlamentarizzazione. Del resto, il sistema politico è in trasformazione anche – e forse soprattutto – al livello dei singoli stati nazionali e l’affermazione di nuove richieste di partecipazione e incisive forme di protesta, che sono espressione dell’intensa irrequietezza che caratterizza la tensione tra l’esercizio della sovranità popolare e i suoi limiti, appare piuttosto evidente. Tentare di ripensare i meccanismi di funzionamento della democrazia in Europa, pertanto, non sembra soltanto un esercizio di stile o una provocazione politica, ma un passaggio politico ineludibile.
Il libro, in questa prospettiva, muove da una critica molto dura all’attuale assetto istituzionale europeo, di fatto denunciando uno scenario che invererebbe un quadro che Jurgen Habermas ha definito di «autocrazia postdemocratica» (13). Sarebbe oggi in atto, in questa prospettiva, un vero e proprio «ripudio della democrazia» (13), con una sostanziale esclusione dai circuiti decisionali dei Parlamenti nazionali e del Parlamento europeo. In tale scenario, gli autori denunciano nel loro lavoro «una vera urgenza democratica» che impone di «rivedere i processi decisionali che governano l’eurozona» (52) e da qui prendono le mosse per lanciare una proposta che, se pare davvero di difficile realizzazione, sembra poter avere sostegno sufficiente per rilanciare il discorso pubblico su un tema decisivo per gli sviluppi futuri dell’Unione europea. In questo breve post, pertanto, non si vuole compiutamente discutere la dimensione di concreta realizzabilità della proposta, né sotto un profilo giuridico né politico (per alcune critiche cfr. S. Platon su verfassungsblog), limitandosi a riportare i principali contenuti elaborati dagli autori. Si vuole d’altro canto offrire la possibilità di riflettere su un’idea che tenta di rimettere al centro della discussione il problema del deficit democratico, smarcandosi dalla robusta critica di origine tedesca e rilanciando una possibile linea di sviluppo che proceda anche in assenza della partecipazione della Germania al progetto. E infatti gli autori si pongono anche il problema del caso non ricorrano le condizioni politiche per cui questo Trattato venga siglato da parte di tutti gli stati dell’eurozona. In questa circostanza, nella bozza sottoposta all’opinione pubblica europea dagli autori, spicca con grande evidenza come un articolo del T-Dem preveda già che il Trattato entri in vigore se lo ratificano 10 paesi su 19, in rappresentanza di almeno il 70% della popolazione: si potrebbe insomma approvare senza la Germania (46-47).
Come accennato, prima dell’articolato (qui in inglese), vera e propria proposta costruita su cinque titoli (I- Oggetto e campo di applicazione; II- Patto democratico dell’eurozona; III- Poteri e compiti dell’Assemblea parlamentare dell’eurozona; IV- Coerenza e rapporto con il diritto dell’Unione; V- Disposizioni generali e finali) per un totale di 22 articoli, corredati di commenti, gli autori affrontano il problema della «fattibilità giuridica» del trattato T-Dem e delineano ruolo, funzione e poteri dell’Assemblea.
Sotto il primo profilo, valutata l’impossibilità di procedere a una revisione dei Trattati, il T-Dem garantirebbe un «rapido cambiamento politico» (30), utilizzando gli stessi strumenti che hanno portato all’adozione del TSCG e del TMES, ma con l’intento di perseguire «finalità ben diverse», ovvero «la democratizzazione della governance dell’eurozona», riformando anche «istituzioni le cui competenze sono state caratterizzate in maniera piuttosto informale (“summit dell’eurozona”, “Eurogruppo”…) in modo da renderle efficienti e responsabili» (31). Gli autori sanno, e lo affermano del resto, che in realtà «solo una revisione dei trattati europei consentirebbe di offrire all’eurozona il quadro istituzionale capace di correggere i difetti d’origine dell’Unione economica e monetaria». Il T-Dem, tuttavia, sembra loro una strada più facilmente percorribile per affermare quella che viene definita la «“condizionalità democratica”». E l’obiettivo, si legge, è duplice: da un lato, fare «in modo che le politiche di convergenza e di condizionalità oggi al centro della “governance dell’eurozona” siano portate avanti da istituzioni democraticamente responsabili, a livello europeo come a livello nazionale»; dall’altro, effettuare quei «passaggi necessari» che vedano la convergenza fiscale e il coordinamento economico e di bilancio «decisi con il diretto coinvolgimento dei rappresentanti nazionali» (53).
