Rinvio pregiudiziale mancato e (im)possibile violazione della CEDU (a margine del caso Ullens de Schooten e Rezabek c. Belgio)

Sommario: 1. Il caso. – 2. Due pesi e due misure, ovverosia le aporie di costruzione nel discorso del giudice di Strasburgo nella parte in cui vorrebbe tenuto fermo il giudicato interno formatosi in disprezzo di norme dell’Unione, ammettendosi invece la sua eventuale revisione in caso di violazione di norme della CEDU. – 3. La singolare negotiorum gestio di cui la Corte europea ha inteso farsi carico, assumendo il diritto dell’Unione quale una sorta di anomalo tertium comparationis ovvero quale fonte “interposta” al fine del riscontro della lamentata violazione della Convenzione. – 4. La via più piana che avrebbe potuto condurre la Corte di Strasburgo a sgravarsi della spinosa questione sollevatale: rimettersi al discrezionale apprezzamento dei giudici nazionali circa il carattere doveroso dell’esercizio del potere di rinvio pregiudiziale (in attesa che, all’esito delle trattative volte a determinare l’adesione dell’Unione alla CEDU, si renda possibile il ricorso da parte della stessa Corte di Strasburgo ad una sorta di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia con riguardo ai casi di supposta violazione della Convenzione conseguente a violazione del diritto eurounitario). – 5. Quando l’apparenza inganna: affermando di volersi fare interprete e garante del diritto dell’Unione (e perciò, in buona sostanza, della sua giurisprudenza), la Corte EDU in realtà si propone come giudice di ultima istanza in fatto di possibili violazioni dei diritti fondamentali. L’esercizio diffuso, sistematico, del potere di rinvio pregiudiziale quale ricetta giusta grazie alla quale i giudici nazionali (Corte costituzionale inclusa) possono, per la loro parte, concorrere al riequilibrio dei rapporti tra le Corti europee, parando in tal modo il rischio che si pervenga ad una ordinazione “verticale” delle Corti stesse, tale da fare di una sola di esse un mostruoso potere costituente permanente. – 6. Interprete privilegiato, se non pure però esclusivo, del diritto dell’Unione non può essere altri che il giudice di Lussemburgo, allo stesso tempo ogni Corte (europea o nazionale che sia) dovendo ispirarsi e mantenersi scrupolosamente fedele, nella propria quotidiana opera al servizio dei diritti, al principium cooperationis quale autentica Grundnorm delle relazioni interordinamentali.

 

1. Il caso

La pronunzia del 20 settembre 2011 della seconda sezione della Corte di Strasburgo sul caso Ullens de Schooten e Rezabek c. Belgio appare di notevole interesse sotto più aspetti, per ciò che essa rappresenta al piano, obiettivamente inclinato e scivoloso, dei rapporti tra Corti europee e giudici nazionali e, soprattutto, per ciò che è idonea a rappresentare negli ulteriori svolgimenti che, di qui a breve, potranno aversi dei rapporti medesimi, nell’affannosa e non di rado sofferta ricerca di una interna chiarificazione e sia pur relativa stabilità non ancora in misura apprezzabile raggiunte.
Inusuale appare, per il modo con cui è impostata e risolta, la questione oggetto della pronunzia in commento. Si trattava infatti di stabilire se il mancato esperimento del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia da parte dei giudici di ultima istanza (Corte di Cassazione e Consiglio di Stato) potesse comportare una violazione dell’art. 6 § 1 della CEDU. La Corte di Strasburgo nella circostanza lo nega, rilevando il carattere non assoluto dell’obbligo di rinvio, secondo le indicazioni date dalla Corte di Lussemburgo nel noto caso Cilfit dell’81, laddove – come si ricorderà – i giudici nazionali di ultimo grado sono stati sgravati dell’adempimento dell’obbligo in parola, in caso di rinvio non pertinente in rapporto al processo ovvero laddove la disposizione abbia già costituito oggetto di pronunzia da parte della Corte di giustizia e, infine, nel caso che la corretta applicazione del diritto dell’Unione si imponga con tale evidenza da non lasciare spazio alcuno per dubbi ragionevoli d’interpretazione (spec. punto 56). È bensì vero – avverte la Corte EDU – che, trattandosi di eccezioni rispetto alla regola, se ne impone il puntuale riscontro nella motivazione della decisione con cui il giudice nazionale rigetta l’istanza di rinvio. Una motivazione che, nella specie, malgrado il contrario avviso delle parti (a cui opinione Cilfit andrebbe intesa in senso restrittivo: 47), ad avviso della Corte europea vi sarebbe stata (63), restando pertanto per quest’aspetto esclusa la violazione dell’art. 6 della Convenzione (67). Un riscontro positivo, tuttavia, che è, ad onor del vero, più affermato che argomentato, avendo il giudice europeo fatto in buona sostanza rinvio ai rilievi sul punto presenti nelle decisioni dei giudici nazionali.

