“Segretezza del voto nell’identificabilità del votante” nelle società “in movimento”

  1. La tematica della “segretezza nell’identificabilità” dell’elettore si è presentata in tempi recenti acquisendo importanza di pari passo all’elargizione del suffragio a fasce sempre più ampie di popolazione. Ad una tale questione s’è ben presto accompagnato il più generale tema dell”‘agevolazione” del suffragio (con riguardo ai “tempi del voto” ed alle condizioni personali degli elettori): di cui sono rintracciabili i primi esempi nella legislazione elettorale della Nuova Zelanda (specie d’inizio XX secolo), annoverata, anche in ragione di ciò, tra gli ordinamenti di avanguardia nell’attuare politiche di “welfare elettorale. Sempre in un’ottica di tipo comparatistico, poi, è dato constatare come, in molti degli ordinamenti di più consolidata democrazia, anche a costo di mettere sotto stress proprio il profilo della segretezza nella personalità del suffragio, siano state individuate particolari forme di agevolazione del suffragio stesso in ipotesi (di norma tassative) giustificate dalle particolari condizioni di determinate categorie di persone, impossibilitate a recarsi personalmente alle urne. È il caso del voto per procura previsto, per esempio, in territorio francese dall’art. L 71 del cod. él. francese, designandosi, a tal fine, un “mandatario elettorale” (in linea di principio, per una sola volta), che, appunto, li rappresenta il giorno del voto.

Ci sembra, peraltro, che quanto testé rilevato presenti, in realtà, dei profili problematici dalla portata per certi versi ben più radicale, essendo, in questi casi, il legislatore chiamato a bilanciare le esigenze di più agevole partecipazione al voto, con quelle, non meno pressanti, di segretezza (oltre che di personalità) del voto stesso. Il fatto che poi una tale operazione risulti formalmente più facile là dove manchino normative stringenti di rango costituzionale (come, accade, per l’appunto, in riferimento alla “personalità del voto”, nell’ordinamento francese), induce a riflettere (specie se si conviene nel ritenere che queste ultime custodiscano e, per certi versi, riflettano la memoria storica di un dato gruppo sociale, certificando fenomeni patologici già vissuti ed, al contempo, prevenendo una loro possibile ripetizione) su come, al pari di ogni tipo di “agevolazione” (in senso ampia considerata), anche quella concernente l’esercizio del voto, per non dare luogo ad una pratica di abusi, presupponga un adeguato livello di maturazione democratica, da parte del corpo sociale riguardato.

 

  1. II. Quanto appena osservato ci porta anche a notare come la predisposizione di “agevolazioni” al voto possa risultare funzionalizzata ad ovviare a situazioni di obiettiva difficoltà per determinate categorie di elettori a raggiungere i luoghi di voto («Chi porterà al pascolo le oche al posto nostro?» pare che sia stato l’interrogativo più diffuso tra i contadini della Vestfalia quando, nel maggio 1848, per la prima volta, furono chiamati alle urne…).

Tra tali categorie, possono citarsi gli ammalati, le donne in avanzato stato di gravidanza, i ciechi, “la gente di mare”. (c.d. Seamen Vote), i militari in missione e, talvolta, persino, gli analfabeti, ai quali può essere consentito di votare non solo, eventualmente, con l’assistenza e il supporto di altro personale ma anche in luoghi diversi da quelli dove sono ubicati i seggi elettorali (c.d. “absentee vote”). Di siffatta problematica, si rintracciano i primi esempi nella legislazione elettorale della Nuova Zelanda, annoverata, anche in ragione di ciò, tra gli ordinamenti di avanguardia nell’attuare politiche di “welfare elettorale”.

