Magna Carta, Common law constitutionalism e mutamenti della funzione giurisdizionale*

* Il presente testo rappresenta la traccia di intervento al convegno Magna Carta e Rule of Law nell’ordinamento inglese. Ad ottocento anni dalla redazione del documento fondativo delle liberta’ britanniche (1215 – 2015), organizzato dal Prof. Salvatore Prisco presso l’Universita’ degli Studi di Napoli “Federico II” (25 marzo 2015). Una versione rielaborata e’ in corso di pubblicazione negli atti del convegno, raccolti in un volume curato dal Prof. Alessandro Torre per la collana “Marcopolo. Percorsi di diritto pubblico interno e comparato all’intersezione fra le discipline” (Editoriale Scientifica).

Sommario: 1. Il diritto precede la legge: la Magna Carta tra contingenza storica e portata universale – 2. Osservanza senza rigidità costituzionale: chi è il custode della Carta? – 3. Common Law Constitutionalism e mutamenti della funzione giurisdizionale nell’ordinamento del Regno Unito

1.Il diritto precede la legge: la Magna Carta tra contingenza storica e portata universale

La Magna Carta, per quanto figlia di un determinato contesto storico[1], è portatrice di un significato universale, che trascende le vicende medievali del Regno Unito che condussero Giovanni Senzaterra ad un accordo con i baroni del Regno ed informa il costituzionalismo moderno nella sua stessa essenza, quella di limite al potere. L’articolo 39 della Carta, nello stabilire che “nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, multato, messo fuori legge, esiliato o molestato in alcun modo…se non per giudizio legale dei suoi pari e per la legge del regno” non è solo un’esaltazione della libertà personale[2], peraltro prodromica alla stesura di molte Carte costituzionali nate in epoca ben più recente. Esso configura un diritto che precede (e per questo limita) il potere nella sua possibile arbitrarieta’. La Magna Carta, dunque, è la madre del principio secondo cui una qualunque forma di autorità deve soggiacere al diritto[3], ripreso nello stesso ordinamento del Regno Unito, quando, nel seicento, il concetto di rule of law prenderà forma ricalcando fortemente motivi medievali per contrastare l’arbitrio del governo e promuovere l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

La Magna Carta è difatti piena di riferimenti alle consuetudini ed alle leggi del regno. Si pensi ad esempio all’articolo 13, con il quale il sovrano concedeva alla città di Londra di avere “tutte le sue antiche libertà e le sue libere consuetudini, sia per terre sia per acque”, o all’articolo 45, secondo il quale il sovrano si impegnava a nominare giudici, sceriffi e ufficiali solo tra “coloro che conoscono la legge del regno e vogliano ben osservarla”, o all’articolo 48, che istituiva un comitato di inchiesta composto da cavalieri giurati per eliminare tutte le cattive consuetudini relative alle foreste e alle riserve. Lo stesso articolo 60, una delle clausole finali, nel riferirsi a tutte le disposizioni elencate nella Carta, stabiliva: “Tutte le consuetudini e le libertà suddette che abbiamo concesse nel nostro regno, e per quanto ci compete, siano osservate da tutti gli uomini del nostro regno, siano ecclesiastici o laici; le osservino, per quanto ad essi compete, nei confronti di coloro ad essi soggetti”. E’ dunque condivisibile l’affermazione secondo cui “i nobili inglesi, costringendo, il fatidico 15 giugno 1215, alla concessione (della Magna Carta), Giovanni, il più giovane figlio di Eleonora e di Enrico II Plantageneto….intendessero semplicemente imporre al sovrano il rispetto delle antiche consuetudini e dei loro diritti feudali”.[10]

