Il triangolo andrà considerato. In margine al caso Scattolon

Soprattutto dopo che la Corte di Strasburgo, il 14 dicembre u.s., ha reso noto il rigetto della domanda di rinvio alla Grande Camera avanzata dall’Italia in relazione alla ormai nota sentenza Agrati¸ diventa ancora più importante riflettere sulla portata e sul significato della querelle riguardante il trattamento retributivo del personale scolastico ATA, considerato che da essa sono venuti contributi importanti all’assestamento dei rapporti tra ordinamento italiano e sistemi comunitario e CEDU.

L’intera vicenda, forse lo si ricorderà, muove dalla decisione del legislatore italiano nel 1999 (presa con l’art. 8 della legge n. 124) di trasferire alle dipendenze dello Stato il personale scolastico ATA sino a quel momento alle dipendenze degli enti locali, previo riconoscimento a fini giuridici ed economici dell’anzianità maturata presso l’ente di provenienza.

La disposizione in questione è stata successivamente oggetto di un accordo tra l’ARAN e i sindacati di categoria, con cui sono stati fissati dei criteri di riconoscimento dell’anzianità che, per ragioni di omogeneità rispetto al personale proveniente dal comparto statale, non tenevano conto per intero del periodo di servizio svolto, pur salvaguardando il c.d. maturato economico. A seguito di una serie di pronunce, anche adottate in sede di legittimità, favorevoli ai lavoratori che chiedevano il riconoscimento pieno dell’anzianità conseguita, il legislatore è nuovamente tornato sulla materia adottando con l’art. 1, comma 218, della legge 23 dicembre 2005, n. 266: una norma interpretativa che, in buona sostanza, ha convalidato la lettura della norma in senso sfavorevole ai lavoratori, ribadendo i criteri stabiliti nell’accordo collettivo.

L’interesse per la vicenda, così brevemente riassunta, nasce dal fatto che sulla conformità della legge di interpretazione autentica, tra l’altro, anche all’art. 6 CEDU la Corte costituzionale e la Corte europea hanno preso due posizioni nettamente divergenti. Dapprima, sulla scia della sent. n. 234 del 2007 e delle ordd. nn. 400 del 2007 e 212 del 2008, la Corte costituzionale ha ritenuto infondata con la sent. n. 311 del 2009 la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 218 cit. stabilendo che, se da un lato “la Corte di Strasburgo non ha inteso enunciare un divieto assoluto d’ingerenza del legislatore” che si serve di leggi interpretative, dall’altro lato nel caso di specie l’intervento normativo sub iudice poteva ben dirsi giustificato anche alla luce del parametro convenzionale, tenuto conto del ventaglio di “ragioni imperative di interesse generale” tenute presente dal legislatore (principalmente legate ad esigenze di pari trattamento rispetto ai lavoratori del comparto statale). Se non che, il dictum della Consulta è stato apertamente smentito dalla stessa Corte europea, che con la citata sentenza Agrati e altri c. Italia (ric. n. 43549/08) del 7 giugno 2011 ha dichiarato contrario proprio all’art. 6 CEDU l’intervento interpretativo del legislatore italiano, sulla base del fatto che l’intentio del legislatore, in buona sostanza, non andava oltre un mero interesse finanziario, di per sé inidoneo a giustificare una norma di interpretazione autentica, che per di più interferisce sulla definizione di controversie in corso.

Questo, dunque, il quadro della situazione limitatamente al circuito Roma-Strasburgo, che già ha sollevato diversi interrogativi e perplessità in dottrina relativamente alle modalità di impiego di quei moduli di interazione giudiziale in grado di sopire i contrasti giurisprudenziali più evidenti come questo: da un uso più accorto e “argomentato” del margine d’apprezzamento da parte della Corte europea, a un approfondimento delle tecniche di distinguishing per quel che concerne la Corte costituzionale rispetto ai precedenti CEDU, come reso evidente anche da pronunce recentissime (come le nn. 257 e 303 del 2011) relative proprio a leggi di interpretazione autentica (rinvio sul punto ai contributi di M. Massa e A. Ruggeri, in Quad. cost. 2011, risp. pp. 706 e 709, nonché, se si vuole, a G. Repetto, Il nodo delle irretroattività tra Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo, in diritti-cedu.unipg.it).

Su questa vicenda, già di per sé complessa, è infine intervenuta la Corte di Giustizia, che con sentenza della Grande Sezione adottata il 6 settembre 2011 nel caso Scattolon contro Miur (C-108/10) ha ritenuto, sebbene per profili diversi da quelli posti a base della sentenza Agrati, che il pregiudizio retributivo subito dal personale scolastico ATA transitato dagli enti locali allo Stato è in contrasto col diritto comunitario.

Sul fronte di Lussemburgo, infatti, la prospettiva di esame non è quella legata alla natura retroattiva dell’intervento legislativo statale (benché il giudice del rinvio abbia sollevato una questione pregiudiziale ad hoc), bensì quella che investe il mantenimento in capo ai lavoratori dei diritti derivanti dal rapporto di lavoro in caso di trasferimento d’impresa. E su questo fronte, come era del resto prevedibile, gran parte degli sforzi argomentativi sono stati rivolti dal giudice comunitario a verificare l’applicabilità delle direttive adottate in questa materia (in primis la dir. 77/187/CEE e s.m.i.) al trasferimento del personale della pubblica amministrazione da un settore all’altro. Agli occhi della Corte, appare dirimente in questo caso che il personale in questione, svolgendo funzioni di ausilio tecnico e amministrativo, non esercita un’attività riconducibile all’esercizio della prerogativa di un pubblico potere, tenuto anche conto del fatto che i servizi svolti da questa categoria di lavoratori non sono incompatibili con l’affidamento degli stessi ad operatori economici privati (§§ 44 e 46).