 

2. Due pesi e due misure, ovverosia le aporie di costruzione nel discorso del giudice di Strasburgo nella parte in cui vorrebbe tenuto fermo il giudicato interno formatosi in disprezzo di norme dell’Unione, ammettendosi invece la sua eventuale revisione in caso di violazione di norme della CEDU

La questione presenta un risvolto di singolare gravità, ad oggi oggetto – come si sa – di accesi dibattiti e di incerti esiti ricostruttivi, trattandosi di stabilire se la cosa giudicata formatasi in un giudizio nel quale abbia fatto difetto il rinvio pregiudiziale sia comunque da tenere ferma, pure in caso di acclarata violazione del diritto dell’Unione[1], ovvero se possa o debba recedere in nome del primato di cui quest’ultimo gode nei riguardi del diritto interno.
La Corte di Cassazione belga si è senza esitazione schierata per il primo corno dell’alternativa, invece fermamente contrastato dalle parti; e la Corte EDU si è essa pure, stranamente ed apoditticamente, schierata a fianco del giudice nazionale (64), facendosi forte – una volta di più – dell’orientamento al riguardo manifestato dalla Corte di giustizia (22)[2].
La cosa merita di essere sottolineata, sol che si pensi che proprio su tale questione, sul fronte dei rapporti col diritto convenzionale (e non su quello dei rapporti col diritto comunitario o – come a me piace dire – “eurounitario”), venendo incontro ad una insistita sollecitazione della stessa Corte di Strasburgo, si è da noi finalmente ammessa (sent. n. 113 del 2011) la eventualità del rifacimento del giudizio penale svoltosi in disprezzo dei canoni del giusto processo[3].
La Corte EDU fa invece oggi capire che possono aversi due pesi e due misure, a seconda che la violazione di norme di origine esterna si consumi sul versante dei rapporti col diritto dell’Unione ovvero su quello dei rapporti con la Convenzione, per quanto – è qui la stranezza – l’una violazione possa ridondare ed interamente risolversi nell’altra[4]. Uno sperequato trattamento che – ferma la condizione ad ogni modo tipica che è da riconoscere alle pronunzie dell’una e dell’altra Corte europea – appare già al presente assai problematicamente difendibile e, più ancora, a me pare, potrà esserlo anche a breve, ove si abbia la prevista adesione dell’Unione alla CEDU (sulle cui implicazioni dirò, per taluni aspetti, di qui ad un momento).
Si faccia caso alla circostanza per cui, a stare all’indicazione oggi fornita dalla Corte EDU, le pronunzie della Corte di giustizia risulterebbero meno garantite in ordine alla loro efficacia in ambito interno rispetto alle decisioni della Corte di Strasburgo, laddove solo le prime (e non pure le seconde) hanno riconosciuta una forza normativa – piace a me dire – “paracostituzionale”, qual è in generale propria di ogni atto dell’Unione provvisto di effetti vincolanti[5]. Con il che si perviene all’esito singolare di una innaturalmente divaricata posizione detenuta dalle pronunzie in parola, rispettivamente, al piano della teoria delle fonti ed al piano della teoria delle garanzie processuali. E, infatti, le decisioni che, all’un piano, appaiono essere in astratto più “forti”, e che anzi sono dalla communis opinio (col generoso avallo di un diritto “vivente” ormai incrollabile) considerate come dotate di vis normativa (e normativa in grado eminente), risultano in concreto, all’altro piano, private dell’attitudine a rimuovere gli effetti di atti giudiziari definitivi, attitudine di cui sono invece considerate dotate le decisioni della Corte EDU, malgrado il loro carattere non “normativo” e malgrado la natura di fonte – a dire del nostro giudice delle leggi – “subcostituzionale” che sarebbe propria della Convenzione[6].
Né varrebbe opporre che la resistenza del giudicato interno davanti a norme dell’Unione con esso incompatibili rinverrebbe la sua ragione giustificativa nella qualità propria del giudicato stesso di essere espressione, sempre e comunque, di un “controlimite” ovvero di essere al servizio dei “controlimiti” in genere, se non altro in quanto strumentale al valore fondamentale della certezza del diritto. Che la certezza sia un valore, infatti, non si discute; e, però, come ogni altro valore soggiace ad operazioni di bilanciamento, le quali possono poi alle volte prendere corpo anche nella dimensione dei rapporti interordinamentali[7]; tant’è che la stessa giurisprudenza – come si è rammentato – ne ammette il carattere recessivo all’incontro (o allo scontro) con norme di origine esterna, persino laddove le stesse – sempre a dire della giurisprudenza – in punto di astratto diritto sono tenute a prestare ossequio (e, dunque, ad arrestarsi nella loro marcia di penetrazione nell’ordine interno) a qualsivoglia norma costituzionale, e non ai soli principi fondamentali nei quali si specchiano e concretano i c.d. “controlimiti”.
Il vero è che – come si è tentato altrove di mostrare[8] – la sola certezza del diritto (anche costituzionale!) che ha significato e possiede pregio è quella che interamente si risolve in certezza (e, perciò, effettività) dei diritti costituzionali. Non a caso l’eventuale carattere recessivo del giudicato interno è stato ammesso, opportunamente, alla sola condizione di dover far spazio all’ingresso in ambito nazionale di norme di origine esterna idonee a dare garanzia ai diritti o, per dir meglio, ad offrire a questi una tutela ancora più “intensa” di quella che pure possa esser loro data da norme nazionali[9].

