Re melius perpensa, o della virata garantista della Corte Edu in tema di negazionismo

Contestare l’attribuzione della qualifica di “genocidio” ai massacri e alle deportazioni subite dal popolo armeno nel 1915 è manifestazione del pensiero tutelata dall’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Questo, in breve, è quanto ha affermato la Corte Edu nella decisione Perinçek c. Svizzera, che scrive una nuova pagina della controversa giurisprudenza dei giudici di Strasburgo sulla repressione del negazionismo (per un primo commento v. Lobba Un ”arresto” della tendenza repressiva europea sul negazionismo, su www.penalecontemporaneo.it). Come noto, la Corte europea si è mostrata, nel tempo, particolarmente insensibile alle ragioni della libertà di espressione, riconducendo all’alveo dell’art. 17 Cedu (che prevede la clausola dell’abuso del diritto) le opinioni che negano l’esistenza dell’Olocausto (per una ricostruzione critica di questo orientamento, cfr., se si vuole, Caruso, Dignità degli “altri” e spazi di libertà degli “intolleranti”: una rilettura dell’art. 21 Cost., in Quad. cost. 4/2013, 800 e ss., nonché Id., La libertà di espressione in azione. Contributo a una teoria costituzionale del discorso pubblico, Bologna, 2013, 244 e ss.). In questa giurisprudenza, il mancato richiamo all’art. 10 Cedu è strumentale all’adozione di decisioni che rifiutano di scendere nel merito del giudizio, di esaminare la questione alla luce circostanze del caso e, quindi, di valutare tempo, luogo e modalità della condotta espressiva. L’applicazione sic et simpliciter dell’art. 17 Cedu produce un “effetto ghigliottina” che esclude dalla tutela convenzionale – a priori e in via generale – determinate categorie di opinioni in ragione del loro contenuto.


L’aspetto più rilevante della sentenza che qui si commenta sta proprio, allora, nella deviazione da questo impianto decisorio. Oggetto del giudizio è stata, infatti, la condanna di un politico turco che, in una serie di incontri pubblici tenutisi in territorio svizzero, descriveva il genocidio del popolo armeno come una “menzogna internazionale”. Il ricorrente non negava l’esistenza dell’eccidio, ma contestava la sua classificazione come “genocidio”: i relativi fatti sarebbero stati da contestualizzare nell’ambito degli eventi bellici a cavallo della Prima Guerra mondiale.

I giudici nazionali hanno dato applicazione all’art. 261.4 del codice penale svizzero, che sanziona la negazione, la giustificazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio tout court. Secondo le autorità svizzere, infatti, sarebbe sufficiente l’esistenza di un consenso generale di natura politica, tra gli Stati che compongono la comunità internazionale, per attribuire carattere genocidiario a determinati eventi storici.

A fronte di tali considerazioni, la Corte Edu ha escluso, anzitutto, che possa essere richiamato l’art. 17 Cedu. L’ammissibilità del ricorso è senz’altro l’innovazione più significativa rispetto alla giurisprudenza pregressa. Secondo la Corte, lo standard ordinario per pronunciarsi sulle controversie che coinvolgono manifestazioni del pensiero “estreme” è da rinvenire nell’art 10 Cedu, a maggior ragione quando, come nel caso di specie, la negazione della natura genocidaria di determinati fatti non abbia il fine di istigare all’odio. La tecnica di giudizio sottesa all’art. 10 rovescia, infatti, l’onere argomentativo: tutte le volte in cui la sanzione penale colpisca il discorso politico o, comunque, opinioni che riguardano questioni di interesse generale, spetta alle autorità nazionali resistenti  provare la proporzionalità della misura  (parr. 100, 112).