2. Osservanza senza rigidità costituzionale: chi è il custode della Carta?

La Magna Carta concedeva le antiche libertà del Regno, rendendo dunque manifesto un diritto antecedente al potere del sovrano. Ma chi era il “custode” della Carta? Chi poteva garantire che il sovrano agisse sempre e soltanto nel limite del rispetto delle suddette libertà? Nell’articolo 61 della Carta, il sovrano dichiarava che avendo fatto “tutte queste concessioni per Dio, per un miglior ordinamento del nostro regno e per sanare la discordia sorta tra noi ed i nostri baroni”, e desiderando che le stesse concessioni “siano integralmente e fermamente (in perpetuo) godute”, era pronto a concedere determinate “garanzie”. A garanzia della “pace” e delle “libertà” concesse e conferite dalla Carta, l’articolo prevedeva che i baroni del regno eleggessero tra loro venticinque baroni, in grado di raccogliere denunce relative alle possibili trasgressioni della carta, riferirle al sovrano e pretendere una riparazione, che, se non concessa entro quaranta giorni dalla denuncia, autorizzava gli stessi baroni ad impossessarsi, con l’aiuto della popolazione, dei beni del sovrano. Solo una volta ottenuta la riparazione, il sovrano era titolato a chiedere la consueta obbedienza ai propri sudditi. E’ dunque interessante notare come la Magna Carta prevedesse una sorta di comitato di garanti, composto dagli stessi beneficiari della carta, e preposto a vigilare sul suo rispetto. Tale comitato dei baroni, rievocato in altre disposizioni della Carta, era anche chiamato a pronunciarsi in caso di controversie sorte nel caso qualcuno fosse stato spossessato, senza un legale processo dei suoi pari, di terre, castelli o libertà (articolo 52), e anche nel caso in cui fossero state versate al sovrano somme ingiustamente, ed in contrasto con la legge del paese (articolo 55).

Nonostante la Carta fu immediatamente rinnegata dal sovrano, e questa clausola sparì dalle successive formulazioni della stessa[11], essa è importante perché fa capire quanto fosse rilevante il problema della garanzia dell’osservanza della carta. Durante i movimenti di riforma della metà del tredicesimo secolo, i baroni cercarono di ripristinare proprio tale clausola nella sua versione originaria (1215) e provarono a far accettare ad Enrico III di “osservare fedelmente la carta delle libertà di Inghilterra”. Anche nel successivo regno di Eduardo I (1272-1307), la Carta tornò in auge a causa di un forte malcontento dovuto all’imposizione di ingenti tributi, che portò alla sua riconferma nel 1297 e ad una dichiarazione da parte del sovrano che attestava di sentirsi ad essa vincolato. Ancora nel quattordicesimo secolo, per contrastare il potere arbitrario del re, presero piede due movimenti paralleli, uno volto alla reviviscenza di un comitato di baroni che potesse supervisionare l’operato del re (sia sotto il regno di Eduardo II, dal 1307 al 1327, che di Riccardo II, dal 1377 al 1399), un altro invece più incentrato sul ruolo del parlamento come possibile interprete e garante della Carta. La figura di un’assemblea rappresentativa permanente venne considerata una valida alternativa ad una commissione periodica di baroni, per fare in modo che il re fosse sottoposto al diritto. I parlamenti del quattordicesimo secolo chiesero le “confirmations” della Carta ed elaborarono statuti che rafforzavano le promesse ivi contenute. La lettura pubblica e la riaffermazione della Carta era difatti una delle prime attività parlamentari. La Magna Carta era dunque vista come sacrosanta, e gli statuti in eventuale contrasto con essa erano considerati invalidi. Uno statuto emanato nel corso del regno di Edoardo III nel 1368 dichiarava “If any Statute made to the contrary that shall be holden for none”[12], conferendo “alla Carta una “rigidità sostanziale” che non sarebbe andata smarrita”.[13] La prassi delle periodiche conferme della Carta si è protratta sino agli inizi del regno di Enrico VI, dal momento che le monarchie Tudor saranno caratterizzate da una forte riaffermazione della sovranità regia.