 

3. La singolare negotiorum gestio di cui la Corte europea ha inteso farsi carico, assumendo il diritto dell’Unione quale una sorta di anomalo tertium comparationis ovvero quale fonte “interposta” al fine del riscontro della lamentata violazione della Convenzione

Come che sia di ciò e in disparte ogni riserva che meriti di essere opposta a riguardo del modo con cui a Strasburgo si vedono gli effetti prodotti dalle pronunzie dell’una e dell’altra Corte europea al momento del loro impatto con contrarie decisioni giudiziarie di diritto interno passate in giudicato, giova muovere dai punti fermi fissati nella decisione qui annotata, focalizzando quindi l’attenzione – sia pure con la rapidità imposta a questa riflessione – sui possibili riflessi di ordine istituzionale discendenti dalla decisione in commento, specie al piano dei rapporti che le Corti europee intrattengono sia inter se che con le Corti nazionali.
Si faccia caso alla studiata cautela con cui la Corte EDU si pone davanti alla questione sottopostale e, per ciò stesso, davanti al diritto dell’Unione ed alla sua giurisprudenza. Esclusivo punto di riferimento è proprio quest’ultima, di cui la Corte di Strasburgo dichiara di volersi fare interprete e garante. Non avrebbe, d’altronde, potuto essere altrimenti. Essendo stata lamentata la mancata osservanza di un obbligo discendente dall’appartenenza all’Unione, il punto di vista non avrebbe potuto essere che quello dell’Unione stessa (e, perciò, in buona sostanza, del suo giudice, la Corte di giustizia).
È tuttavia singolare la circostanza di questa sorta di negotiorum gestio, di cui la Corte di Strasburgo ha ritenuto di doversi fare carico per il fatto di essere stata chiamata a pronunziarsi in merito ad una presunta violazione della Convenzione perpetrata per il tramite di una violazione del diritto eurounitario. Quest’ultimo insomma – potrebbe dirsi con un linguaggio a noi familiare – è il tertium comparationis o, forse meglio, la fonte “interposta” che dà corpo al parametro convenzionale, che da essa interamente si tiene ed alimenta al momento del riscontro della sua validità. Solo che non è detto – nel caso di specie come pure in generale – che l’interpretazione “quasi autentica” data, nel chiuso della propria dimora, dalla Corte di Strasburgo del pensiero della Corte di Lussemburgo rispecchi fedelmente quest’ultimo. Di modo che non potrebbe escludersi, per un verso, che il verdetto emesso dal giudice nazionale e dotato di “copertura” da parte del giudice europeo possa ugualmente essere attaccato davanti alla Corte di giustizia per violazione dei canoni che stanno a base del rinvio pregiudiziale e, per un altro verso, che il caso stesso possa nuovamente tornare ad essere sottoposto al giudizio della Corte EDU, sia per gli stessi che per altri motivi, rilevandosi dunque, per altra via, la violazione del “giusto processo”, di cui all’art. 6 della Convenzione, oggi invece negata.
Quando un giudice sovranazionale (qui, la Corte EDU) si considera abilitato a pronunziarsi circa l’osservanza di norme esterne all’ordine di cui è istituzionalmente garante (di norme dell’Unione, appunto) possono determinarsi incroci perversi o – come pure sono stati definiti, sia pure in altro contesto teorico-ricostruttivo[10] – “pericolosi” tra obblighi ugualmente gravanti sugli operatori di diritto interno. In una congiuntura, quale quella sopra succintamente descritta, cosa dovrebbero fare i giudici nazionali? Prestare ascolto all’interprete “quasi autentico” – come lo si è definito – del diritto eurounitario ovvero al suo interprete privilegiato (se non pure propriamente “autentico”[11]), la Corte di giustizia? E, dando ascolto a quest’ultimo interprete, come potrebbero difendersi dall’accusa di essere venuti meno agli impegni derivanti dalla Convenzione? E ancora: la Corte di Strasburgo, eventualmente di nuovo chiamata a pronunziarsi sulla medesima questione, dovrebbe considerarsi obbligata a conformarsi in tutto e per tutto alle indicazioni date dalla Corte dell’Unione, se medio tempore a sua volta interpellata, pur laddove suonino oggettivamente come smentita di un’anteriore ricostruzione dell’indirizzo di quest’ultima operata a Strasburgo? Ovvero la conformità in discorso può considerarsi rispettata col solo riferimento alla “sostanza” degli indirizzi interpretativi invalsi a Lussemburgo[12]?

 

4. La via più piana che avrebbe potuto condurre la Corte di Strasburgo a sgravarsi della spinosa questione sollevatale: rimettersi al discrezionale apprezzamento dei giudici nazionali circa il carattere doveroso dell’esercizio del potere di rinvio pregiudiziale (in attesa che, all’esito delle trattative volte a determinare l’adesione dell’Unione alla CEDU, si renda possibile il ricorso da parte della stessa Corte di Strasburgo ad una sorta di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia con riguardo ai casi di supposta violazione della Convenzione conseguente a violazione del diritto eurounitario)

