Costruendo le tradizioni dei diritti in Europa: il senso di un gerundio, e di un seminario.

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Grazie davvero, innanzitutto, anche a nome degli altri coordinatori di diritticomparati, a Benedetta Barbisan, per la splendida accoglienza e la cruciale condivisione degli oneri organizzativi.

Molti mesi fa, discutendo con Andrea Buratti e Raffaele Torino circa spirito e titolo del seminario di oggi, mi sono imbattuto in un gran bel saggio di Martin Krygier, Law as Tradition[1], in cui, si legge, tra l’altro, che «we use the language of a (legal) tradition when we attempt to describe how legal past is relevant to the legal present. It is about the power of the past-in-the-present».

Non potevamo riconoscerci maggiormente in quel “we”: si trattava esattamente dello spunto che andavamo cercando, una dinamizzazione del concetto di tradizioni giuridiche che ci permettesse di valorizzarne l’intrinseca forza trasformativa attraverso l’immagine, che secondo Krygier, tra l’altro, costituisce una delle tre concretizzazioni di quel “power”, della «transmission of the past into the present».

Ovviamente non siamo stati i primi a riflettere su potenziale trasformativo delle legal traditions e sull’esigenza di una iniezione di dinamizzazione nelle stesse.

Suggestioni in questo senso, declinate, certamente, a secondo della diverse sensibilità in gioco, ma comunque tutte connesse al concetto di tradizione quale cinghia di trasmissione tra presente, passato e futuro, sono state fatte proprie, all’estero, solo per citarne uno, dal compianto Patrick Glenn, specialmente nel suo ispiratissimo Legal Traditions of the World[2] e, in Italia, da parte di chi si è occupato con maggiore sensibilità del tema. Impossibile non ricordare, a questo proposito, Alessandro Pizzorusso, Giovanni Marini, Luigi Moccia, Cesare Pinelli, Antonio Ruggeri e Paolo Ridola. Proprio quest’ultimo, qualche tempo addietro, scriveva a proposito del codice genetico caratterizzante le tradizioni costituzionali, come quest’ultime «abbiano la capacità di disvelare l’ispirazione storica delle opzioni costituzionali e far si che il contesto storico, attraverso l’individuazione di linee di continuità che legano il passato al presente, concorra a determinare il contenuto delle norme costituzionali»[3].

È proprio alla luce di queste considerazioni che abbiamo riflettuto, nel concepire programma e spirito del seminario (che poi dovrebbe replicare lo spirito, più in generale, di diritticomparati), sulla etimologia del termine tradizione[4]. E il pensiero non poteva non correre alla traditio quale forma di trasmissione ed a tradere quale composto di trans più dare.

Oggi a noi interessa più il prefisso che il verbo, perché “trans” ci consente di valorizzare il concetto di trasmissione attraverso il tempo, ma che può anche volere dire andare oltre una determinata dimensione temporale, quindi attualizzare natura e portato della tradizioni quali portatrici di nuove istanze di tutela, anche in discontinuità con il passato.

Ecco allora spiegato l’utilizzo del gerundio che apre il titolo di questo seminario “costruendo” le tradizioni dei diritti”. Gerundio che ci permette di visualizzare plasticamente il formarsi progressivo delle tradizioni come un constitutional working in progress in continua trasformazione.

