Prima lettura della legge recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”

1.Dopo molti anni di riflessione bioetica, deontologica e biogiuridica, il 14 dicembre 2017 il Senato della Repubblica ha approvato in via definitiva il testo di legge recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, legiferando in maniera ponderata su tematiche eticamente sensibile quali sono il rapporto di cura e il fine vita (cfr. P. Zatti, La via (crucis) verso un diritto della relazione di cura, in Riv. crit. dir. priv., n. 1/2017, pp. 3 ss.). Sebbene non si giunga al riconoscimento di una morte medicalmente assistita o del suicidio assistito, la legge approvata dal Senato (a oggi non ancora pubblicata in Gazzetta Ufficiale) appare conforme ad una regolamentazione volta a tutelare l’homo dignus (S. Rodotà, Antropologia dell’homo dignus, in Riv. crit. dir. priv., n. 4/2010, pp. 547 ss.) dal momento che si preoccupa di garantire l’autodeterminazione e la dignità del paziente con preminenza rispetto alle scelte “altre” del personale sanitario o dei familiari dell’interessato, in conformità agli artt. 2, 13 e 32 della Costituzionee degliarticoli 1 (Dignità umana), 2 (Diritto alla vita) e 3 (Diritto all’integrità della persona) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Nel complesso, recependo le principali indicazioni sovranazionali e i migliori orientamenti giurisprudenziali interni, la legge introduce nel nostro ordinamento novità di non poco conto.

2.In primo luogo, la legge mira a riconoscere la massima centralità all’habeas corpus della persona che si sottopone alle cure, richiamando sin dal comma 1 dell’art. 1 la tutela costituzionale della persona negli aspetti della dignità, della vita, dell’autodeterminazione e della salute, così arginando il paternalismo proprio del paradigma ippocratico, spesso ancor troppo radicato nella mentalità medica (sia consentito il rinvio a M. Di Masi, Il fine vita, Ediesse, 2015). Il rapporto tra curanti e curati, la c.d. “alleanza terapeutica”, ruota oggi per legge – e non solo per la deontologia di settore e le buone prassi – attorno al consenso o al dissenso informato. Come ha affermato la stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 438 del 2008, difatti, il consenso informato si configura come un vero e proprio diritto della persona (art. 2 Cost.) ed è la sintesi di due diritti fondamentali: il diritto alla salute (art. 32 Cost.) e il diritto alla libertà personale (art. 13 Cost.) (cfr. G. Marini, Il consenso, in S. Rodotà – P. Zatti, Trattato di Biodiritto, vol. I, Giuffrè, 2010, pp. 361 ss.). Nel testo normativo ciò è ben sancito dal comma 2 dell’art. 1, ove si promuove e si valorizza la relazione di cura e di fiducia fra persona malata e medico «che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico». Consenso informato che è condizione essenziale per l’avvio e la prosecuzione della cura.
La legge chiarisce il ruolo centrale dell’informazione data dal curante al paziente, che sembra costituire un diritto a sé stante della persona. L’informazione, d’altra parte, viene intesa come processo continuo di dialogo fra professionisti sanitari e pazienti; come auspicato dalla migliore dottrina, infatti, il consenso informato, quale relazione comunicativa, dialogica ed empatica col paziente, deve configurarsi come un consenso “biografico”, che «è quello nel quale si rispecchia e si fonda l’autodeterminazione, e che meglio esprime il suo essere processo» (S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, 2012, p. 274). Il legislatore, preoccupato di dare questa connotazione dialogica alla relazione fra curanti e malati, è consapevole che la trasmissione e l’elaborazione dell’informazione è importante tanto quanto l’informazione in sé, premessa imprescindibile dello stesso consenso/dissenso (l’art. 1, comma 3, specifica che «[o]gni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, […]»). Il punto è di centrale importanza e permette di uscire dalla potenziale ambiguità che in passato adombrava l’alleanza terapeutica, alleanza che lasciava in realtà al medico – titolare esclusivo della conoscenza – l’ultima parola sulla sorte del paziente (cfr. V. Zambrano, Il trattamento terapeutico e la falsa logica del consenso, in Rass. dir. civ., n. 4/2000, pp. 760 ss.). La nuova legge, invece, valorizza molto l’aspetto dei modi di comunicazione dell’informazione, per ridisegnare la relazione di cura fra medico e paziente nel segno di un’effettiva redistribuzione di potere di controllo sul sé e sulla propria salute in favore del secondo. Per questo al comma 8 dell’art. 1 si riprende quanto già disciplinato dal Codice di Deontologia medica del 2014 (all’art. 20), con una formula assai elegante e densa di senso: «Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura». Per questo, ancora, il legislatore si è premurato di prevedere che la «formazione iniziale e continua dei medici e degli altri esercenti le professioni sanitarie comprend[a] la formazione in materia di relazione e di comunicazione con il paziente, di terapia del dolore e di cure palliative» (comma 10). In ogni caso, la legge tutela anche il diritto del paziente a non essere informato e a demandare ad altri l’onere di ricevere le informazioni sanitarie che lo riguardano.