Come si vede, un groviglio, di questioni e di domande, che si rincorrono a vicenda, cui non è affatto agevole dare una pronta e sicura risposta e che però, con ogni verosimiglianza, si alimentano da un vizio di origine, quale si rende palese ove si rimetta in discussione proprio la partenza del ragionamento nella circostanza fatto dalla Corte di Strasburgo, vale a dire la sua legittimazione a farsi fedele interprete del diritto della Unione e garante optimo iure della sua osservanza. La Corte avrebbe infatti potuto liberarsi della più spinosa delle domande rivoltele, circa la supposta trasgressione da parte dei giudici nazionali dell’obbligo di rinvio pregiudiziale, con un non liquet fondato sul discrezionale apprezzamento al riguardo esclusivamente rimesso alle autorità giudicanti di diritto interno e limitandosi pertanto a pronunziarsi sui profili più pertinenti al diritto convenzionale (e, segnatamente, circa la irragionevole durata del processo[13]).
Il punto richiede un supplemento di attenzione.
L’alternativa all’ipotesi ora ragionata potrebbe esser quella, idonea a prendere forma nelle trattative in corso volte a concretare l’adesione dell’Unione alla CEDU, secondo cui la pronunzia della Corte di Strasburgo, in circostanze quale quella che ha portato alla decisione in commento, dovrebbe essere comunque preceduta da una pronunzia della Corte di Lussemburgo, alla quale la prima Corte sarebbe quindi tenuta a rifarsi[14]. Una sorta di “rinvio pregiudiziale”, come si vede, dall’una all’altra Corte europea che eviterebbe sul nascere l’insorgere di un conflitto gravido di negative conseguenze nelle pratiche giudiziarie di diritto interno. Interpellandosi la Corte dell’Unione in merito alla necessità che essa fosse ab initio direttamente interpellata dai giudici nazionali, a conti fatti si tornerebbe alla partenza del percorso, avendosi perciò ulteriore conferma del rilievo, cruciale, dell’utilizzo diffuso e pressoché sistematico dello strumento di cooperazione tra giudici nazionali e Corte eurounitaria costituito dal rinvio pregiudiziale[15].
Voglio sperare che la soluzione ora indicata possa avere conferma all’esito delle trattative conducenti all’adesione dell’Unione alla CEDU. Al momento, ad ogni buon conto, ci si deve interrogare sulle ragioni che possono aver indotto la Corte di Strasburgo a non rimettersi al solo vaglio dei giudici nazionali in merito al rispetto degli obblighi che vengono dall’Unione, in tal modo addentrandosi nel campo in cui prendono forma le questioni di stretto diritto eurounitario.

 

5. Quando l’apparenza inganna: affermando di volersi fare interprete e garante del diritto dell’Unione (e perciò, in buona sostanza, della sua giurisprudenza), la Corte EDU in realtà si propone come giudice di ultima istanza in fatto di possibili violazioni dei diritti fondamentali. L’esercizio diffuso, sistematico, del potere di rinvio pregiudiziale quale ricetta giusta grazie alla quale i giudici nazionali (Corte costituzionale inclusa) possono, per la loro parte, concorrere al riequilibrio dei rapporti tra le Corti europee, parando in tal modo il rischio che si pervenga ad una ordinazione “verticale” delle Corti stesse, tale da fare di una sola di esse un mostruoso potere costituente permanente

