Quando la direttiva indica la luna

All’indomani della sentenza Kücükdeveci non sono mancate le reazioni di chi  la considera una decisione epocale. Certamente, la Corte ha affrontato in maniera concisa una rosa di questioni spinose, e non mancano i passaggi interessanti (un esempio: al punto 22 la Corte ricorda il valore vincolante della Carta dei Diritti Fondamentali, glissando signorilmente sul particolare che all’epoca dei fatti in causa il Trattato di Lisbona non era in vigore).

Ciò che ha destato l’entusiasmo di molti, tuttavia, è il fatto che la Corte avrebbe sdoganato l’effetto diretto orizzontale di alcune direttive, quelle capaci di “esprimere” un principio generale dell’ordinamento. Il testo della sentenza non autorizza questa lettura, che forse mantiene un qualche valore profetico o “dietrologico”.
Un passo indietro: nel 1979 la Corte prende atto che “lo stato membro che non abbia adottato, entro i termini, i provvedimenti d’attuazione imposti dalla direttiva non può opporre ai singoli l’inadempimento, da parte sua, degli obblighi derivanti dalla direttiva stessa” (caso Ratti, causa 148/78, punto 22). In altre parole: lo Stato non può sottrarsi ad un obbligo dell’Unione invocando un proprio inadempimento, pertanto le direttive possono dispiegare un’efficacia diretta verticale. A contrario, vale il principio che i privati, non essendo responsabili per tale inadempimento, non sono soggetti alle obbligazioni derivanti da una direttiva non transposta (o transposta incorrettamente): le direttive non possono avere un effetto diretto orizzontale.
Se la Corte avesse rinnegato questo principio, se ne avrebbe traccia in Kücükdeveci. Tutt’altro: la Corte ribadisce che “una direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo” (punto 46), che la norma nazionale contraria non si presta ad un’interpretazione conforme alla direttiva (punto 49) e che – peraltro – quest’ultima non “sancisce” il principio invocato (il divieto di discriminazioni basate sull’età), ma si limita a dargli “espressione concreta” (punto 50).
Infatti, non è la direttiva, ma lo stesso principio generale dell’Unione a dispiegare efficacia diretta (e a imporre la disapplicazione della normativa nazionale contraria) (punto 51) (vedi la famigerata sentenza Mangold. Perché allora quella formula, ripetuta ossessivamente, per cui il giudice nazionale deve applicare “il principio di non discriminazione in ragione dell’età, quale espresso concretamente nella direttiva 2000/78”?
L’accoppiata tra il principio (vincolante) e la direttiva (non applicabile) è solo una scorciatoia ermeneutica: esiste un principio generale di cui andrebbe indagato il contenuto preciso, ma l’indagine è notevolmente facilitata dall’esistenza della direttiva, che vincola lo Stato e si propone – expressis verbis – di dare sostanza a tale principio.

 

È lo stesso procedimento per cui, in diritto internazionale, la ricostruzione del contenuto di una consuetudine (in vigore nell’anno x) può basarsi sul testo di una convenzione (stipulata nell’anno x+1), quando questa abbia indubbiamente un carattere codificatorio. Ancora: i tribunal NAFTA  non hanno e sitato a ricostruire l’obbligo di accordare all’investitore straniero un “fair and equitable treatment” (NAFTA art. 1105) ricorrendo alla clausola analoga inclusa nei trattati bilaterali di protezione degli investimenti stipulati con Stati terzi; un tribunale ICSID ha ricostruito il significato dello stato di necessità nel BIT Argentina – USA guardando alla clausola delle eccezioni generali del GATT (Art. XX) come interpretata dall’Appellate Body.
Morale: uno Stato non può fingere di ignorare il contenuto di un’obbligazione derivante da una fonte x ove ne abbia negoziato i dettagli in un altro strumento vincolante: la Germania conosceva bene il contenuto del principio generale dell’Unione, e la direttiva ne è prova.

 

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