3.La relazione di cura, in secondo luogo, non si limita al rapporto duale fra medico e paziente, ma si configura come un rapporto pienamente relazionale, intendendo coinvolgere attivamente tutto il personale sanitario e, se il paziente lo ritiene opportuno, anche l’entourage dell’interessato e le diverse figure che a vario titolo possono rappresentarlo (siano esse appartenenti alla famiglia matrimoniale, a quella derivante dall’unione civile, a quella di fatto o alla sola cerchia amicale del paziente). Il secondo periodo del comma 2 dell’art. 1, in quest’ottica, specifica che «contribuiscono alla relazione di cura, in base alle rispettive competenze, gli esercenti una professione sanitaria che compongono l’équipe sanitaria. In tale relazione sono coinvolti, se il paziente lo desidera, anche i suoi familiari o la parte dell’unione civile o il convivente ovvero una persona di fiducia del paziente medesimo». Un ruolo fondamentale, pertanto, svolge tutta l’organizzazione sanitaria, che nel complesso è chiamata a rispettare la dignità e le altre situazioni giuridiche fondamentali delle persone che la animano (sul punto cfr. A. Pioggia, Diritti umani e organizzazione sanitaria, Riv. dir. sic. soc., n. 1/2011, pp. 21 ss.). Sempre a norma dell’art. 1, infatti, ogni struttura sanitaria pubblica o privata deve garantire «con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei princìpi di cui alla presente legge, assicurando l’informazione necessaria ai pazienti e l’adeguata formazione del personale» (comma 9).
Il ruolo attivo dell’organizzazione sanitaria, d’altra parte, può a parere di chi scrive spiegare e giustificare la mancanza, nella legge appena approvata, di forme individuali di obiezione di coscienza: come ha ritenuto la giurisprudenza amministrativa rispetto al caso Englaro, invero, spetterebbe alla legge disciplinare compiutamente i modi e i limiti entro i quali possano assumere rilevanza i convincimenti intimi del singolo medico (Consiglio di Stato, 2 settembre 2014, n. 4460), tuttavia, nel momento in cui il legislatore ha optato per una relazione di cura che scardina la stretta e spesso dolorosa relazione duale fra medico e paziente – intendendo invece promuovere un coinvolgimento dell’intera équipe sanitaria –, resta ferma la necessità che l’organizzazione ospedaliera garantisca, sempre e comunque, la doverosità del satisfacere officio.

4.Il primato dell’habeas corpus della persona malata e la configurazione relazionale del rapporto di cura comportano la valorizzazione della capacità di discernimento dell’interessato, al di là della capacità di agire prevista dall’art. 2 del codice civile. In tale prospettiva l’art. 3 della legge stabilisce che la «persona minore di età o incapace ha diritto alla valorizzazione delle proprie capacità di comprensione e di decisione, nel rispetto dei diritti di cui all’articolo 1, comma 1. Deve ricevere informazioni sulle scelte relative alla propria salute in modo consono alle sue capacità per essere messa nelle condizioni di esprimere la sua volontà». Riconoscere a persone in stato di fragilità la titolarità dei diritti fondamentali senza permetterne altresì l’esercizio, invero, avrebbe voluto dire privarle della possibilità di realizzare la propria personalità, violando in tal modo il dettato costituzionale anche in riferimento all’uguaglianza sostanziale e alla dignità personale. La rilettura delle categorie giuridiche tradizionali in un’ottica di tutela costituzionale della persona (N. Lipari, Le categorie del diritto civile, Giuffrè, 2013), quindi, ha implicato, da una parte, il riconoscimento della rilevanza giuridica anche della capacità di discernimento della persona, mentre, dall’altra, ha comportato un’estensione dell’applicazione dei meccanismi della rappresentanza, conformemente allo sviluppo della personalità e alla dignità della persona interessata e nel pieno rispetto del generale principio di solidarietà (art. 2 Cost.).