La scelta è considerata legalmente percorribile sulla base di argomentazioni che partono dall’analisi del caso Pringle e che si articolano sostenendo che essa non creerebbe alcun pregiudizio delle competenze dell’Unione. Più precisamente, il T-Dem sarebbe del tutto compatibile con l’assetto attuale in quanto quest’ultimo non investe «alcuna competenza esclusiva e riguarda solamente competenze condivise (coordinamento economico) la cui portata è prima di tutto istituzionale (migliorare gli standard democratici dell’eurozona)» (24). Secondo i proponenti, del resto, «nella misura in cui le parti contraenti del Trattato MES hanno potuto legittimamente creare […] l’istituzione denominata “Meccanismo europeo di stabilità” finalizzata al rafforzamento dell’UEM, le stesse parti contraenti sono legittimate a creare un’Assemblea parlamentare dell’eurozona, onde migliorare le procedure che governano il funzionamento della zona suddetta» (25).
Lasciando da parte riserve e possibili obiezioni in merito, il cuore della proposta si rinviene però senza dubbio nell’idea di istituire una Assemblea parlamentare. Gli autori ne prospettano diverse funzionalità a seconda che essa sia composta da un numero ridotto (intorno ai 100 componenti) o da un numero più esteso (intorno ai 400 membri). Ogni paese esprimerà un numero di rappresentanti pari alla percentuale di cittadini che lo popolano, designati dai vari parlamenti nazionali al loro interno in proporzione ai gruppi che li compongono. Un numero minimo di deputati (un seggio) sarà comunque previsto al fine di garantire una rappresentanza anche a quegli stati che non raggiungono l’1% della popolazione. Una delegazione di 1/5 dei deputati, selezionati nello stesso modo, sarà infine espressa dal PE (art. 4 T-Dem).
Con riferimento alle responsabilità dell’Assemblea, il T-Dem delinea una serie di funzioni e poteri che vanno dal potere legislativo, da esercitarsi congiuntamente con l’eurogruppo (art. 3) – di cui l’Assemblea determina il programma di lavoro semestrale e insieme al quale prepara le riunioni del Consiglio dei Capi di Stato e di Governo (art. 7) – a poteri di controllo nell’ambito del semestre europeo (art. 8) e delle procedure di assistenza finanziaria (art. 9), al coordinamento con la BCE (art. 10), che si vuole fare uscire «dal suo splendido isolamento» (74), a poteri di indagine e controllo in materia di governance dell’eurozona (art. 11), ad una competenza legislativa anche in materia di tassazione (art. 12). Spicca, poi, la competenza legislativa a emettere «le disposizioni in materia di condivisione dei debiti pubblici che superano il 60% del PIL di ciascuno stato dell’eurozona» (art. 12, co. 4). All’Assemblea è poi riconosciuto un potere di votare per «la scelta dei candidati al direttorio della BCE, alla presidenza dell’eurogruppo e alla direzione generale del MES» (art. 17).
Si delineano inoltre la procedura della disciplina legislativa ordinaria, cui prendono parte eurogruppo e Assemblea (art. 13), e un bilancio dell’eurozona, che punti a «favorire una crescita durevole, l’occupazione, la coesione sociale e una migliore convergenza delle politiche economiche e fiscali in senso all’eurozona» (art. 14) da adottarsi con una procedura ad hoc (art. 15). Alla coerenza e al rapporto con il diritto dell’Unione è dedicato l’art. 18, mentre le disposizioni generali e finali disciplinano le modalità di ratifica e di entrata in vigore.
