Poche riflessioni, molto informali, su “Diritto comparato e diritto costituzionale europeo”, di Paolo Ridola

Quando Diritti comparati mi ha proposto di recensire l’ultimo lavoro di Paolo Ridola mi sono, da principio, schermito, opponendo la constatazione che ci fossero persone molto più qualificate di me per recensire un libro sull’Europa; tuttavia, chi mi ha proposto la recensione ha obiettato che, in realtà, si trattava di un libro di ben più ampio respiro ed il cui vero oggetto erano i diritti costituzionali. Ora, a valle di una lettura che spero attenta, ritengo che nessuna delle due definizioni calzi a pieno a quest’opera.

Il libro di cui discorriamo, infatti, non può essere definito “semplicemente” né un lavoro sull’Europa né sui diritti: vi è una tale complessità, nella somma di questi scritti, da trascendere entrambi gli argomenti sopra richiamati (pur comprendendoli entrambi ratione obiecti). In realtà, credo di poter affermare che l’insieme di questi lavori attenga ad un’affannosa ricerca e al tempo stesso ad una chiara visione del costituzionalismo europeo, inteso non solo come problema ordinamentale (o interordinamentale) ma anche e soprattutto come unità di senso, come sistema etico e culturale.

La parola che meglio riassume lo spirito di quest’analisi (e che non a caso ricorre più volte nel testo) è Selbverständnis, autocomprensione o autochiarimento. Di questo termine a prima vista oscuro – e magari non proprio familiare all’incarnazione più positivista della dottrina costituzionalistica italiana – la miglior definizione (e la più acuta meditazione) l’ho personalmente trovata nell’opera di Jürgen Habermas il quale inquadra tale concetto nel piano propriamente etico del discorso pratico: l’illustre filosofo, infatti, distinguendo morale ed etica, attribuisce alla morale una portata universale (in essa, infatti, si esplica quella ragione comunicativa potenzialmente in grado di convincere tutti i parlanti razionali); all’etica viene, invece, attribuito un ambito più circoscritto: sono, infatti, discorsi etici (o di autochiarimento) quelli di una determinata comunità che, nell’atto di confrontarsi con (e di decidere di) un problema pratico, chiarisce a se stessa il proprio sistema di valori. L’esito della scelta dipende, dunque, dall’orizzonte culturale, sociale, politico (in breve assiologico) nel quale si muove la comunità in questione; così, al mutare di tale orizzonte, muterà anche la soluzione del problema.

Personalmente, da studioso relativista dei valori, e stante la mia irriducibile tendenza empirista, ho sempre diffidato dell’ambizione razionalista habermasiana di voler includere tutto il mondo umano all’interno di una sola prospettiva morale (ancorché comunicativa, ancorché ultrademocratica, ancorché procedurale) e ho sempre ritenuto che gli unici discorsi pratici che abbiano ancora un senso nell’era postmetafisica siano proprio quelli di autochiarimento. Questa convinzione mi porta a ritenere che i problemi affrontati in questo libro rivestano un’importanza centrale (per certi versi drammatica), non solo nell’orizzonte costituzionalistico ma anche in quelli, ben più comprensivi, della speculazione etica e della scienza sociale.

È nei discorsi di autochiarimento, infatti, che si manifesta l’inevitabile ciclicità che nel mondo della ragion pratica intercorre tra il piano dell’azione e quello dei valori, tra la scelta e l’identità: l’individuo (ma anche il gruppo, la comunità, la nazione) nell’atto di sciogliere un dilemma etico e, dunque, agendo in un senso piuttosto che in un altro, privilegia un valore piuttosto che un altro e, così facendo, definisce la scala di valori alla quale aderisce e, in questa, la propria identità. Nell’atto di scegliere definiamo chi siamo, costruiamo la nostra identità eppure è ugualmente vero che è proprio la nostra identità a determinare le scelte che siamo destinati a compiere.
Ed è proprio intorno a questo legame di senso tra azione e identità che si articolano i saggi del libro di cui discorriamo, anche se è doveroso chiarire che le riflessioni di autochiarimento, portate avanti da Paolo Ridola, hanno tutte una vocazione troppo pluralista e sono tutte sostenute da un metodo troppo fortemente aporetico per poter solo essere accostate a qualunque forma di identitarismo esclusivista (secondo l’obiezione che Jürgen Habermas solitamente muove a questo tipo di impostazioni).