Aldilà delle altalenanti vicissitudini della Carta, ciò che preme qui sottolineare è che sia nella prima formulazione del 1215 (grazie all’articolo 61 istitutivo del comitato dei baroni) che nelle successive conferme della stessa, tramite dichiarazioni pubbliche tanto del sovrano quanto del parlamento, si è sempre posto il problema dell’osservanza della carta. La preoccupazione che essa durasse “in perpetuo” era palesata non solo dall’articolo 61 ma anche dall’articolo 63, ossia l’articolo conclusivo della Carta, che così recitava: “Per queste ragioni desideriamo e fermamente ordiniamo che la Chiesa d’Inghilterra sia libera e che i nostri sudditi abbiano e conservino tutte le predette libertà, diritti e concessioni, bene e pacificamente, liberamente e quietamente, pienamente e integralmente per se stessi e per i loro eredi, da noi e dai nostri eredi, in ogni cosa e luogo, in perpetuo, come è stato detto sopra”.

Tale preoccupazione per meccanismi che potessero garantire l’osservanza della carta e la sua natura “perpetua” è simile a quella implicita “tensione verso l’eternità”[14] che caratterizza le carte costituzionali dotate di rigidità costituzionale. Resta tuttavia assolutamente sullo sfondo l’idea che possa esservi un giudice, terzo ed imparziale, ad agire come garante e custode della Carta. Come è stato acutamente osservato, “Il principio della supremazia della legge, l’affermazione che ogni potere politico deve essere legalmente limitato, è il maggior contributo del Medioevo alla storia del costituzionalismo. Tuttavia, nel Medioevo, resta ancora un mero principio, e spesso poco efficace, nella misura in cui manca un istituto legittimato a controllare, in base al diritto, l’esercizio del potere politico e a garantire ai cittadini il rispetto della legge da parte degli organi di governo. La scoperta e la concreta realizzazione di questi mezzi è propria, invece, del costituzionalismo moderno: in particolare degli Inglesi in quel secolo di transizione che fu il XVII, quando le Corti giudiziarie proclamavano la superiorità delle leggi fondamentali su quelle del Parlamento”.[15]

E’ dunque solo con il diciassettesimo secolo che l’idea medievale dei diritti che precedano il potere viene affiancata all’idea che possa essere il giudice a farsi garante del rispetto dei suddetti diritti. E’ nel seicento, infatti, che la tradizione medievale sarà recuperata in particolare grazia all’opera di Sir Edward Coke, che riprende i motivi dell’ancient constitution ed enfatizza il ruolo svolto dalla Magna Carta, considerata “such a Fellow that it can have no Sovereign”[16], nella limitazione del potere del sovrano. La Carta assumerà così una nuova centralità nel conflitto seicentesco tra Re e Parlamento, e sia i common lawyers che i parlamentari guarderanno ad essa e alle antiche libertà concesse da tempo immemore agli uomini liberi come una difesa contro l’affermazione delle prerogative reali. Come si legge nel famoso Bonham’s Case del 1610, “it appears in our books…that in many cases, the common law will…control Acts of Parliament, and sometimes adjudge them to be utterly void; for when and Act of Parliament is aginst common right and reason, or repugnant, or impossible to be performed, the common law will control it and adjudge such Act to be void”.[17] Il quid pluris di questa rivisitazione della tradizione medievale era però fondamentale. A chi spettava la funzione di controllare o passare a scrutinio la “repugnancy” or “unreasonableness” di tali atti, e dunque garantire la supremazia del common law a fronte di decisioni arbitrarie del sovrano o del parlamento? La risposta di Coke a questa domanda era nuova alla tradizione medievale: i giudici. E non e’ un caso che fu proprio la diffusione delle sue teorie nelle colonie americane a gettare le basi del concetto di rigidita’ costituzionale negli Stati Uniti, o quanto meno di “norma superiore” cui conformarsi[18], prima che la nota sentenza Marbury v. Madison desse vita, nel 1803, al controllo di costituzionalita’ delle leggi.[19]

