Quaeta non movere? Recensione a “Le opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali. Uno studio comparativo” di Alessandra Di Martino, Jovene editore, Napoli, 2016

La dottrina comparativa si nutre di analisi settoriali di singoli istituti e di macrocomparazioni in cui teoria costituzionale e storia della cultura giuridica convergono. Il lavoro di Alessandra Di Martino riesce nel mirabile intento di muoversi su tutti e due i piani: prendendo come spunto la presenza o l’assenza dell’istituto delle opinioni dissenzienti in diversi ordinamenti giuridici, restituisce un mosaico della storia di varie culture giuridiche e delle immagini del giudice da esse elaborate. Lo dico subito: il libro è riuscito sia per il rigore metodologico, sia per la vastità e profondità di analisi, sia per lo stile godibilissimo della scrittura. Affrontando quello che potrebbe sembrare un dettaglio procedurale del decision-making giudiziario, l’Autrice conduce il lettore in un viaggio attraverso le storie costituzionali statunitensi ed europee, casi giurisprudenzali, orientamenti valutativi, regole positive, sostanziali e procedurali, ricostruzioni teoriche, dibattiti politici, genealogici e trasformativi.
Il volume inizia ottimamente con una ricostruzione storica del dissenso giudiziale nella tradizione giuridica di civil law: smentendo l’assunto secondo cui esso avrebbe trovato terreno fertile solo negli ordinamenti di common law, l’A. mostra come importanti studi storici hanno rinvenuto tracce di dissenso presso le corti europee ben prima dell’avvento della giustizia costituzionale nel secondo dopoguerra.  Prima della modernità, la cultura giuridica del diritto comune aveva espresso il radicamento della dialettica, della retorica e della logica della controversia, delle questiones. Essendo le arti liberali centrali nell’educazione del giurista, la decisione medioevale appariva come “la giustificazione di una decisione pratica, dovuta alla contrapposizione, nel corso del processo, di tesi diverse alla luce di un’idea della verità processuale, non volontaristica ma prudente e probabilistica” (21). Il primo capitolo offre una densa ricostruzione del clima culturale dell’età del rinascimento e dell’ancien régime (in Spagna, Italia, Germania e Francia), dell’ideologia rivoluzionaria e della legislazione napoleonica nonché della genealogia delle opinioni seriatim nell’esperienza inglese, già a partire dal XIII secolo.
Il secondo capitolo si concentra sull’ambiente costituzionale statunitense, un punto di osservazione privilegiato per lo studio dell’istituto, sia per l’impiego frequente del dissent da parte dei giudici della Corte suprema federale, sia per le riflessioni della dottrina. L’analisi diacronica condotta dall’A. mette in risalto le trasformazioni del dissenso giudiziale, le sue mutazioni funzionali corrispondenti alle diverse concezioni del diritto e del ruolo del giudice nei diversi assetti costituzionali succedutesi nel corso del tempo. Giustamente l’A. sottolinea come nell’ambito statunitense il dissenso sia retto più da norme informali e convenzionali, che non da regole scritte e positivizzate, e ricorda come la Corte suprema abbia pronunciato opinioni seriatim nei primi dieci anni della sua attività, con l’introduzione stabile dell’opinion of the Court solo durante la corte Marshall (1801-35). L’analisi segue le trasformazioni del dissenso giudiziale in parallelo ai grandi mutamenti della cultura giuridica statunitense, dal formalismo dell’ortodossia classica all’avvento del realismo, dalla giurisprudenza sociologica all’ascesa del legal process, evidenziando le prese di posizioni di singoli giudici che hanno offerto significative riflessioni sull’impiego di questa pratica: da Brandeis, che per primo inserisce nelle sue opinioni dissenzienti le citazioni ad articoli dottrinali (121), a Charles Hughes, per cui “un dissenso in una corte di ultima istanza è un appello allo spirito generativo del diritto, all’intelligenza di un giorno futuro, quando una decisione successiva potrà eventualmente correggere l’errore nel quale il giudice dissenziente pensa che la corte sia incorsa” (123); da Stone, per cui “the dissent’s appeal can properly be only to scholarship, history and reason”, a Douglas, per cui “quando i giudici non sono d’accordo, è un segno che stanno trattando di problemi sui quali la società stessa è divisa. È il modo democratico di opinioni discordi” (130). L’analisi non manca di soffermarsi sul contenuto di alcune opinioni dissenzienti più famose e rilevanti, da quelle di Holmes a quelle di Brennan e Scalia, con il beneficio per il lettore di studiare alcuni contenuti di diritto costituzionale, mentre osserva lo sviluppo diacronico di un singolo istituto giudiziario. L’impiego del dissenso giudiziale ha permesso ai singoli giudici, così Di Martino, di poter articolare le proprie concezioni della costituzione e del ruolo del giudice, permettendo loro di poter accentuare l’importanza dello stile della sentenza: “l’assenza di un modello rigido o dogmatico di sentenza e l’ampio spazio lasciato alla componente narrativa hanno favorito un impatto più immediato delle opinioni dissenzienti su un pubblico vasto” (167).