5.La legge riconosce all’autonomia privata dei cittadini ben due strumenti per determinare le proprie scelte sanitarie per le ipotesi d’incapacità sopravvenuta: le disposizioni anticipate di trattamento (art. 4) e la pianificazione condivisa delle cure (art. 5). Quest’ultima è uno strumento previsto per disciplinare la relazione di cura nei casi di patologia cronica e invalidante «o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta», e consiste in dichiarazioni del paziente circa l’accettazione o l’esclusione di cure che sono inseriti nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico e che vincolano sia il medico che il personale sanitario coinvolto. Nell’ambito di tale pianificazione, il paziente può designare un fiduciario per l’ipotesi di sopravvenuta incapacità di autodeterminarsi nelle more del trattamento sanitario, fiduciario che viene edotto circa il «possibile evolversi della patologia in atto, su quanto il paziente può realisticamente attendersi in termini di qualità della vita, sulle possibilità cliniche di intervenire e sulle cure palliative» (art. 5, comma 2). Se la pianificazione condivisa delle cure presuppone una patologia già in atto, le DAT permettono invece di esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari futuri (art. 4, comma 1). Tali disposizioni sono vincolanti per il medico, che ai sensi del comma 5 dell’art. 4 è tenuto al rispetto delle DAT, «le quali possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita». Non va sottaciuto, d’altra parte, che molte delle norme introdotte in tema di DAT erano caldeggiate da tempo dalle politiche sanitarie europee, dalla Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 25 giugno 1999, n. 1418 sulla “protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dei malati incurabili e dei morenti”, per arrivare alle linee guida, del 5 maggio 2014, emanate dal Consiglio d’Europa sui “processi decisionali che riguardano i trattamenti sanitari in situazioni di fine vita”, ove si ribadiva la necessità di dare rilevanza ai desideri espressi in precedenza dal paziente. In conformità, peraltro, tanto all’art. 8 della Convenzione EDU che all’art. 9 della c.d. Convenzione di Oviedo del 1997.

6.Gli strumenti d’autonomia privata disciplinati dalla legge avrebbero dovuto rispondere più limpidamente all’idea che la forma debba essere tale da garantire la provenienza, ma non fino al punto da rendere la diposizione gravosa per il disponente o di renderne difficile la reperibilità o la revisione. L’art. 4 della legge, al comma 6, prevede che le DAT debbano essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata, o anche per scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza dello stesso, che provvede all’annotazione in apposito registro, ove istituito, oppure presso le strutture sanitarie. Qualora le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, «le DAT possono essere espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare. Con le medesime forme esse sono rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento». Significativamente, il legislatore ha scelto di non pronunciarsi sul periodo di validità della DAT, dal momento che esse, in mancanza di revoca, forniscono pur sempre indicazioni biografiche da rispettare.
Manca la previsione di un registro unico nazionale delle DAT, in quanto la legge demanda alle Regioni la facoltà di istituire registri regionali: tale registro, però, è stato infine istituto presso il Ministero della Salute tramite un emendamento proposto nella legge di Bilancio 2018 (legge n. 205/2017, commi 418 e 419).
Attenta dottrina ha ravvisato nell’art. 4 della legge un’eccessiva burocratizzazione, ritenendo che sarebbe stato preferibile effettuare altre scelte, prima fra tutte ammettere l’olografo. A testo di legge approvato definitivamente, tuttavia, non resta che avallare l’interpretazione secondo la quale «la previsione e la disciplina delle DAT non preclude né limita il rilievo della volontà altrimenti manifestata», poiché «in nessun modo un rifiuto di cure, protetto dall’art. 32 della Costituzione, se ragionevolmente certo, può essere ignorato dal medico» (P. Zatti, op. cit., p. 22).