E’ dunque con Eduard Coke e con la sua tenace difesa delle ancient common laws and customs of the realms che si apprende a pieno il “significato giuridico-normativo della costituzione storica”[20], proprio nel cuore del conflitto costituzionale tra re e parlamento. “Affidare ai giudici la tutela di quelle leggi, eventualmente per circoscrivere la forza normativa della stessa legge del parlamento, quando essa sia diretta a sovvertirle, ha certamente il significato dell’affermazione di una legge “superiore”, a non nel senso della moderna supremazia della costituzione e del conseguente controllo di costituzionalità. Ciò che si difende è piuttosto un insieme di leggi e di consuetudini, di patti e di accordi, che nel loro insieme rappresentano la common law, e che in questo senso precedono la legge del parlamento. Anche con Coke, si rimane quindi nell’ambito del costituzionalismo delle origini, dell’affermazione e della tutela della costituzione storicamente fondata”.[21]

3. Common Law Constitutionalism e mutamenti della funzione giurisdizionale

L’excursus storico sin qui svolto sollecita alcune riflessioni utili ad alimentare il dibattito attualmente in corso sul ruolo del potere giudiziario nel Regno Unito, scaturito in primo luogo dall’istituzione della Corte suprema che, lungi dal costituire una Corte costituzionale alla stregua del modello continentale, ha sicuramente assunto delle funzioni para-costituzionali.[22] Per quanto ancorato all’ordinamento del Regno Unito, il dibattito è senz’altro ascrivibile ad un filone dottrinale, particolarmente sviluppato negli Stati Uniti, molto critico nei confronti dei recenti tentativi di riforma volti ad accrescere le competenze del potere giudiziario a scapito del potere legislativo e suscettibili di dar vita—secondo alcuni autori—ad una vera e propria juristocracy.[23] Le argomentazioni di questo animato “case against judicial review”[24] riguardano la natura fondamentalmente non democratica ma funzional-teconcratica, o spesso elitaria, degli organi giurisdizionali, contestando l’ipotesi secondo cui il giudice sarebbe più idoneo del legislatore democraticamente eletto a farsi garante dei diritti fondamentali.[25] Altri autori mettono in discussione il fondamento della constitutional review of legislation, ossia la necessità di un organo giurisdizionale di garanzia atto a prevenire possibili “tirannie della maggioranza”, lamentando una eccessiva “tirannofobia”.[26]