Dunque andare oltre, innanzitutto sotto il profilo spaziale, la convinzione che le tradizioni, specie quelle costituzionali, siano rilevanti esclusivamente nella costruzione dell’ordinamento dell’Unione europea. Basti vedere, a questo proposito, quale peso giochino le stesse nella elaborazione del teoria del consensus da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. In secondo, luogo, e forse specialmente, andare oltre, questa volta sotto il profilo temporale, quella ricostruzione statica che relega rilevanza e utilità delle tradizioni alla giurisprudenza della Corte di giustizia anteriore alla codificazione dei diritti in Europa (attraverso la proclamazione prima e l’entrata in vigore poi della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea). Rilevanza ed utilità, tra l’altro, che hanno più a che fare, a veder bene, con l’elaborazione di una teoria dell’argomentazione che con la tutela sostanziale dei diritti fondamentali in gioco. Come, a questo proposito, si è tentato infatti di dimostrare altrove[5], il discorso sulle tradizioni costituzionali comuni sembra risolversi, nel periodo glorioso della giurisprudenza comunitaria, in un paravento retorico ad altra matrice simbolica, in cui la Corte di giustizia cerca nel collegamento, spesso più preteso che effettivo, tra la soluzione prospettata nel caso oggetto di giudizio e quella che emerge dalla esperienza costituzionale degli Stati membri, una legittimazione argomentativa per poter continuare a fare quello che soltanto in un primo periodo la stessa Corte ha potuto fare indisturbata, nella ormai leggendaria immagine di Eric Stein[6], «tucked away in the fairyland Duchy of Luxembourg» , vale a dire  «fashioned a constitutional framework for a federal­type structure in Europe»[7].

Andare, dunque, oltre per guardare alla rilevanza attuale delle tradizioni in Europa ed al rapporto attuale tra diritto costituzionale scritto e non scritto. Andare oltre per chiedersi, in concreto, con particolare riguardo alle relazioni della prima parte della giornata di studi come, da una parte, nuove istanze di tutela, quali quelle connesse alla protezione della riservatezza in ambiente digitale, alle nuove affettività emergenti in nuclei familiari non tradizionali, e, dall’altra parte, esercizi di rimodulazione di diritti e valori più classici, come dignità, modello sociale europeo e il terribile diritto[8] (di proprietà), siano veicolati e bilanciati dalla giurisprudenza di corti nazionali e europee.

Andare oltre per dimostrare, si spera, come una conseguenza della semplificazione ed a volte banalizzazione della tensione tra diritto costituzionale scritto e non scritto sia stata una certa frettolosità a raccontare una cronaca di una morte annunciata delle tradizioni costituzionali all’indomani della entrata in vigore della Carta di Nizza. Una “morte” lenta ma inesorabile che sarebbe dovuta a una progressiva marginalizzazione delle tradizioni costituzionali, ed ancor prima, dei principi generali del diritto dell’Unione. Ad entrambi, infatti spetterebbe oggi un ruolo esclusivamente suppletivo ed ancillare rispetto ad una carta dei diritti di rango para-costituzionale e di carattere vincolante che avrebbe dotato l’Unione di quella autosufficienza in materia di diritti fondamentali che ridurrebbe di molto esigenza del ricorso tanto alle prime quanto ai secondi.

Andare oltre dunque per fare emergere come le tradizioni siano invece vive e vegete oggi in Europa, non solo nonostante, ma, soltanto apparentemente in via paradossale, specialmente grazie alla Carta di Nizza.

 La ragione è abbastanza semplice: il “momento della scrittura”, per utilizzare una fortunata espressione di Cesare Pinelli[9], non sempre ha coinciso, per quanto riguarda l’ambito di protezione dei diritti in gioco, con un passaggio dalla dimensione non scritta (principi generali e tradizioni costituzionali) a quella scritta della Carta che rispecchiasse il medesimo ambito di applicazione del diritto in gioco. A volte un principio generale, cosi come ispirato dalle tradizioni costituzionali comuni sembra in grado di poter disporre di una portata o di un potenziale espansivo superiore a quanto codificato dalla previsione nella Carta. È proprio in questi interstizi interpretativi che la Corte di giustizia ha buon gioco, facendo riferimento a principi generali e tradizioni costituzionali comuni prima del diritto corrispondente previsto dalla Carta, nel costruire un cavallo di troia in grado di “baipassare” il limite previsto dall’art. 51 della Carta relativamente all’applicazione della stessa esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione.

Dove non arriva il diritto previsto dalla Carta arriva invece il principio generale corrispondente e le trazioni costituzionali che di esso costituiscono il serbatoio domestico, si potrebbe assai semplicisticamente sostenere.