Risolta la questione concernente l’applicabilità delle direttive comunitarie sul trasferimento d’impresa, la sentenza Scattolon si sofferma sulla rispondenza del trasferimento disposto per il personale ATA in questione ai contenuti di dette direttive, sottolineando che la ratio complessiva di questi interventi sta nell’impedire che i lavoratori coinvolti in un trasferimento siano collocati in una posizione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento. Nel caso di specie, il riconoscimento di un’anzianità “fittizia” e, in linea di massima, limitata rispetto a quella effettiva si pone pertanto in contrasto col diritto comunitario, anche se la sentenza precisa che il compito di accertare la sussistenza del pregiudizio non può che spettare al giudice del rinvio, considerato che solo questi può valutare, di caso in caso, se il riallineamento tra i diversi comparti è avvenuto recando effettivamente un pregiudizio per il lavoratore “trasferito”.

Mi sono volutamente soffermato su questi aspetti tecnici per chiarire la prospettiva dalla quale il giudice di Lussemburgo guarda alla vicenda in questione, sottolineando ancora una volta come egli, dopo aver risolto in questi termini la questione interpretativa, ritenga assorbita la questione relativa alla legittimità della legislazione nazionale in quanto interpretativa e, per questo, con effetti retroattivi. E proprio a partire dalla particolarità, direi dalla natura sezionale, di questa prospettiva, si può riflettere sulla natura emblematica di questa complessa vicenda, prendendo in considerazione innanzi tutto gli sviluppi che questa è destinata ad avere a livello nazionale dopo le due pronunce europee.

Non sembra dubbio, infatti, che la via primaria apertasi ora per rimuovere gli effetti della normative interna stia nel richiedere al giudice la disapplicazione della stessa in quanto contrastante col diritto europeo-comunitario, previo accertamento della sussistenza degli effetti lesivi, svolto nei termini tracciati dalla Corte di giustizia. Ed è ragionevole pensare che da questa via più piana e diretta potrà passare una buona parte del contenzioso presente e futuro, con conseguenze verosimilmente satisfattive per gli interessi dei ricorrenti privati ma con l’effetto, non privo di rilievo, di estromettere dall’ulteriore corso della vicenda il circuito Corte di Strasburgo – Corte costituzionale, provvedendo così a depotenziare il conflitto che si era venuto creando sino al punto (quasi) di non ritorno costituito da Agrati. Al tempo stesso, è possibile ritenere che il solo precedente lussemburghese non basterà ad assorbire per intero il contenzioso aperto, tenuto conto che, come detto, è al giudice nazionale che spetta il giudizio in concreto sulla sussistenza del pregiudizio subito, condizione indispensabile perché il ricorrente si possa avvalere dell’applicabilità diretta propria della pronuncia della Corte di giustizia. Si può quindi ritenere, in altre parole, che vi saranno dei casi in cui non basterà il dictum di Scattolon a risolvere una certa controversia a danno dell’amministrazione statale, perché il lavoratore mira a contestare l’inquadramento subito non per lamentare un pregiudizio subito, ma per dolersi di un mancato vantaggio retributivo. E sarà proprio in un’eventualità del genere, se e quando si verificherà, che potrà riaprirsi il fronte aperto da Strasburgo, considerato che richiamandosi ad Agrati sarà possibile attaccare frontalmente l’intervento normativo statale in quanto tale, prescindendo cioè dalla sua incidenza sui diritti del lavoratore in termini di maggiore perdita o di minore guadagno. E in questa eventualità, per così dire, la palla ripasserebbe in prima battuta alla Corte costituzionale, chiamata a fare i conti con un precedente pressoché “in termini” dal quale non sarà facile liberarsi invocando le tecniche sempre più ricorrenti di distinguishing.

Se il quadro ora tratteggiato appare plausibile, si può capire come la modulazione degli effetti che scaturisce da questo concorso di pronunce contribuisce certo ad articolare e differenziare i profili di tutela cui si può fare ricorso a livello interno, come appena visto, ma al tempo stesso anche a gettare una luce sulla fisionomia di simili casi di sovrapposizione “triangolare” tra piani e modelli di tutela. La prospettiva della Corte di Giustizia è in questo caso, come spesso avviene, parziale, settoriale, nel senso che veicola istanze di tutela plasmandole con gli strumenti messi a disposizione dal diritto primario e secondario dell’Unione: e se questo vale a conferire efficacia diretta e incisività alle sue pronunce, la portata dei relativi principi resta limitata al campo materiale d’applicazione cui la Corte, e prima di essa l’Unione, è vincolata in nome del principio di attribuzione. Al contrario, l’ottica della Corte di Strasburgo prescinde da un campo d’applicazione limitato, perseguendo la fissazione di principi di tutela valevoli in generale e che, pertanto, mostrano con maggiore evidenza una capacità di investire frontalmente il diritto nazionale, creando potenziali situazioni di contrasto molto più radicali e quindi difficili da risolvere, soprattutto quando la Corte decide di non fare ricorso al margine d’apprezzamento per tenere conto del crescente livello di integrazione registrabile a livello interno. E proprio una simile assenza, almeno in Agrati, finisce per rendere recessiva la sua portata – e con essa il circuito d’integrazione che involge la Corte costituzionale – rispetto alla (apparente) neutralità e alla concretezza che contraddistingue Scattolon e il circuito d’integrazione ad essa retrostante, costituito dalla Corte di Lussemburgo e dai giudici ordinari.

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