Il punto di partenza di ognuno di questi scritti è sempre un’urgenza pratica, un problema deontico. Così l’approccio storicista (la cui completezza e complessità sono note ai lettori di Paolo Ridola) è posto qui al servizio di una ricerca che vuole svelare il senso profondo di altrettante questioni “scottanti” proprie del mondo giuridico e culturale europeo: l’esistenza e la natura di uno spazio pubblico postnazionale, il senso profondo e l’intrinseca conflittualità dei diritti fondamentali, la forte tensione tra un’integrazione a vocazione identitaria ed una più aperta al multiculturalismo, trasmodano in altrettante narrazioni della loro evoluzione storica, in altrettante riflessioni sulla loro sostanza filosofica, in altrettanti interrogativi sul loro dover essere etico prima che giuridico.

La tesi implicitamente sostenuta dall’A. (e che fonda tutto il suo metodo) è che le soluzioni a tali problemi, lungi dal riposare in raffinati ragionamenti giuridici o in adamantine (quanto apparentemente neutrali) costruzioni dogmatiche, pretendano scelte di campo, opzioni di valore, assunzioni di responsabilità, atti di autochiarimento che definiscano quale sia il “mondo di vita” dietro a ciascun istituto giuridico.

Ciò che maggiormente colpisce leggendo questo lavoro è, da un lato, la molteplicità dei piani di riflessione, fusi insieme grazie al miglior eclettismo metodologico; dall’altro, la profonda problematicità con la quale vengono assunti tali piani di ricerca: vi è in questi scritti una sorta di inesausta ansia aporetica che non si limita a ricostruire per ogni singolo problema la sua radice sociale, la sua evoluzione politica, il suo sostrato filosofico, ma giunge ad una vera e propria ri-meditazione di ognuno di questi aspetti. Ciascuna fase temporale, ciascuna tappa del pensiero è analizzata nella sua complessità, nella sua intrinseca conflittualità, nella sua ambivalenza germinativa rispetto al momento ed alla tappa successiva. Un continuo vaglio problematico che non si accontenta di proporre una visione eminentemente diacronica degli istituti in esame, ma porta avanti una riflessione nella quale ridondano le forme della progressione dialettica e nella quale si cerca di dipanare l’intreccio del costituzionalismo europeo fino a volerne individuare l’autentica “direzione di senso”.

Non vorrei, però, che questa mia ultima affermazione inducesse a credere che l’A. indulga in qualche forma di ingenuo ottimismo illuminista o che voglia dipingere un quadro della storia del “sistema Europa” secondo le tinte del più apollineo progressismo modernista; tinte illuminate dalle “magnifiche sorti e progressive”.

A scongiurare questo pericolo è proprio la fortissima tensione problematica che contraddistingue questo lavoro; la piena e realistica consapevolezza dell’irriducibile conflitto che permea la società ed i rapporti che questa intesse con lo stato. Mi viene in mente il saggio su Sussidiarietà e democrazia quando l’A. dopo esser tornato a riflettere sull’ambivalenza significativa delle guerre di religione, al tempo stesso “trauma originario” e “fonte di legittimazione” degli stati nazionali, arriva a sottolineare (secondo suggestioni hobbesiane) come la necessità dello stato nasca “dalla condizione naturale di antagonismo e di conflittualità esistente nel tessuto sociale”, vera e propria “premessa antropologica dell’origine dello stato moderno”.

Ma ugualmente emblematici, in tal senso, sono altri due saggi (sicuramente tra i più belli dell’intera opera): Prime riflessioni sullo “spazio pubblico” nelle democrazie pluralistiche e La dignità dell’uomo e il “principio di libertà” nella cultura costituzionale europea. In questi lavori, che tratteggiano l’evoluzione di due concetti così complessi e polisensi, la riflessione storica e quella filosofica si intersecano con esemplare complessità e al tempo stesso con invidiabile nitidezza, per giungere ad interrogarsi sul dover essere concreto e attuale di tali istanze. Ancora, ciò che colpisce è il forte tasso di problematicità che innerva entrambi i lavori: vi è una costante attenzione a come ogni momento dell’evoluzione storica, giuridica, filosofica divenga presupposto logico del momento successivo, legandosi, tuttavia, a quest’ultimo in maniera sempre ambigua, sempre conflittuale. Il lettore non si trova di fronte una “semplice” panoramica storica, ma legge la descrizione di un lungo travaglio concettuale nel quale la germinazione di una risposta finale, di una categoria univoca pare costantemente e pervicacemente sottrarsi all’orizzonte di indagine.