Certo, non può escludersi che la Convenzione possa essere violata anche in modo “interposto”; e ogni illecito convenzionale, quale che sia la causa che lo determina o la forma che lo rende palese, va pur sempre sanzionato. L’apparenza tuttavia – come suol dirsi – non di rado inganna; comunque, fa da velo alle vere ragioni ad essa sottostanti.
Dando a vedere di volersi fare interprete e garante del diritto dell’Unione quale “vive” per bocca della Corte di Lussemburgo, la Corte EDU in realtà si propone come giudice ultimo in fatto di salvaguardia dei diritti fondamentali, anche al piano delle relazioni tra le stesse Corti europee dunque. Una priorità di “posto”, ovviamente, destinata ad avere le sue più eloquenti conferme a seguito della prevista, auspicata adesione dell’Unione alla CEDU, per effetto della quale le stesse pronunzie della Corte di giustizia potrebbero esser causa di violazione della Convenzione rilevata dal “giudice naturale” di questa, con sede a Strasburgo.
È questo, a mia opinione, il significato di maggior peso, al piano delle relazioni istituzionali, che va assegnato alla decisione qui annotata. E, poiché la lezione che da quest’ultima ci viene somministrata è nel senso che la Corte di Strasburgo ha (o, meglio, ritiene di avere) il titolo per pronunziarsi anche su questioni di stretto diritto eurounitario, se ne ha che l’unico modo che hanno i giudici nazionali (specie, appunto, quelli di ultima istanza) per concorrere, per la loro parte, a riequilibrare i rapporti tra le Corti europee, allo stesso tempo parando sul nascere il rischio che si determinino quegli incroci perversi di cui si diceva, è di far luogo ad una rilettura in senso stretto (ed anzi strettissimo) del “modello” Cilfit, spianandosi pertanto la via per applicazioni diffuse dello strumento del rinvio alla Corte di giustizia, sì da radicarsi presso la sede istituzionale che è loro propria le questioni di stretto diritto eurounitario[16].
Ad ogni Corte, insomma, il suo; e, con la sola eccezione di macroscopiche violazioni del diritto dell’Unione che automaticamente ridondino in violazioni convenzionali, per le quali dunque possa giustificarsi l’appello diretto al giudice di Strasburgo, la regola dovrebbe essere quella di tenere distinti i canali di “dialogo” tra i giudici nazionali da un lato, questa o quella Corte europea dall’altro.
Una soluzione, quella qui patrocinata, che – come si vede – rifugge dall’idea di una possibile ordinazione “verticale” delle Corti, quale si avrebbe ammettendo che una sola di esse (e, segnatamente, la Corte europea) assuma la qualità di giudice di ultima istanza nelle questioni riguardanti i diritti costituzionali. Ciò che poi, come si è tentato di mostrare altrove, a tacer d’altro porterebbe all’esito inquietante di fare del giudice stesso una sorta di mostruoso potere costituente permanente[17]. Di contro, per l’idea che sono al riguardo venuto facendomi, nessun giudice può, a mio modo di vedere, farsi vanto di avere l’ultima parola in fatto di salvaguardia dei diritti fondamentali, potendosi (e, anzi, dovendosi) far luogo all’ardua e non di rado sofferta ricerca della soluzione di volta in volta maggiormente adeguata al caso, siccome idonea ad offrire la più “intensa” tutela ai beni della vita evocati in campo dal caso stesso.
In generale, non credo che, già al presente ed ancora di più nel prossimo futuro, possano con profitto riproporsi antichi (ma ormai superati o, comunque, in via di superamento) schemi di formale fattura, ispirati alla “logica” di una rigida separazione di competenze tra gli stessi giudici europei e di questi coi giudici nazionali. Piuttosto, proprio dal confronto di esperienze maturate a diversi livelli istituzionali in fatto di tutela dei diritti, la tutela stessa può esserne rafforzata, una volta che le giurisprudenze si immettano in un unico circuito in seno al quale hanno modo di alimentarsi e rigenerarsi a vicenda.
Tutto ciò posto, dovrebbe ugualmente prodursi ogni sforzo idoneo ad evitare che l’una Corte possa immettersi nel campo rimesso alla coltivazione dell’altra, stabilendo d’autorità cosa in questo è stato fatto o – di più – cosa avrebbe potuto o dovuto farsi, dal momento che – come si è tentato di mostrare – sovrapposizioni e divergenze di orientamenti delle Corti europee possono, a conti fatti, mettere in croce i giudici nazionali, soggetti ad un lacerante conflitto interiore, a motivo della doppia, congiunta e pari fedeltà di cui sono chiamati a rendere quotidiana testimonianza nei riguardi sia del diritto eurounitario che del diritto convenzionale.

 

6. Interprete privilegiato, se non pure però esclusivo, del diritto dell’Unione non può essere altri che il giudice di Lussemburgo, allo stesso tempo ogni Corte (europea o nazionale che sia) dovendo ispirarsi e mantenersi scrupolosamente fedele, nella propria quotidiana opera al servizio dei diritti, al principium cooperationis quale autentica Grundnorm delle relazioni interordinamentali

Resta nondimeno il fatto che, in circostanze quale quella che ha dato lo spunto per queste succinte notazioni, nella prospettiva dell’adesione da parte dell’Unione alla CEDU e fintantoché il diritto eurounitario si presenti rispettoso della Convenzione e perciò idoneo ad integrare quest’ultima nel suo porsi a parametro della validità degli atti di diritto interno, interprete privilegiato, se non pure esclusivo, del diritto “interposto” non può che essere la sua Corte, con sede in Lussemburgo. La Corte di Strasburgo, se ha a cuore di farsi valere per il servizio che è in grado di apprestare a salvaguardia dei diritti e se, dunque, tiene a conquistare e preservare il consenso di cui ha nondimeno bisogno a presidio della osservanza degli indirizzi di cui si fa portatrice, dovrebbe mostrarsi conciliante e sensibile nei riguardi delle interpretazioni affermatesi a Lussemburgo[18]: per un verso, traendo da queste ispirazione per il rinnovo della propria giurisprudenza e, per un altro verso, conformandosi alle indicazioni date dalla Corte eurounitaria in fatto di rispetto dei meccanismi che stanno a base del funzionamento dell’Unione (tra i quali, appunto, quello del rinvio pregiudiziale).
A sua volta, la Corte di giustizia non dovrebbe far luogo alla sterile (ed anzi dannosa) rivendica a proprio esclusivo beneficio dell’ultima o, peggio, dell’unica parola in ordine al rispetto dei meccanismi stessi, ogni qual volta essi possano “incrociare” la via che porta a Strasburgo, mostrandosi perciò essa pure disponibile all’ascolto delle indicazioni che vengono offerte dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo: se del caso, facendo pertanto luogo ad un critico ripensamento dei propri indirizzi alla luce di quelli altrove formatisi (e qui il riferimento è non alla sola giurisprudenza della Corte EDU ma anche alle giurisprudenze nazionali, specie laddove convergenti ed espressive in forma eminente di quelle “tradizioni costituzionali comuni” che – come si sa – costituiscono un punto di riferimento per entrambe le Corti europee[19]).
I giudici nazionali, dal canto loro, al di fuori di casi eccezionali, nei quali il loro operato risulti inattaccabile alla luce del “modello” Cilfit (sempre che, però, inteso con sommo rigore e praticato con somma oculatezza), dovrebbero con molta umiltà rimettersi al giudizio della Corte dell’Unione per tutto ciò che attiene al rispetto dei canoni che presiedono al fisiologico svolgimento dei rapporti tra l’Unione stessa e gli Stati, in tal modo guardandosi dal rischio di vedere quindi le proprie decisioni attaccate davanti all’una o all’altra Corte europea o, magari, ad entrambe.
È insomma attraverso la quotidiana, scrupolosa conformità al principium cooperationis, quale autentica Grundnorm delle relazioni interordinamentali[20], da parte di ogni sede istituzionale in cui si somministra giustizia che possono in modo adeguato superarsi (e, meglio ancora, prevenirsi) quei conflitti tra le Corti che appaiono suscettibili di dar vita ad effetti negativi alle volte non sradicabili ovvero solo in parte rimuovibili, effetti conseguenti alla applicazione della “logica” perversa che induce alla ricerca a tutti i costi di un primato in esclusiva spettante ad una sola Corte ovvero della “logica”, ugualmente deprecabile, di una rigida separazione tra le competenze delle Corti stesse. L’esperienza però ci insegna che l’una e l’altra “logica” risultano essere ormai afflitte da una crisi irreversibile, in conseguenza dell’avanzata del processo d’integrazione sovranazionale e delle vieppiù pressanti richieste, che a questo si accompagnano, di protezione dei diritti fondamentali nel vecchio continente. Richieste che, alle difficili (e, alle volte, proibitive) condizioni del tempo presente, possono ricevere una sia pur parzialmente appagante risposta unicamente per effetto del congiunto, fattivo e mutuo concorso di tutti gli operatori, di ciascuno secondo le proprie competenze (e responsabilità) e di tutti assieme, quale che sia l’ordinamento di appartenenza o il “livello” istituzionale al quale prestino il loro servizio a beneficio dei diritti[21].