D’altro canto, la nozione di genocidio ha una portata giuridica ben definita: non è un sufficiente un mero consenso politico per la qualificazione genocidiaria di determinati eventi storici; è necessario, piuttosto, un accertamento giudiziale sull’elemento obiettivo e, soprattuto, sull’elemento psicologico, entrambi previsti dalla Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio (1948). In questo senso, i giudici di Strasburgo pongono le basi per l’enucleazione di una distinzione fondamentale, cardine della decisione: un conto è la negazione di un fatto storicamente stabilito e giuridicamente accertato (come ad esempio, l’Olocausto); altro è la mera critica alla qualificazione normativa di eventi di cui manchi un inequivocabile riconoscimento normativo da parte dell’ordinamento internazionale. In quest’ultimo caso, le opinioni espresse sono da ricondurre a pieno titolo all’alveo della libertà di espressione (parr. 116-117). Dal punto di vista normativo, infatti, il genocidio è un delitto, che deve essere accertato da una giurisdizione internazionale sulla base di elementi probatori univoci: in assenza di tali requisiti, qualsiasi discussione intorno ad esso assume una valenza politica e storica che integra il nucleo  duro della libertà di espressione e della libertà di ricerca scientifica.

La scelta di condurre il giudizio secondo l’ad hoc balancing sotteso dall’art. 10 tradisce una  rinnovata consapevolezza di ciò che comporta l’applicazione dell’art. 17 Cedu: come argomentato nell’opinione concorrente dei giudici Raimondi e Sajò, l’utilizzo della clausola dell’abuso del diritto deve essere necessariamente residuale e recessiva, perché elide in radice la possibilità di sottoporre il comportamento degli Stati resistenti ad un giudizio di proporzionalità e, quindi, ad un esame giudiziale “in the light of the case as a whole” secondo la logica essenzialmente casistica del sindacato di convenzionalità.

Nel merito, poi, la decisione sembra inaugurare un nuovo orientamento dei giudici di Strasburgo in tema di negazionismo, attraverso la dissociazione tra il giudizio sull’accadimento storico dell’evento e la sua valutazione in termini normativi (si avverte l’eco della decisione del Consiglio costituzionale francese n. 647/2012). La pronuncia rappresenta senz’altro un’evoluzione rispetto, ad esempio, a Lehideux and Isorni v. France (1998), ove esigenze garantistiche avevano comunque portato la Corte a sanzionare la Francia per la condanna di quei revisionisti che rimettevano in gioco le responsabilità storiche del Maresciallo Petain. In quel caso, i giudici di Strasburgo si erano appellati alla (scivolosa) distinzione tra fatti “chiaramente stabiliti” ed eventi ancora da accertare definitivamente: solo nel primo caso, infatti, sarebbe giustificata la sanzione penale per condotte “negazioniste” o “revisioniste”. Nella decisione che si commenta, invece, il presupposto che rende convenzionalmente legittima la limitazione della manifestazione del pensiero è l’accertamento giudiziario dei fatti contestati (come avvenuto, ad esempio, con il Tribunale di Norimberga in relazione all’Olocausto).

Non mancano, certo, alcune ombre, tra cui l’evidente spaccatura consumatasi in seno alla Corte (da segnalare è l’opinione dissenziente dei giudici Vucinic e Pinto de Albuquerque, che pure non hanno contestato la scelta di dichiarare ammissibile il ricorso) e – soprattutto – il riferimento, in vari passaggi, alla possibile lesione della libertà di ricerca scientifica. Come è stato messo in luce (cfr. Fronza, Il negazionismo come reato, XII e ss., Parisi, Il negazionismo dell’olocausto e la sconfitta del diritto penale,in Quad. cost. 4/2013, 893-894, Caruso, Dignità degli “altri”, cit., pp. 798-799), tuttavia, i “negazionismi” non sono specificazione di un’attività di ricerca. Essi non offrono alcuna esposizione storiografica, né si avvalgano di alcun metodo scientifico; le narrazioni negazioniste esprimono, viceversa, opinioni mascherate da inattendibili giudizi di fatto. L’incriminazione del negazionismo non apre le porte all’imposizione di una verità ufficiale; piuttosto, esso rappresenta un intenso strumento di protezione democratica che anticipa l’autotutela ad uno stadio di pericolo presunto per i valori dello Stato costituzionale. In altri termini, in coerenza con la ratio dei reati di opinione, gli ordinamenti che introducono simili fattispecie non corrono il rischio di cristallizzare la verità storica, ma di ridurre al silenzio il discorso pubblico, restringendo gli spazi di partecipazione politica degli individui.