Non essendo questa la sede per entrare nel merito di questo interessante dibattito, è evidente che anche nel Regno Unito le crescenti funzioni para-costituzionali del potere giudiziario sono state criticate proprio laddove vanno a ridurre i margini di manovra del Parlamento sovrano. I recenti mutamenti della funzione giurisdizionale andrebbero dunque a scalfire il dogma della sovranità parlamentare che si è affermato nel corso del diciottesimo secolo grazie all’opera di Blackstone[27], secondo il quale l’osservanza alla legge—fosse anche essa stata unreasonable—doveva essere incondizionata, e nel corso del diciannovesimo grazie all’opera di Dicey, che oltre ad attribuire al Parlamento la supremazia legislativa, il potere “to make or unmake wathever”, esplicitamente negava l’esistenza, nel diritto inglese, di un organo in grado “to override or set aside the legislation of the Parliament”.[28] La classica teoria della sovranità parlamentare presentava dunque un aspetto positivo, ossia attributivo di potere legislativo illimitato (in merito a forme, tempi e contenuti) in capo al Parlamento, ed un aspetto negativo, legato alla mancata possibilità di sindacare la validità di un atto del Parlamento. In tale costruzione teorica, non c’era alcuno spazio per il potere giudiziario, tanto che illustri studiosi hanno affermato, anche di recente, che la separazione dei poteri “English-style”, non contemplerebbe alcun ruolo per le corti, ma si fonderebbe su un perenne confronto bipolare tra gli unici due poteri ai quali la costituzione ha riconosciuto un grado di sovranità, e cioè la Corona ed il Parlamento.[29] Tale costruzione teorica ha avuto anche dei notevoli riflessi pratici, se si considera che tra il 1842 ed il 1973 (data dell’adesione del Regno Unito alla Comunità economica europea) non è mai stato presentato dinanzi alla House of Lords un caso che mettesse in discussione la natura illimitata della sovranità legislativa del Parlamento[30], enfatizzando così l’“irrilevanza” delle Corti nella costituzione inglese. Tale deferenza nei confronti del potere legislativo, la cui attività è stata considerata quasi “ingiustiziabile”, è stata a lungo avallata dalle stesse Corti, che hanno abdicato alla loro possibile ruolo contro-maggioritario, stabilendo, ad esempio che “it is not for the court to say that a parliamentary enactment, the highest law in this country, is illegal”.[31] Mentre la stessa teoria di Dicey era pronta a riconoscere un limite politico al potere senza restrizioni del Parlamento, ritenendo impossibile, o quanto meno inverosimile, che il Parlamento potesse approvare atti aberranti o immorali, in punto di diritto, ed anche in tempi molto più recenti, sono state le stesse corti a negare la possibilità di invalidare un atto del Parlamento: “it is often said that it wouldbe unconstitutional for…Parliament to do certain things, meaning that the moral, political or other reasons against doing them are so strong that most people would regard ita s highly improper if Parliament did these things. But that does not mean that it is beyond the power of Parliament to do these things. If Parliament chose to do any of them, the courts could not hold the Act of Parliament invalid”.[32]

La tradizionale subordinazione delle Corti al Parlamento sovrano è stata pian piano e molto di recente scalfita grazie a diversi fattori, uno di natura endogeno e due di natura esogena all’ordinamento costituzionale del Regno Unito. Il primo riguarda la possibilità per la Corte suprema di risolvere le controversie in materia di devolution, derivanti dalla delega di alcuni poteri dal Parlamento di Westminster alle assemblee legislative di Scozia, Galles e Irlanda del Nord. Nonostante il contenzioso non sia ingente, questa competenza in materia di “devolution issues” consente comunque alla Corte di sottoporre le deliberazioni di organi legislativi (considerati tuttavia subordinati al Parlamento inglese) ad un sindacato giurisdizionale. Gli altri due fattori, di natura esogena in quanto scaturiti dall’incontro con ordinamenti esterni quali ad esempio quello dell’Unione europea, hanno anch’essi contribuito a rafforzare il ruolo delle corti nel panorama costituzionale inglese, o quantomeno a ridimensionare il completo asservimento al potere legislativo. In base allo European Communities Act del 1972, che regola i rapporti tra il diritto interno e il diritto dell’Unione europea, la competenza legislativa del Parlamento è limitata sia perché esso non può legiferare in modo contrario al diritto dell’Unione europea sia perché le corti possono all’occorrenza disapplicare il diritto nazionale laddove incompatibile con norme di diritto dell’Unione europea dotate di effetto diretto.[33] In base allo Human Rights Act del 1998, che incorpora nel Regno Unito i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU, le corti sono tenute ad interpretare la legislazione ordinaria in modo conforme alla Convenzione laddove possibile. In via alternativa, esse non possono annullare la disposizione legislativa ma sono tenute a rilasciare una “dichiarazione di incompatibilità” della norma interna con i dettami della Convenzione. Nonostante nessuno dei due strumenti rappresenti a pieno titolo un sindacato giurisdizionale sull’attività legislativa come quello condotto dalle Corti costituzionali continentali, essi consentono comunque alle corti di recuperare margini di manovra. Da un lato, l’interpretazione conforme a Convenzione consente alla Corte di discostarsi dall’interpretazione letterale tipica del giudice “bocca della legge”. Dall’altro la declaratoria di “incompatibilità”, pur non essendo equiparata ad una delcaratoria di incostituzionalità che espunge la norma dall’ordinamento giuridico, consente alla Corte di agire come un “agent of constitutional change”[34] in quanto essa indirizza il Parlamento a legiferare in modo conforme alla Convenzione per rispondere alla declaratoria di incompatibilità. In tal modo il potere legislativo subisce una qualche interferenza del potere giudiziario.[35]