 


[1] Una violazione che, ovviamente, può risultare indipendente dall’esercizio del potere di rinvio: esservi malgrado l’esercizio in parola, così come non esservi in mancanza di rinvio.

[2] Proprio quest’ultimo, tuttavia, per come espresso in occasione del caso Kapferer, richiamato dalla pronunzia qui annotata (ancora 22), appare essere nel senso che decisioni giudiziarie definitive adottate in ambito interno possono costituire oggetto di riesame nel caso che il diritto nazionale lo consenta: come si dirà a momenti, è proprio ciò che può aversi nel nostro ordinamento dopo Corte cost. n. 113 del 2011.

[3] La decisione ha – come si sa – attirato subito l’attenzione di molti studiosi ed è stata fatta oggetto di commenti di vario segno: tra gli altri, G. Canzio, Passato, presdente (e futuro?) dei rapporti tra giudicato “europeo” e giudicato penale italiano; R.E. Kostoris, La revisione del giudicato iniquo e i rapporti tra violazioni convenzionali e regole interne; il mio Il giudicato all’impatto con la CEDU, dopo la svolta di Corte cost. n. 113 del 2011 … ovverosia quando la certezza del diritto è obbligata a cedere il passo alla certezza dei diritti; M. Chiavario, La Corte costituzionale ha svolto il suo compito: ora tocca ad altri, tutti in Legisl. pen., 2/2011 (i primi tre anche in www.rivistaaic.it, 2/2011); E. Malfatti, Quando perseverare non è diabolico. Dalla vicenda Dorigo un fondamentale stimolo alla possibile “revisione” del giudicato interno, in www.rivistaaic.it, 4/2011; P. Gaeta, Dissoluzione del giudicato ed euristica giudiziale dopo la sentenza Dorigo, in corso di stampa in Giustizia insieme.

[4] Nessun rilievo è, ovviamente, da assegnare al fatto che, nella circostanza, sia l’una che (conseguentemente) l’altra violazione siano state escluse; importa solo il punto di diritto astrattamente fissato.

[5] L’etichetta di fonte “paracostituzionale” con la quale si designano gli atti-fonte dell’Unione (ed altri atti ancora), da me coniata ormai oltre vent’anni addietro, trovasi ancora di recente ripresa nel mio Fonti, norme, criteri ordinatori. Lezioni5, Torino 2009, 210 ss., spec. 217 ss.

[6] In realtà, l’orientamento sul punto manifestato dalla Consulta appare ad oggi non poco incerto ed oscillante, in via generale riconoscendosi – come si rammenta nel testo – alla CEDU la qualità di fonte “subcostituzionale” e, però, allo stesso tempo ammettendosi che essa, una volta che entri a comporre, integrandolo, il parametro costituzionale, di quest’ultimo assuma il rango e, infine, parimenti ammettendosi che norme convenzionali possano addirittura affermarsi (se del caso, a mio modo di vedere, al posto delle stesse norme costituzionali) ove si dimostrino idonee ad offrire un’ancòra più intensa tutela ai diritti fondamentali di quella che ad essi potrebbe venire dalla Carta costituzionale (su tutto ciò, maggiori ragguagli possono, volendo, aversi dal mio La Corte costituzionale “equilibrista”, tra continuità e innovazione, sul filo dei rapporti con la Corte EDU, in corso di stampa in www.europeanrights.eu e in Riv. dir. pubbl. comp. ed eur.).