7.La legge, poi, disciplina il fiduciario per la salute, il quale può essere indicato al professionista sanitario o direttamente dal paziente cosciente (art. 1, comma 2, ultimo periodo) o attraverso le disposizioni anticipate di trattamento (art. 4, comma 1, ultimo periodo, comma 2 e comma 3) o, ancora, nella pianificazione condivisa delle cure (art. 5, commi 2 e 3). Il fiduciario, così come il genitore, il tutore o l’amministratore di sostegno, affianca o sostituisce il paziente nell’acquisizione delle informazioni e/o nella manifestazione del consenso o del rifiuto o della rinuncia alle cure, anche per il caso in cui esso non sia più in grado, nel corso della terapia, di porsi consapevolmente in relazione con i professionisti sanitari. Norma volta a dirimere l’eventuale conflitto fra personale sanitario e rappresentanti legali del paziente è il comma 5 dell’art. 3, che demanda al giudice tutelare la decisione, «su ricorso del rappresentante legale della persona interessata o dei soggetti di cui agli articoli 406 e seguenti del codice civile o del medico o del rappresentante legale della struttura sanitaria». Per dovere di completezza, invero, va dato atto che una prima disciplina del fiduciario per la salute (e delle DAT tout court), nel nostro ordinamento giuridico, è stata apprestata già nella legge 76/2016, relativa alla “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”, ai commi 40 e 41 dell’art. 1. In particolare, infatti, ai conviventi di fatto è riconosciuta la possibilità di «designare l’altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati: a) in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute; b) […]» (comma 40). Tale designazione, ai sensi del comma 41, è effettuata «in forma scritta e autografa oppure, in caso di impossibilità di redigerla, alla presenza di un testimone»: forme in effetti più snelle rispetto a quelle previste per le DAT.

8.Non viene trascurata, infine, la necessità di dare ai medici le giuste certezze sui rischi e le responsabilità che li riguardano. La legge, infatti, chiarisce già all’art. 1, comma 6, che il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo «e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale», specificando altresì che il paziente non può pretendere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali, verso cui il medico non ha obblighi professionali. Il comma 5 dell’art. 1, nel secondo periodo, include poi chiaramente tra i trattamenti sanitari altresì le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali. Così è risolta definitivamente la questione postasi con enfasi a seguito del caso Englaro: alimentazione e idratazione artificiali sono pratiche terapeutiche «in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici».
Un’altra questione delicata e particolarmente complessa affrontata è quella dell’urgenza medica, dove l’obiettivo principale è quello di frustrare quanto meno l’autodeterminazione personale, al contempo evitando ridicoli cortocircuiti posti in essere dal personale sanitario per aggirare le manifestazioni di volontà eventualmente espresse dal paziente. Si pensi al caso Welby: bastava aspettare la perdita di coscienza del malato per intervenire d’urgenza pro vita, con un intervento del medico ritenuto giuridicamente dovuto ex art. 54 c.p. (stato di necessità). Per queste ipotesi, allora, l’art. 1, comma 7, statuisce che «il medico e i componenti dell’équipe sanitaria assicurano le cure necessarie, nel rispetto della volontà del paziente ove le sue condizioni cliniche e le circostanze consentano di recepirla».

9.L’art. 2 della legge intende garantire al paziente la dignità della fase terminale della vita, assicurandogli quelle cure necessarie ad alleviare la sofferenza, cure doverose anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico (comma 1). Questa disposizione si coordina con la legge 38/2010, recante “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”. Ai sensi del comma 2 dell’art. 2, è vietata qualsiasi forma di accanimento terapeutico da parte del medico nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o d’imminenza di morte: in detti casi, «il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati». La dottrina ha accolto positivamente queste previsioni, ritenendo che esse permettano ai medici di rimodulare le cure in tutte le ipotesi in cui si manifesti una futilità o sproporzione dei trattamenti, ma anche nei casi in cui la rimodulazione sia dovuta al rifiuto del paziente a prescindere dalla proporzionalità (cfr. P. Zatti, op. cit., p. 19). Peculiare la disciplina del comma 3 dell’art. 2, ai sensi del quale in «presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente». Tale norma non consente l’eutanasia attiva consensuale, ma si pone sulla stessa linea del modello francese, e in particolare della recente Loi n. 2016-87, che apre alla sedazione terminale, autorizzando la sospensione del trattamento e la somministrazione di dosi terapeutiche in grado di alleviare il dolore, anche se le stesse abbreviano la vita.

10.In definitiva può sostenersi che la legge appena emanata sia una buona legge, che richiederà però nella prassi quotidiana un’altrettanta buona applicazione da parte del personale sanitario. Si tratta di una legge “gentile” – per riprendere l’aggettivo del gruppo di studio coordinato da Paolo Zatti “Un diritto gentile” che, assieme all’associazione di medici anestesisti SIAARTI e al gruppo del Cortile dei Gentili, ha fortemente influenzato il dibattito pubblico e il testo approvato –, una legge che crea relazioni e permette agli interessati di esprimersi, più che decretare vincitori e vinti dell’agone bioetico.