Il terzo capitolo passa ad esaminare tre altri paesi di common law, il Regno Unito, il Canada e l’Australia, che hanno seguito linee di sviluppo in parte diverse da quelle statunitensi: in un contesto imperiale, furono i giudici australiani nella seconda metà del XIX secolo a rilevare come l’apparente unanimità delle decisioni del Privy Council non faceva altro che “mascherare il reale predominio dei giudici inglesi” (169). Notando una connessione tra l’uso del dissent e una concezione del diritto dinamica ed evolutiva, l’A. sottolinea il “permanere nel Regno Unito di un approccio più formalista rispetto a quello statunitense” (197), come d’altronde in Australia dove il legalismo testualista ha consolidato la tradizione delle opinioni seriatim e delle plurality opinions che impediscono, a rigore, di parlare di opinioni separate “perché queste presuppongono un giudizio di maggioranza o leading che spesso manca” (213).
Il densissimo quarto capitolo volge l’attenzione alle esperienze tedesca e spagnola. Di Martino ricorda come la Verfassungsgerichtsbarkeit di matrice kelseniana abbia favorito da un lato il radicamento di una configurazione accentrata del controllo di costituzionalità in sintonia con la tradizione giuridica di civil law, dall’altro una concezione del giudice-funzionario che aveva impedito, inizialmente, l’adozione di opinioni dissenzienti. Infatti in Germania “l’opinione dissenziente è stata introdotta vent’anni dopo l’istituzione del BverfG, in seguito ad un dibattito ampio nella comunità giuridica […], in Spagna essa è stata presente fin dalla nascita del TCE, mentre la discussione dottrinale sul suo significato è stata sviluppata in seguito” (226). Di grande interesse l’analisi dell’intreccio tra uso dell’opinione dissenziente e le teorie dell’interpretazione costituzionale nel contesto tedesco, dove emerge una sostanziale indipendenza del primo rispetto alle seconde. Mentre la cultura universitaria si è divisa sugli approcci ermeneutici, sulla visione del cittadino (più o meno maturo e quindi in grado di tollerare la pluralità delle interpretazioni giudiziarie), e sul ruolo dei diritti fondamentali nello stato costituzionale, il BverfG si è mostrato “tendenzialmente resistente rispetto alla penetrazione al suo interno delle contese interpretative che hanno diviso l’accademia, lasciandosi piuttosto guidare dal principio di unità della costituzione” (246). Esemplare a questo riguardo la divergenza tra Hesse e Böckenförde: mentre il primo è stato un sostenitore delle teorie evolutive dell’interpretazione costituzionale, il secondo ha difeso i canoni classici dell’ermeneutica; tuttavia mentre Hesse non ha mai redatto un’opinione dissenziente, Böckenförde ne ha fatto viceversa un ampio uso. Questo conduce l’A. ad una fondamentale valutazione: “ciò testimonia ancora una volta – analogamente a quanto osservato negli Stati Uniti – che sebbene l’opinione dissenziente sia maggiormente compatibile con alcune teorie del diritto e dell’interpretazione, soprattutto quelle evolutive e quelle topiche, una volta stabilizzatesi nella giurisprudenza costituzionale, ad essa hanno fatto ricorso giudici di orientamenti metodologici contrapposti, ancorati al testo costituzionale e alla sua funzione di limite al potere statale” (287).