[7] Maggiori ragguagli sul punto possono aversi dal mio Rapporti tra Corte costituzionale e Corti europee, bilanciamenti interordinamentali e “controlimiti” mobili, a garanzia dei diritti fondamentali, in www.rivistaaic.it, 1/2011.

[8] … nel mio commento alla sent. n. 113 del 2011, sopra cit.

[9] Ha, con speciale vigore, insistito sul canone della tutela più “intensa” Corte cost. n. 317 del 2009, senza nondimeno offrire indicazioni circa il criterio idoneo ad assicurarne, pur se in modo approssimativo, il riscontro; ma, sul punto, di cruciale rilievo, mi corre l’obbligo di rammentare nuovamente come la giurisprudenza costituzionale appaia ad oggi gravata da non poche incertezze ed esibisca vistose, non rimosse oscillazioni (a riguardo del canone in parola, indicazioni circa il modo o i modi con cui può essere inteso e messo in atto possono aversi da AA.VV., Corti costituzionali e Corti europee dopo il Trattato di Lisbona, a cura di M. Pedrazza Gorlero, Napoli 2010, nonché da D. Butturini, La partecipazione paritaria della Costituzione e della norma sovranazionale all’elaborazione del contenuto indefettibile del diritto fondamentale. Osservazioni a margine di Corte cost. n. 317 del 2009, in Giur. cost., 2/2010, 1816 ss.; C. Panzera, Un passo alla volta. A proposito della più recente giurisprudenza costituzionale sulla CEDU, in AA.VV., Corte costituzionale e sistema istituzionale, a cura di F. Dal Canto e E. Rossi, Torino 2011, 299 ss., spec. 303 ss., e, pure ivi, A. Randazzo, Alla ricerca della tutela più intensa dei diritti fondamentali, attraverso il “dialogo” tra le Corti, 313 ss.; inoltre, T. Giovannetti – P. Passaglia, La Corte ed i rapporti tra diritto interno e diritto sovranazionale, in AA.VV., Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2008-2010), a cura di R. Romboli, Torino 2011, spec. 322 ss. Infine, volendo, anche i miei scritti sopra richiamati (e, tra questi, ora, La Corte costituzionale “equilibrista”, cit.).

[10] E. Gianfrancesco, Incroci pericolosi: Cedu, Carta dei diritti fondamentali e Costituzione italiana tra Corte costituzionale, Corte di giustizia e Corte di Strasburgo, in AA.VV., Corti costituzionali e Corti europee dopo il Trattato di Lisbona, cit., 151 ss.

[11] … quanto meno a tener ferma l’idea tradizionale che riserva la nozione in parola ai soli atti normativi aventi la medesima natura o, comunque, la medesima forza di quelli “interpretati”. Non si trascuri tuttavia la circostanza per cui, per un verso, gli stessi atti d’interpretazione “autentica” soggiacciono ad interpretazione, quale specificamente si ha, ai fini della pratica giuridica, nelle aule dei tribunali (per ciò che qui importa, presso la Corte di giustizia), mentre, per un altro verso, alle pronunzie del giudice eurounitario è riconosciuta in ambito interno – come si è rammentato – la medesima forza normativa (“paracostituzionale”) che è propria dei regolamenti e degli altri atti-fonte dell’Unione.

[12] … così come, mutatis mutandis, si considera oggi possibile al piano dei rapporti tra giudici nazionali e Corte di Strasburgo (un rilevante distinguo può, al riguardo, riscontrarsi ora in recenti decisioni del nostro giudice delle leggi, part. in Corte cost. nn. 236 e 257 del 2011, secondo quanto si fa notare nel mio La Corte costituzionale “equilibrista”, cit.; v., inoltre, utilmente, R. Conti, La scala reale della Corte Costituzionale sulla tutela della CEDU nell’ordinamento interno, in Corr. giur., 9/2011, 1243 ss.).

[13] … nella specie, peraltro, esclusa con argomenti non in tutto persuasivi, avuto specifico riguardo all’atteggiamento tenuto dalle parti e dalla Corte europea giudicato, in sostanziale allineamento con la linea processuale disegnata dal Governo, come dilatorio, non già riferito al legittimo esercizio del diritto di difesa di cui le parti stesse sono titolari (68 ss.).

[14] Più in genere, sul coinvolgimento della Corte di giustizia nei giudizi davanti alla Corte EDU, v., di recente, A. Tizzano, Les Cours européennes et l’adhésion de l’Union à la CEDH, in Dir. Un. Eur., 1/2011, nonché in www.europeanrights.it, spec. § 4; in questo sito, anche V. Bazzocchi, Verso l’adesione dell’Unione europea alla CEDU. Un negoziato ancora in corso, e V. Petralia, L’adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, spec. § 5.3.

[15] In astratto, la teoria dell’“atto chiaro” dovrebbe valere altresì per la Corte di Strasburgo, che perciò nel suo nome (come pure nel riferimento agli altri elementi costitutivi del “modello” Cilfit) potrebbe considerarsi sgravata dell’obbligo di “rinvio” alla Corte di giustizia. Salvo casi assolutamente eccezionali, nei quali l’una Corte potrebbe essere indotta ad assumersi la responsabilità del mancato “rinvio”, la regola dovrebbe tuttavia essere nel senso indicato nel testo, portando dunque a pratiche costanti d’interpello del giudice eurounitario.