Tale incremento delle funzioni para-costituzionali della Corte suprema e tale rafforzamento del ruolo delle corti in generale nel panorama costituzionale del Regno Unito è stato anche accompagnato, in dottrina, da un filone di studi, identificato come common law radicalism o common law constitutionalism[36], secondo il quale le corti avrebbero l’obbligo “to apply the constitutional law of the United Kingdom, in accordance with the political morality on which that law is based”.[37] L’obbedienza alla legge è dunque condizionata al rispetto, da parte di quest’ultima, del substrato normativo della common law, fatto di principi di giustizia, equità e tutela dei diritti fondamentali. In altri termini, un atto del Parlamento in contrasto con tali irriducibili ed essenziali valori avrebbe una natura “incostituzionale” e potrebbe pertanto dispensare le corti dal tradizionale dovere di applicare il diritto.[38] Le aspirazioni “costituzionali” di alcuni giudici, fondate sulla teoria del common law constitutionalism, si sono via via sviluppate o intorno al concetto di “diritti costituzionali” precedenti al diritto positivo, e pertanto opponibili allo stesso legislatore, o intorno alla distinzione tra “constitutional” e “unconstitutional statutes”, anch’essa nuova alla tradizione inglese, che non conosce la differenza tra leggi costituzionali e leggi incostituzionali. Difatti, rientrando questa tradizione tra le esperienze del costituzionalismo “evoluzionistiche”, che la dottrina distingue da quelle “storico-rivoluzionarie”, “si registra la supremazia del Parlamento in assenza di controllo di costituzionalità, per il carattere consuetudinario e flessibile della Costituzione”.[39]

In conclusione, i recenti mutamenti del ruolo del giudice nell’ordinamento costituzionale del Regno Unito, trainati per lo più dall’incontro/scontro con gli ordinamenti sovranazionali e volti a vincolare l’operato del Parlamento attraverso un sindacato giurisdizionale più stringente, sembrerebbero quasi “eretici” rispetto all’ortodossia della teoria della sovranità parlamentare elaborata da Dicey, ed avallata da diversi anni di self-restraint da parte del potere giudiziario. Se guardati però alla luce della cornice storico istituzionale che ha dato vita alla Magna Carta essi sembrerebbero poter ancorare le proprie radici più profonde proprio nella tradizione medievale dello stesso ordinamento del Regno Unito. In primo luogo, l’idea, insita nella Magna Carta, che esiste un diritto che precede il potere, ed è pertanto ad esso “indisponibile”, può rappresentare un solido ancoraggio per i vincoli sempre crescenti cui deve soggiaciere il potere legislativo, derivanti, principalmente ma non solo, dagli obblighi convenzionali in materia di tutela dei diritti fondamentali. In secondo luogo, l’idea che debba sussistere un bilanciamento tra i poteri e che anche la sovranità parlamentare possa trovare un argine in possibili contro-poteri, può trovare fondamento nell’ideale, anch’esso medievale, della costituzione mista, cui, in Inghilterra ma non solo, “si affidò il compito di moderare la monarchia, di renderla potestas temperata, attribuendole “i sommi poteri di governo, ma come espressione di una comunità politica articolata e differenziata, che nessuno aveva il potere di uniformare all’altro”.[40] Infine, l’idea che i giudici possano sviluppare i propri strumenti (anche meno pervasivi del sindacato di legittimità costituzionale presente in alcuni ordinamenti continentali) per passare a scrutinio l’ attività del Parlamento, affonda anche essa le proprie radici nella rivisitazione della Magna Carta elaborata da Sir Edward Coke, che, proprio nel cuore del conflitto costituzionale tra Corona e Parlamento, affidava in modo assolutamente inedito al giudice il compito di sindacare la conformità del diritto sovrano agli antichi principi di equità e giustizia.