Anche l’analisi del contesto spagnolo riserva elementi di interesse, a cominciare dal fatto che “la pubblicità del voto particular presso il Tribunale costituzionale ha sviluppato un «effetto traino» rispetto alla giurisdizione ordinaria, tanto che la ley organica del poder judicial del 1985 ha esteso l’istituto alla giurisdizione comune” (291). Significativo anche il fatto che “la quantità più elevata di votos particulares si è riscontrata nei ricorsi di amparo” (292).
Il capitolo quinto si concentra invece sulla giustizia costituzionale senza il dissenso, ripercorrendo il lungo dibattito italiano e i recenti sviluppi francesi.  Nel panorama delle giurisdizioni costituzionali oramai solo in Francia, Belgio, Lussemburgo, Italia e Austria rileviamo l’assenza del dissent. Per quanto riguarda il contesto italiano il capitolo offre una ricostruzione dettagliata dei vari tentativi, tutti falliti, di introduzione dell’istituto nella nostra prassi costituzionale. L’argomento fu totalmente ignorato tanto dall’Assemblea costituente, quanto dalle discussioni relative alle approvazioni delle due leggi costituzionali 1/48 e 1/53 che disciplinavano i giudizi della Corte costituzionale e le garanzie di indipendenza dei giudici.  L’A. propone una periodizzazione del dibattito dottrinale: una prima fase, che negli anni ’60 e ’70 caratterizza un ampio favore per l’istituto da parte della dottrina (tra cui spiccano un numero monografico della rivista Democrazia e Diritto del 1963 e un volume curato da Costantino Mortati nel 1964), una seconda fase che vede negli anni novanta un interesse dottrinale crescente per l’intreccio tra opinioni dissenzienti, principio di ragionevolezza e capacità persuasiva della motivazione, ed una terza fase che ha visto una risacca ermeneutica tornare a difendere il principio dell’unanimità della decisione, in nome di una presunta debolezza della corte costituzionale di fronte agli attacchi portati dal potere politico. Significativo a questo proposito il revirement  di un influente autore come Gustavo Zagrebelsky che, dopo il periodo passato alla Corte costituzionale, è passato dalla difesa del dissenso giudiziale all’apologia delle virtù della deliberazione unanimistica che, a suo dire più recente, comporta un illuminato scambio di argomenti e la ricerca del consenso, e mal sopporta il profano divergere di ragioni divergenti (il recensore non può far a meno di notare come la necessità di insulare l’organo di giustizia costituzionale dalla polarizzazione politica sia sostenuta da un autore che si è poi speso nella lotta politico-costituzionale con un libro dal titolo “Loro diranno, noi diciamo” in cui “gli altri” vengono accusati di usare solo slogans, mentre i “noi” avrebbero il monopolio dell’argomentazione razionale). Il capitolo dedicato all’esperienza italiana ricorda anche gli sparuti tentativi di introduzione per via di legislazione costituzionale delle opinioni dissenzienti, nonché l’importante sentenza 18/1989 della corte costituzionale, dove questa, riconoscendo il principio secondo cui “nel nostro ordinamento costituzionale non esiste un nesso imprescindibile tra indipendenza del giudice e segretezza… quale mezzo per assicurare l’indipendenza attraverso l’impersonalità della decisione”, difendeva tuttavia la tradizione giuridica italiana della collegialità della decisione (345). La ricostruzione dell’esperienza italiana evita una presa di posizione netta e culmina in una fuga strategica dell’A. verso lo scarno dibattito francese, tra cui spiccano i contributi critici di Troper e Rousseau (392).