Allora, se nell’analisi storicista di Paolo Ridola, nel suo desiderio di tracciare un’unità di senso, è lecito individuare (come a me pare) alcune suggestioni dialettiche, esse mi sembrano prossime – più che a quella tipicamente hegeliana – alla dialettica negativa di Theodor Adorno ed alla sua consapevolezza della inesaustività definitoria di concetti e categorie rispetto all’inesauribile complessità del reale.

Credo sia proprio questa diffidenza verso la compiutezza di qualunque Begriffsbildung a determinare che l’approccio storico-comparatista dell’Autore si atteggi in senso così fortemente antidogmatico e antiformalista.

Un antidogmatismo che vuole raccogliere quella “poderosa sfida che la storia ha lanciato agli studiosi, di ripensare criticamente categorie ed elaborazioni concettuali saldamente radicate nello sviluppo e nel consolidamento dello stato nazionale Europeo” (le parole sono quelle utilizzate nel saggio su La parlamentarizzazione degli assetti istituzionali dell’Unione Europea, i corsivi sono miei).

Un antiformalismo che si manifesta almeno sotto due profili: in primo luogo sul già ricordato piano metodologico, con l’accoglimento di un’impostazione eclettica che scientemente (e aggiungerei giustamente) decide di cercare il significato del diritto al di là di ciò che è meramente positum, al di là dei troppo angusti confini della c.d. scienza giuridica; in secondo luogo su un piano sostanziale, rigettando la pretesa avalutatività del dogma giuridico, per porsi in una prospettiva eticamente responsabile e per impegnarsi in una ricerca di senso che si appoggi sull’anima del diritto comparato; anima notoriamente critica e addirittura “sovversiva”, secondo la bella definizione di Horatia Muir Watt.

Esempio archetipo di questa impostazione aporetica e antidogmatica è il già richiamato saggio su La dignità dell’uomo, dove lo stesso Autore afferma, all’inizio dell’ottavo paragrafo, in una sorta di manifesto del proprio metodo: “Il tema della dignità dell’uomo è un punto di osservazione privilegiato per indagare in quale misura l’etica costituisca una sfida ricorrente per il giurista. Ed esso ha costretto e continua a costringere il giurista a misurarsi con la storia, con la filosofia, con la teologia, con l’antropologia culturale, imponendogli di sfuggire ad approcci autoreferenziali che in questa materia, rischiano soltanto di dare corpo ad un senso di impotenza del proprio ruolo e di smarrimento della propria identità scientifica”.

Questo è un elemento sul quale mi vorrei soffermare, trasformando, per un attimo, l’assunto di Paolo Ridola in una domanda: esiste davvero un legame necessario tra etica e metodo? Tra l’assunzione consapevole della domanda di senso e l’ampiezza dell’orizzonte epistemologico nel quale lo studioso è chiamato a muoversi? Tutto sommato credo di si. Di nuovo mi viene in mente Adorno, stavolta quello delle lezioni raccolte nel volume Terminologia filosofica. Nella lezione n. 16 quella dedicata a “Saggezza e vita buona” il maestro francofortese dice: “Il concetto arcaico di filosofia era quello di un sapere in cui la coscienza teoretica e quella pratica non erano ancora state separate. Se il concetto di saggezza è diventato problematico, ciò è connesso col fatto che questa unità di mediazione teoretica e di riferimento è venuta meno” in tal modo la filosofia “che in quanto saggezza è intesa alla totalità della vita, è giunta fin dall’inizio ad una certa contraddizione con l’organizzazione della vita secondo il criterio di divisione del lavoro, e a sua volta è soggiaciuta a questo criterio diventando un ramo, una specializzazione volente o nolente. In tal modo … la filosofia si è lasciata sfuggire in una misura sempre maggiore quei problemi di una giusta vita che in quanto tali furono i suoi primi e originari”.