Nella seconda parte della giornata, l’attenzione si concentrerà invece sui rapporti tra corti europee e corti nazionali ed, in particolare, sulla dimensione conflittuale che sembra caratterizzare oggi tali rapporti. Non è un caso, a questo proposito, che il riferimento al “dialogo”, nel titolo della sessione pomeridiana, sia associato a quello di “esperienze di resistenza”. L’idea infatti è quella di ribadire, come si è avuto modo di sostenere qualche anno fa[10], che, se si riescono infatti ad individuare oggi indizi precisi e concordanti per rilevare l’esistenza di un European judicial dialogue, ciò si deve, a ben vedere, alla reazione da parte di una o più corti ad una preesistente mancanza di coordinamento o al rischio di collisione tra il livello nazionale e quello sovranazionale di tutela dei diritti fondamentali, e non all’intento, che sarebbe peraltro assai velleitario, di corti appartenenti a differenti ma interconessi ordini giuridici di costruire una harmonia caelestis tra giudici[11].

In altre parole le corti, oggi più che mai, occupano una posizione privilegiata, all’interno dei rispettivi ordinamenti, per identificare i rischi di collisione di portata costituzionale tra gli stessi, e conseguentemente per intervenire, appunto attraverso il dialogo, al fine di migliorare la qualità della interazione tra ordinamenti interconnessi ma non gerarchicamente ordinati.

Per tali ragioni il coinvolgimento dei giudici, unità di interconnessione e cinghie di trasmissione (a proposito, di nuovo, di traditio) tra tali sistemi giuridici, è in genere, almeno in partenza, frutto di una reazione (piuttosto che un’azione spontanea) ad un problema interordinamentale preesistente cui si cerca di porre rimedio.

Ma se così è, allora il dialogo tra giudici in Europa, caratterizzato, come si è detto, ab origine, da una logica di reazione per molti versi difensivistica e conflittuale, è in grado di acquistare, nel suo sviluppo, una connotazione promozionale e prescrittiva, nel senso che esso favorisce la partecipazione dei vari giudici coinvolti al progetto della costruzione o del consolidamento di un ordinamento giuridico europeo effettivamente di stampo pluralistico.

Ed è appunto in tale scenario che emerge la funzione materialmente “costituzionale” delle Corti in Europa, siano esse nazionali o sovranazionali: la possibilità cioè che esse hanno di creare ex post quelle regole non fissate (o mal fissate) ex ante per la risoluzione di conflitti tra sistemi giuridici interdipendenti ma non gerarchicamente composti.

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[1] M. Krygier, Law as Tradition, in Law and Philosophy, Vol. 5, No. 2, 1986,  237 ss

[2] P. Glenn, Legal Traditions of the World, Oxford, 2010.

[3] P. Ridola, Diritto comparato e diritto costituzionale europeo, Torino, 2010,  54.

[4] Siamo grati a Luigi D’Andrea per la preziosa suggestione che, a questo proposito, ci ha fornito in occasione di un recente convegno.

[5]O. Pollicino, Corte di giustizia e giudici nazionali: il moto “ascendente”, ovverosia l’incidenza delle “tradizioni costituzionali comuni” nella tutela apprestata ai diritti dalla Corte dell’Unione in (a cura di) L. D’Andrea, G. Moschella A. Ruggeri A. Saitta, Crisi dello stato nazionale, dialogo intergiurispudenziale e tutela dei diritti fondamentali, Torino, 2015, 91 ss.

[6] E. Stein, Lawyers, Judges and the Making of a Transnational Constitution, in Am. J. Int’l Law, 1981, 1.

[7] Ibidem.

[8] S. Rodotà, Il terribile diritto, Studi sulla proprietà privata, Bologna, 1982

[9]  C. Pinelli, Il momento della scrittura, Bologna, 2002.

[10] O. Pollicino, Allargamento dell’Europa ad est e rapporti tra Corti costituzionali e Corti europee. Verso una teoria generale dell’impatto interordinamentale del diritto sovranazionale?, Milano, 2010

[11] P. Esterhazy, Harmonia Caelestis, Milano, 2003.