Recensione a Cesare Pinelli, Alla ricerca dell’autenticità perduta. Identità e differenze nei discorsi e nei progetti di Europa, Napoli, Editoriale scientifica, 2017

Nella collana di “Letture magistrali”, frutto di un ciclo di lezioni presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, questo volumetto di Cesare Pinelli ripercorre sinteticamente, ma con sguardo acuto e raffinato, il tema centrale dell’identità (costituzionale) nel contesto del difficile processo di formazione intellettuale e istituzionale delle idee “comuni” di Europa.  Siamo così di fronte alla storia di una costante tensione tra identità e differenze, tra Europe-building e salde (e ostiche) radici nazionali, tra grandi speranze e fragili realtà.
La storia intellettuale ne è il punto di partenza. Se Jean-Jacques Rousseau sollecita i Polacchi a non seguire gli “Europei” che, attratti ormai dal lusso, rischiano di perdere la loro identità e le virtù pubbliche, a inizio Ottocento Benjamin Constant vede invece nella Commercial Society l’annuncio di una nuova era nella quale sarà anzitutto il commercio a mettere le nazioni in relazione tra loro senza più violenza. Nel corso del Settecento questo processo di “interdipendenza” tra le nazioni acquistò sostanza. “Un principe – osservava Montesquieu – crede che sarà più grande per la rovina di uno Stato vicino. Al contrario. La situazione è tale in Europa, che tutti gli Stati dipendono gli uni dagli altri. (…) L’Europa è uno Stato composto da più province”. Interdipendenza che appare essere garanzia di “equilibrio” tra le potenze e di ostacolo alla formazione di un potere egemonico. “Rousseau, Montesquieu e Kant – commenta Pinelli – guardano a un‘Europa che a un secolo dal trattato di Westfalia si va componendo in un sistema di coesistenza fra Stati, dove gli intrecci di memorie, culture e interessi consentono però un unico discorso, articolato in posizioni anche radicalmente divergenti” (p.20). Se nel primo Ottocento Constant, Stuart Mill, Tocqueville denunciano, in pagine memorabili, i pericoli dell’uniformità e del conformismo politico volendo invece valorizzare, quale antidoto, la dimensione plurale e multiforme dell’Europa, l’età delle nazioni e del nazionalismo (che si porterà dietro come bagaglio ingombrante colonialismo e imperialismo) propose altri concetti di “differenza”. Nel corso del Novecento, con le sue catastrofi belliche e l’avvento del totalitarismo, invocare l’Europa “comune” significò poter immaginare nuovi fondamenti su cui ri-costruire un’idea.
Il secondo dopoguerra pose il dilemma tra due visioni e due strade: restando sul discorso storico, tra la concezione kantiana del liberalismo repubblicano e quella del liberalismo commerciale di Smith, Montesquieu e Constant. Ad avere la meglio fu la seconda, ora declinata in chiave di “indirizzo funzionalistico”. Il processo incrementale che ne derivò con indubbi e forse inaspettati successi non riuscì a colmare mai la divaricazione tra ordine giuridico sovranazionale e sviluppo delle Costituzioni nazionali. Si cercò, allora, di recuperare la dimensione del costituzionalismo attraverso il crescente richiamo della Corte di giustizia delle Comunità europee alle “tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri” per ovviare, all’inizio, all’assenza di un catalogo dei diritti fondamentali nell’ordinamento europeo. Il successivo processo di costituzionalizzazione ha mostrato tutta la fragilità del tema identitario nelle sue diverse versioni, dalla Dichiarazione di Laeken in poi. L’”unità nella diversità” – formula di per sé densa – non ha trovato una declinazione convincente. “Il recente passato europeo – osserva Pinelli – è anestetizzato. Sorvolando sull’ultimo secolo, si risale alle ‘eredità culturali, religiose e umanistiche’ quale premessa dello sviluppo di valori universali” (p. 53). Ne è derivata una “identità” di facciata, incapace di confrontarsi realmente con i grandi temi delle radici, dei conflitti e delle differenze. Una sorta di beata auto-contemplazione e di insincero esercizio di autocelebrazione. Insomma, l’Europa fallisce il suo possibile appuntamento con il “costituzionalismo” proprio nel momento in cui pensa di adottarne il “lessico” e le “forme” senza trarne però le debite conseguenze. Il “momento della scrittura” non è così servito a porre le basi per un vero futuro costituzionale. Il disegno volto a mantenere al centro ben saldo l’equilibrio istituzionale tra Stati membri e Unione, con processi decisionali troppo lontani dai cittadini europei, ha rafforzato il carattere “artificiale” e senza pathos dell’Europa lasciando ciò che rimane della stessa Europa “politica” sotto il tiro dei sovranisti e delle loro semplicistiche critiche anti-tecnocratiche e “neo-identitarie”.
Eppure – osserva infine l’A. – la “formula ‘Unità nella diversità’ continua perciò a indicare la possibilità di uno sguardo sull’Europa alternativo all’artificioso linguaggio ufficiale dell’Unione (…)”. Per dare nuovo slancio occorre però ritrovare una vera visione e riformulare le ragioni del nesso costitutivo tra identità e differenze.