La parcellizzazione del sapere, principio cardine del movimento illuminista e indiscutibile motore del processo scientifico moderno (lo stesso Adorno ammette che anche la filosofia è giunta “all’elaborazione di grandi connessioni totali che permettono di riflettere su tutto, solo dopo tale separazione”), diviene inadeguata quando si tratta di rispondere a quelle domande che pretendano la formulazione di un giudizio etico, che presuppongano l’assunzione della vita come unità di senso. Similmente il positivismo formalista, che sembra trarre la propria legittimazione epistemologica dalla sistematica riduzione del proprio orizzonte cognitivo, si trova inadeguato rispetto a domande che sottendano la necessità di una riflessione impegnata a travalicare la presunta neutralità del dogma giuridico.

Il messaggio, dunque, che sta alla base dell’intero libro, è che quando il giurista si confronta con problemi di grande spessore etico, domande che impongano alla società processi di autochiarimento, è sua responsabilità partecipare a tale processo estendendo il proprio orizzonte e assumendosi la responsabilità di contribuire a dare una risposta.

Pur trovandomi in gran parte d’accordo con tali assunti, vorrei tuttavia concludere queste poche righe con una piccola osservazione, poco più che un interrogativo; sono certo che l’A. non me ne vorrà se provo ad aggiungere problema a problema, aporia ad aporia. Finora, per sottolineare la portata “critica” del metodo storico-comparatista di Paolo Ridola, mi è sembrato opportuno richiamare il pensiero di due tra i più importanti autori della Scuola di Francoforte; non mi pare inopportuno a questo punto, nel muovere questa mia tenue osservazione, appoggiarmi al pensiero di uno dei più autorevoli (nonché più determinati) teorici del liberalismo contemporaneo: Karl Popper il quale, in un’intervista resa a Giancarlo Bosetti (edita nel volumetto La lezione di questo secolo), afferma, certo in maniera fin troppo secca: “Lo storicismo è tutto un errore. Lo storicista vede la storia come una specie di corrente d’acqua, come un fiume che scende, e crede per questo di poter prevedere dove passerà l’acqua a partire da quel momento … pensa di poter anticipare il futuro. Questo atteggiamento è moralmente del tutto sbagliato. Si può studiare la storia quanto si vuole, ma quella del fiume rimane niente più che una metafora e non contiene alcuna realtà. Si può studiare quello che è stato, ma quello che è stato è finito e da adesso in avanti non siamo più in condizione di anticipare niente, non siamo in grado di seguire la corrente … Il momento presente è quello in cui la storia finisce e noi non siamo affatto in grado di guardare al futuro con l’idea di poterlo prevedere seguendo la corrente … Qualunque cosa sia accaduta, è passata. E dal passato noi possiamo imparare, certamente, ma non proiettarlo per anticipare il futuro” (corsivi miei).

Devo dire di essere popperiano per quanto attiene alla negazione della capacità predittiva dell’indagine storicista, questa è almeno l’idea che mi sono formato finora. Tuttavia tale affermazione riguarda il piano dell’essere nei due momenti del passato e del futuro (per quanto, forse, Agostino avrebbe obiettato che in realtà si tratta di due momenti del non essere); mi chiedo, allora, e giro la domanda al Professor Ridola, in che modo questa obiezione possa esser valida (o invalida) per il regno del dover essere. Voglio dire: quanto effettivamente lo studio dei testi filosofici e dei contesti storici può guidarci nel rispondere all’urgenza di una questione deontica situata nel presente? Vi è piena continuità oppure, alla fine, esiste ancora uno scarto, una sorta di irriducibile vertigine, tra l’indagine evolutiva di un istituto giuridico ed il senso che quell’istituto è chiamato ad incarnare qui ed ora? In definitiva l’indagine storico-comparativa è uno strumento pratico (oltre che teorico) autosufficiente, idoneo di per sé a colmare il divario tra essere e dover essere oppure anch’esso è necessariamente suscettibile di integrazione ulteriore da parte di altri argomenti di sapore più sistematico e forse addirittura dogmatico?