 

[1] Sul contesto storico-giuridico che ha dato vita alla Carta si rinvia a A. Torre (a cura e trad. di), Magna Carta (1215), Liberilibri, Macerata, 2008.

[2] Si prescinde in questa sede dal dibattito dottrinale che tende a sminuire il valore costituzional-garantista della Carta, considerandola semplicemente un “reactionary baronial document” (questa la tesi di E. Jenk, The Myth of Magna Carta, in The Independent Review, 1904).

[3] J.C. Holt, Magna Carta, Cambridge University Press, New York, 1965.

[4] G. Pasquino, Costituzionalismo, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino (a cura di), “Dizionario di Politica”, Utet, 1983, p. 278.

[5] N. Bobbio, Legalità, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino (a cura di), op. cit., p. 581.

[6] M. Cappelletti, The Judicial Process in Comparative Perspective, Oxford, Clarendon Press, 1989, p. 127, citando Bracton’s De Legibus et Consuetudinibus Angliae.

[7] M. Cappelletti, op. cit., p. 127.

[8] G. Pasquino, op. cit., p. 278.

[9] G. Pasquino, op. cit., p. 279.

[10] P. Costanzo, Anniversario. 15 giugno 1215. Concessione della Magna Carta, in Consulta online, Fascicolo II, 2015, p. 1.

[11] D. Oliver, ‘Surprises in Magna Carta’ U.K. Constitutional Law Blog (23 Mar 2015) (disponibile on-line: http://ukconstitutionallaw.org/)

[12] R. V. Turner, The Meaning of Magna Carta since 1215, in History Today, Volume 53, Issue 9, September 2003.

[13] P. Costanzo, op. cit., p. II.

[14] L’espressione è attribuibile a M. Luciani, Dottrina del moto delle costituzioni e vicende della costituzione repubblicana, in Rivista AIC no. 1/2013.

[15] G. Pasquino, op. cit., p. 279.

[16] La frase è attribuibile a Sir Edward Coke durante il suo Discorso in Parlamento, datato 17 maggio 1628.

[17] Thomas Bonham v. College of Physician (Dr. Bonham Case), deciso dalla Court of Common Pleas con Sir Edward Coke come Chief Justice nel 1610.

[18] E.S. Corwin, The “Higher Law” Background of American Constitutional Law, Liberty Fund Inc., US, 2008. Come nota M. Cappelletti (in op. cit., pp. 127-128), proprio mentre nel Regno Unito la Glorious revolution del 1688 segnava l’inizio dell’indiscussa supremazia legislativa, le teorie di Coke lasciavano una duplice eredità nelle colonie (per certi versi prodromica al “judicial review of legislation”), relativa tanto subordinazione della Corona e del Parlamento ad un dirito superiore, quanto all’idea che fosse il giudice ad interpretare i provvedimenti legislativi ignorando quelli che ignoravano “principi superiori”.

[19] T. Plucknett, Bonham’s Case and Judicial Review, 40 Harvard Law Review 30 1926.

[20] Come nota Maurizio Fioravanti, “la “costituzione” è in realtà un patrimonio storico, intrinsecamente razionale proprio perché fondato nella storia, che si è formato nel corso dei secoli, attraverso un’opera di sapiente composizione delle forze e delle istituzioni, per questa via poste in un ideale rapporto di equilibrio”, in M. Fioravanti, Costituzionalismo. Percorsi della storia e tendenze attuali, Roma/Bari, Laterza, 2009, p. 14.