[16] Come si viene dicendo, i giudici comuni sono chiamati ad assolvere un compito di prima grandezza in vista di una composizione equilibrata delle relazioni tra le Corti europee, oltre che di quelle intercorrenti tra queste ultime e i giudici stessi (sul ruolo di centrale rilievo spettante ai giudici nel costituzionalismo multilivello ha molto insistito, part., R. Conti, del quale v. almeno, in aggiunta allo scritto sopra cit., La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo del giudice, Roma 2011). È appena il caso qui di osservare di passaggio come, per l’aspetto ora specificamente considerato, gli stessi tribunali costituzionali siano sollecitati ad un utilizzo diffuso dello strumento del rinvio pregiudiziale. Peccato però (e qui il riferimento si indirizza specificamente alla nostra Corte) che non se ne abbia riscontro in misura apprezzabile. Anche ammesso, infatti, che si voglia tener fermo l’orientamento sfavorevole al ricorso allo strumento in parola nei giudizi in via incidentale – ciò che nondimeno, come si sa, è da molti studiosi sconsigliato –, singolare appare la circostanza per cui l’arma resti stabilmente riposta nella fondina anche negli altri giudizi (in quello in via principale come pure in occasione della soluzione dei conflitti di attribuzione, sia interorganici che intersoggettivi). La qual cosa si segnala per la sua gravità specie nella considerazione che sempre più di frequente i diritti fondamentali sono messi in gioco in processi diversi da quello in via incidentale.

[17] Il punto è stato ripetutamente toccato nelle mie più recenti riflessioni in tema di rapporti tra le Corti (da ultimo e per tutti, in La Corte costituzionale “equilibrista”, cit., spec. al § 3).

[18] … così come non “aggressiva” nei riguardi dei giudici e degli operatori in genere di diritto interno (su questa connotazione, resa evidente da molti segni presenti nel corpo della giurisprudenza europea, si è più di ogni altro soffermato, con pertinenti rilievi, O. Pollicino, in molti scritti, a partire da Corti europee e allargamento dell’Europa: evoluzioni giurisprudenziali e riflessi ordinamentali, in Dir. Un. Eur., 2009, 1 ss., e quindi in La Corte europea dei diritti dell’uomo dopo l’allargamento del Consiglio D’Europa ad Est: forse più di qualcosa è cambiato, in AA.VV., Le scommesse dell’Europa. Diritti, Istituzioni, Politiche, a cura di G. Bronzini – F. Guarriello – V. Piccone,  Roma 2009, 101 ss. e, con particolare estensione ed approfondimento, in Allargamento ad est dello spazio giuridico europeo e rapporto tra Corti costituzionali e Corti europee. Verso una teoria generale dell’impatto interordinamentale del diritto sovranazionale?, Milano 2010).

[19] Uno speciale rilievo va al riguardo assegnato alla comparazione giuridica, quale “luogo” e strumento al tempo stesso per la elaborazione dei principi costituzionali comuni sui quali si fonda un patrimonio culturale autenticamente europeo in fatto di garanzie dei diritti, già al presente cospicuo e tuttavia bisognoso di ulteriori, corpose acquisizioni (sul significato della comparazione, per tutti, G. Repetto, Argomenti comparativi e diritti fondamentali in Europa. Teorie dell’interpretazione e giurisprudenza sovranazionale, Napoli 2011, e A.M. Lecis Cocco Ortu, La comparaison en tant que méthode de détermination du standard de protection des droits dans le système CEDH, in www.rivistaaic.it, 4/2011).

[20] Una opportuna sottolineatura del principio in parola può ora vedersi in A. Tizzano, Les Cours européennes et l’adhésion de l’Union à la CEDH, cit. Tutti da mettere alla prova, poi, i buoni propositi con molta vaghezza enunciati nel comunicato congiunto dei due Presidenti delle Corti europee, che può vedersi in Quad. cost., 2/2011, annotato da M.E. Gennusa e S. Ninatti, Il comunicato congiunto dei Presidenti Costa e Skouris. La difficile rotta verso una tutela integrata dei diritti, 469 ss.

[21] Se è vero ciò che comunemente si dice a riguardo della qualità dei giudici nazionali quali giudici anche dell’Unione, non è meno vero – a me pare – che, dalla medesima prospettiva e per le medesime ragioni, essi sono ugualmente, per la loro parte, giudici “convenzionali”, siccome chiamati a concorrere all’implementazione della CEDU in ambito interno, non solo – ovviamente – dando il seguito opportuno alle decisioni della Corte europea ma, di più, facendo vivere quotidianamente ed al meglio di sé la Convenzione nella pratiche giuridiche cui fanno luogo presso le sedi istituzionali di competenza: ad es., interpretando il diritto interno in senso conforme alla Convenzione e, laddove si reputi possibile o addirittura doveroso, come a me parrebbe sia pure con riguardo a determinati casi (indicati, ancora da ultimo, nella mia op. ult. cit.), facendo luogo all’applicazione diretta della Convenzione stessa.

Antonio Ruggeri