Il sesto capitolo analizza le opinioni separate delle corti europee, cominciando con la discussione di alcuni casi della Corte europea dei diritti dell’uomo, da cui l’A. trae una fondamentale valutazione: “anche presso la Corte di Strasburgo, le opinioni separate disvelano profili della personalità del giudice, attinenti alla sua formazione professionale, alla sua concezione dei diritti e dell’interpretazione, alla sua adesione ad una determinata ideologia del processo. Spesso questi profili si combinano insieme, poiché i giudici di origine accademica tendono ad adottare un’interpretazione di tipo teleologico […] mentre i giudici provenienti dalla magistratura tendono invece a privilegiare un’interpretazione di tipo concreto e testualista” (411). Per quanto riguarda invece la Corte di giustizia dell’Unione europea l’A. ricorda come la questione dell’introduzione delle opinioni dissenzienti fu posta all’epoca dell’istituzione della Corte nel 1957 ma fu rigettata per due ordini di ragioni: la necessità di garantire l’uniforme applicazione del diritto comunitario da parte degli stati membri e dei giudici nazionali, e l’influenza esercitata dal modello francese del Conseil d’État. In tale quadro le opinioni degli Avvocati generali hanno finito per svolgere una funzione equivalente a quello delle opinioni dissenzienti, restituendo all’argomentazione giuridica quella prosaicità ed intelligibilità di cui sono prive le apodittiche e dogmatiche decisioni della Corte.
Il settimo e ultimo capitolo offre una valutazione d’insieme dell’indagine comparativa muovendo dalla trattazione per ordinamenti alla sistemazione topica degli argomenti: gli stili delle sentenze, la libertà di espressione del giudice, il mutamento giurisprudenziale, la portata del precedente, la legittimazione delle corti costituzionali nelle democrazie pluralistiche, il processo decisionale interno alle corti, i criteri e le procedure le nomine dei giudici costituzionali. Alessandra Di Martino nota criticamente come “nella prassi giudiziale, nessuna teoria del giudizio o della motivazione può considerarsi esclusiva, così come non lo è, nell’ambito della giurisprudenza costituzionale, nessuna teoria dell’interpretazione o dell’argomentazione. Ne consegue che, concretamente, le sentenze – e le opinioni separate – sono costituite da una combinazione di elementi diversi, logico-sistematici e retorico-argomentativi. Il peso attribuito a ciascuno di essi dipende da ogni singolo ordinamento e dal momento storico nel quale esso viene osservato” (437). Ciò è confermato dalle analisi quantitative, le quali restituiscono che “il tasso di disaccordo all’interno delle corti costituzionali (o delle corti supreme che praticano il judicial review of legislation) varia in maniera significativa da un paese all’altro: la Corte suprema statunitense è stata infatti molto divisa (oltre il 50% di disaccordo sulle motivazioni), molto meno quella canadese (circa il 30%) e quella inglese (circa il 20%), meno ancora il Tribunal constitucional spagnolo (tra il 15 e il 20%) e soprattutto il Bundesverfassungsgericht (tra il 7 e il 10%)”(493).
A conclusione della sua indagine comparativa, pur evidenziando tutte le variabili da cui dipende la scelta di dotarsi o meno di opinioni dissenzienti, Alessandra Di Martino non cela il suo favore per l’istituto, né il suo giudizio positivo nei confronti della sua adozione nell’ordinamento italiano (503-508), realisticamente da relegare nel futuro non prossimo. Fedele all’impostazione häberliana, il cui pensiero affiora in più parti dell’opera, l’A. difende il nesso tra opinioni dissenzienti e pensiero delle possibilità, secondo cui il ragionamento giuridico è espressione della logica della controversia, del probabile e dell’umanamente opinabile, e non della logica della dimostrazione e dell’imposizione istituzionale di una verità dogmatica. Seguendo questo orientamento, il lavoro conclude stabilendo un nesso tra il dissent e le diverse immagini dell’uomo (il recensore suggerirebbe di includere anche le immagini della donna, spesso divergenti, differenti e dissenzienti): “la questione pratica relativa all’introduzione o meno dell’opinione dissenziente rimanda  a un confronto tra due diverse concezioni dell’uomo, ed anche del giudice e della società, concezioni che si sono fronteggiate già nei classici del pensiero politico: la prima, moderatamente ottimista, fa leva su un’immagine del giudice indipendente e responsabile, che si relaziona con una cittadinanza attiva e partecipe; la seconda più pessimistica, vede collegi giudicanti fragili, che devono fare corpo contro le pressioni e i tentativi di occupazione da parte di forze politiche e sociali rissose” (520).