[21] M. Fioravanti, op. cit., p. 14

[22] Sull’istituzione della Corte Suprema si rinvia, tra gli altri, ad A. Torre, La Corte suprema del Regno Unito: la nuova forma di una vecchia idea, in Giornale di storia costituzionale, 2006.

[23] R. Hirschl, Towards Juristocracy. The Originds and Consequences of the New Constitutionalism, Harvard University Press, 2007.

[24] Pur non essendo questa la sede per dar conto di una vasta letteratura sul tema, gli argomenti principali si trovano in J. Waldron, The Core of the Case Against Judicial Review, in The Yale Law Journal, 2006, 1346-1406.

[25] Ibidem.

[26] Si è parlato infati di “tyrannophobia”, intesa come una eccessiva paura di derive dittatoriali che ha sempre più imbrigliato gli esecutivi senza utilità sociale. Si veda ad esempio E. A. Posner & A. Vermeule, Tyrannophobia, in T. Ginsburg (ed.), Comparative Constitutional Design, Cambridge University Press, 2012, pp. 345-46.

[27] W. Blackstone, Commentaries on the Law of England Vol. I (Oxford: Clarendon Press, 1765).

[28] A.V. Dicey, Introduction to the Study of the Law of the Constitution, 10th Edition, 1885, London Macmillan, 1959.

[29] A. Tomkins, Public Law, Oxford: Clarendon Press, 2003, citato in R. Masterman and J.E.K. Murkens, Skirting supremacy and subordination: the constitutional authority of the United Kingdom Supreme Court, in Public Law, October 2013, p. 802.

[30] R. Masterman and J.E.K. Murkens, op. cit., p. 802.

[31] English High Court, Cheney v. Conn, 1968, 1 All ER 779, 782.

[32] Judicial Committee of the Privy Conuncil, Madzimbamuto v. Lardner-Burke (1969), 1 AC 526.

[33] A. Torre, L’attuazione del diritto comunitario nel Regno Unito e la questione della sovranità parlamentare, in G. Floridia – R. Orru’ (a cura), Meccanismi e tecniche di normazione fra livello comunitario e livello nazionale e subnazionale, Torino, 2007. Più di recente, E. Imparato, Il rapporto tra fonti interne ed europee nel British context: luci e ombre della sovereignty of parliament, in www.federalismi.it (15 luglio 2015).

[34] R. Masterman and J.E.K. Murkens, op. cit., p. 810.

[35] Per una recente disamina sul ruolo delle corti nella human rights adjudication, anche in prospettiva comparata rispetto ad altri ordinamenti di common law, si rinvia a R. Leckey, Bill of Rights in the Common Law, Cambridge University Press, 2015.

[36] Tra i principali esponenti, tra gli altri, T.R. S. Allan, The Sovereignty of Law: Freedom, Constitution and Common Law (Oxford: OUP, 2013). Sulle diverse posizioni che animano il dibattito, di recente, J. Goldsworthy, Parliamentary Sovereignty: Contemporary Debates (Cambridge: Cambridge University Press, 2010).

[37] T.R.S.Allan, Law, Liberty and Justice: The Legal Foundations of British Constitutionalism (Oxford: Clarendon Press, 1993), p. 281. L’autore ha recentemente ripreso le proprie posizioni in T.R.S. Allan, Questions of Legality and Legitimacy: Form and Substance in British Constitutionalism (2011) 9(1) International Journal of Constitutional Law 155-162.

[38] R. Masterman and J.E.K. Murkens, op. cit, p. 812, con riferimento al pensioero di TRS Allan (Law, Liberty and Justice cit., p. 282), secondo cui “If an Act fails to commit to some irreducible, minimum concept of the democratic principle, its invidious nature would render it unconstitutional and release the court from their (habitual) obligation to apply”.

[39] S. Prisco, Costituzionalismi antichi e moderni tra strutture invarianti e specificità storiche, in www.dirittifondamentali.it, p. 8

[40] M. Fioravanti, op. cit., p. 12.