Il testo, nella sua dimensione di proposta (e di protesta), esprime un sentimento di insofferenza, che sembra ormai piuttosto diffuso, nei confronti dell’attuale assetto istituzionale europeo, sospeso tra una pericolosa deriva post-democratica che erode i tradizionali canali di funzionamento delle democrazie rappresentative nazionali e si avvantaggia delle difficoltà che hanno i partiti politici a garantire forme di partecipazione ai cittadini nella determinazione della politica nazionale ed europea, e un progressivo indebolimento, dovuto non solo all’attuale congiuntura economica ma anche all’assetto istituzionale accolto nei trattati, di quella legittimazione fondata sui risultati che l’UE era riuscita a garantire negli anni.
In realtà, forse, le critiche all’opacità delle politiche democratiche europee, che pure centrano un nodo decisivo, sottovalutano alcune importanti conquiste che la rotta verso una più definita forma di democrazia europea ha ottenuto e sta cercando di stabilizzare che, senza alcuna pretesa di completezza, vanno dal riconoscimento di un ruolo più significativo ai partiti politici europei e dalla figura degli Spitzenkandidaten, all’attuale ruolo e alle modalità di elezione del PE, nonché alle forme della cooperazione interparlamentare e alle varie forme di dialogo che già prevedono una fitta rete di rapporti tra parlamenti nazionali e parlamento europeo e altre istituzioni europee. Per non tacere, infine, di quell’afflato verso forme di democrazia partecipativa che il Trattato di Lisbona ha riconosciuto e incentivato e che, fondate sulla trasparenza e sulla prossimità, si prefiggevano di stimolare la formazione di uno spazio pubblico discorsivo europeo. Con ciò non si vuole certo ridimensionare l’ipoteca che il crescente ricorso al diritto internazionale e al metodo dei memorandum rischia di imprimere sul futuro dell’integrazione in Europa. E tuttavia non può nascondersi come, posto che sul piano politico si sarebbe potuto tentare di perseguire scelte di merito diverse, nelle condizioni date, in assenza di una riforma complessiva dei Trattati, talvolta poche altre strade fossero percorribili sul piano giuridico (non è un caso che anche la proposta che si analizza propone il medesimo itinerario).
Da ultimo, nel merito, possono sorgere della perplessità con riferimento all’idea di una Assemblea, cui sono peraltro affidati poteri di grande rilievo, composta in definitiva da rappresentanti scelti sulla base di una delicata operazione di individuazione lasciata in gran parte, senza un pieno coinvolgimento del corpo elettorale, ai parlamenti nazionali (che per di più in taluni casi potrebbero vedere ridotta la loro rappresentanza a un solo deputato). E non è detto che tutto ciò, anche alla luce della complessiva situazione di difficoltà in cui versano da tempo le democrazie e le forze politiche a livello nazionale, possa davvero trasformarsi in un efficace canale di legittimazione della democrazia in Europa.
Nonostante le criticità rilevate e le altre eventuali obiezioni che si possono opporre alla proposta francese, da quanto riferito, essa ha senz’altro il merito di mettere in luce come gli sviluppi della questione democratica in Europa siano un tema cruciale che sarà decisivo per la legittimazione delle future politiche dell’Unione europea e più in generale per il processo di integrazione. E si trae anche conferma dell’impressione per cui, nello spazio tra un non più e un non ancora, il continente europeo continui a rappresentare un luogo di grande vivacità intellettuale dove è possibile ancora realizzare, attraverso l’incontro, in caso anche il conflitto, una effettiva e profonda trasformazione della realtà. Tentare di dare spazio ad una «natura prefigurante e progettuale dell’utopia» intesa come figura futuri concretamente realizzabile (Cacciari), che è prima di tutto critica dello status quo e dunque espressione del principio-libertà, è un merito che va pertanto riconosciuto a chi oggi studia le vicende della forma democratica in Europa, probabilmente nella consapevolezza che, nel tentativo di dare risposte alla crisi in atto, l’alternativa tra un ingenuo “andare avanti” e un polemico “tornare indietro” può sembrare mal posta. Sarà, infatti, in ogni caso impossibile ritornare sui propri passi per i vari stati dell’Unione europea, pensando così di ripristinare un perduto equilibrio novecentesco tra capitalismo e democrazia (Severino; da ultimo, Streeck), già profondamente eroso in alcune sue basilari precondizioni.