Lo studio di Alessandra Di Martino ha il pregio di offrire un’analisi esaustiva e metodologicamente rigorosa di un singolo istituto, situandolo però sempre sullo sfondo delle diverse culture giuridiche, analizzate nel loro divenire. Confluiscono così micro e macrocomparazione, analisi sincronica e diacronica, in un imponente lavoro, egregiamente scritto, in cui il lettore apprende storia costituzionale, storia delle culture giuridiche, diritto costituzionale positivo, giurisprudenza costituzionale, teoria costituzionale, teoria dell’argomentazione giuridica, diritto comparato at its best.
Ad un’opera monumentale (520 pagine + 57pp. di sola bibliografia) può apparire paradossale l’unica critica che il recensore sente di dover muovere: le parti relative alla Francia e soprattutto alle giurisdizioni sovranazionali europee sono sottodimensionate rispetto alle altri parti dell’opera. La monografia di Alessandra Di Martino si ascrive senz’altro a un must read per tutti gli studiosi di diritto comparato e, ovviamente, di giustizia costituzionale, sia per il contenuto, sia per l’impostazione, sia, non lo ripeterò abbastanza, per la chiarezza e l’incisività della scrittura.
Leggendo il lavoro di Alessandra Di Martino, il recensore trae l’impressione che l’identità costituzionale italiana post-bellica è stata capace di trovare pacificazione e unificazione solo di fronte ad istituzioni non (direttamente) elettive: il Presidente della Repubblica, di cui periodicamente si lodano le virtù della imparzialità e di rappresentanza dell’intero corpo sociale, e la Corte costituzionale, di cui si predilige l’immagine di un consesso di saggi, dediti all’esclusivo compito della difesa dei valori costituzionali. Di fronte alla rissosità e all’inconcludenza della sfera politica, la sfera pubblica italiana predilige far discendere da una voce istituzionale impersonale le scelte politiche fondamentali, piuttosto che identificarle in impegni presi da individui personalmente responsabili. Purtroppo, come ricorda l’A., rimangono attuali le parole di Mortati, il quale giudicava il rifiuto di accogliere l’opinione dissenziente come il sintomo di “quella ritrosia ad ogni innovazione, di quella tendenza al quaeta non movere, di quel timore dei salti nel buio che caratterizzano la mentalità dominante del ceto medio italiano, e che hanno avuto tanta parte di responsabilità nella perduranza dello stato di arretratezza in cui versano numerosi settori di vita del paese” (337). L’opinione pubblico-giuridica italiana sembra così preferire una netta divisione tra il gossip costituzionale che circonda le camere di consiglio e l’aura sacrale che proviene da una decisione presa da una istituzione impersonale, e non da singole donne e uomini. Così facendo, si preferisce immunizzare un’istituzione da attacchi politici, ma anche da critiche razionali, e guardare dal buco della serratura delle indiscrezioni giornalistiche, piuttosto che avere un confronto pubblico sulla pluralità delle divergenti opinioni espresse da giudici responsabili. D’altronde, la stessa Di Martino ammette che in Italia “la cultura politico-costituzionale non è sufficientemente matura” (480).
L’unanimità della decisione di una corte suprema i cui giudici non hanno la possibilità di esprimere il proprio dissenso appare allora come una finzione del diritto costituzionale, una finzione costitutiva, beninteso, capace di veicolare forti contenuti di valore: l’inoppugnabilità della decisione e la natura “buona” dell’istituzione da cui proviene. L’argomento ricorrente nel contesto italiano, secondo cui l’introduzione delle opinioni dissenzienti esporrebbe la Corte costituzionale alle polarizzazioni della lotta politica, minandone la fragile posizione, appare al recensore come un discorso ideologico di vittimizzazione di un’istituzione che non cessa di espandere la sua sfera di influenza, giunta ormai nell’acquiescenza quasi unanime di sfera pubblica e dottrina costituzionale sino a scrivere le leggi elettorali. Le passive virtues di Alexander Bickel sono diventate oggi in Italia le virtù passive-aggressive di un’istituzione in espansione, rispetto a cui lo sguardo comparativo continua ad esercitare una funzione di critica emancipatoria rispetto alle ideologie giuridiche del momento.