Per quanto concerne il nostro ordinamento, di quest’ordine di problemi si son fatti carico, in particolare, l’art. 38 del d.P.R. n. 26 del 1948, con riguardo ai “militari delle Forze armate nonché gli appartenenti a corpi organizzati militarmente per il servizio dello Stato, alle forze di polizia ed al Corpo nazionale dei vigili del fuoco”, e gli artt. 23 e 22 della legge n. 493 del 1956, con riguardo, rispettivamente, ai naviganti fuori residenza per motivi di imbarco e, per diverso profilo, ai degenti in ospedali e case di cura (tali normative si trovano ora nel d.P.R. n. 361 del 1957, agli artt. 49 e ss.); si vedano, inoltre, più di recente il d.l. n. 1 del 2006, conv. nella legge n. 22 del 2006 e la legge n. 46 del 2009, aventi l’obiettivo di agevolare – e financo di render possibile – per gli elettori affetti da gravi infermità di esprimere il proprio suffragio.

 

III. Se, pertanto, il nostro ordinamento non può dirsi affatto insensibile al principio “di agevolazione del voto”, resta, tuttavia, perdurante l’interrogativo sul grado di appagamento complessivo dell’attuazione data a tale principio, specie in un’ottica di tipo comparatistico, dalla quale emerge come, in molti degli ordinamenti di più consolidata democrazia, anche a costo di mettere sotto stress i principi di personalità” e di segretezza del voto, accanto all’agevolazione del voto in “senso soggettivo”, siano state individuate forme di agevolazione in “senso oggettivo”, in casi tassativi, giustificati, anche qui, dalle particolari condizioni di determinate categorie di persone, impossibilitate a recarsi personalmente alle urne. È il caso del voto per procura previsto, per esempio, in territorio francese (dove, come da noi, non è previsto il voto per corrispondenza né tanto meno l’utilizzo generalizzato del voto elettronico per i residenti sul suolo nazionale), dall’art. L 71 del Code électoral, col consentire appunto agli “électeurs qui établissent que des obligations dûment constatées les placent dans l’impossibilité d’être présents dans leur commune d’inscription le jour du scrutin”, così come, dal 1993, “les électeurs qui ont quitté leur résidence abituelle pour prendre des vacances” a votare per procura, designando, in linea di principio per una sola tornata di voto, un “mandatario elettorale”, che, appunto, li rappresenta il giorno del voto.

Quanto testé rilevato presenta, in realtà, dei profili problematici dalla portata per certi versi ben più radicale. È indubbio, infatti, che, in questi casi, il legislatore deve continuamente bilanciare la necessità (specie negli ordinamenti in cui vigano forme di voto obbligatorio) di una più agevole partecipazione al voto, con l’esigenza di segretezza e personalità del voto stesso, e che tale operazione sia formalmente più facile là dove manchino normative stringenti (di rango costituzionale) in punto di personalità e segretezza del voto (come, per esempio, accade, in punto di “personalità del voto” nell’ordinamento francese). Tuttavia, le norme – segnatamente, le norme di rango costituzionale –, custodiscono e riflettono spesso la memoria storica di un dato gruppo sociale, certificando fenomeni patologici già vissuti ed, al contempo, prevenendo una loro possibile ripetizione. Da questo punto di vista, è indubbio che, in Italia, forme di broglio elettorale a scapito di soggetti particolarmente vulnerabili sia in epoca liberale, sia dopo la stessa Costituzione del ‘47, siano avvenute e non in lieve misura.

 

 

  1. Quanto s’è detto pare sufficiente a dimostrare come, così come ogni tipo di “agevolazione” (in senso ampia considerata), anche quella concernente l’esercizio del voto”, per non dare luogo ad una pratica di abusi, presupponga un adeguato livello di maturazione democratica. In quest’ottica, con specifico riguardo al caso italiano, i casi di broglio emersi soprattutto sul versante del voto estero “per corrispondenza” inducono a ritenere come, almeno per ora, a salvaguardia della libertà di suffragio, non sia opportuno abbassare troppo la guardia. In particolare, i maggiori problemi riguardo al profilo della “segretezza nell’identificabilità” del voto si sono presentati, si ricorderà, in occasione delle elezioni politiche del 2008, nel c.d. “caso Di Girolamo”. Dello «scandalo», emerso in quella vicenda, rileva qui il fatto che la supposta compravendita dei voti (in determinate realtà ordinamentali) sia stata resa possibile anche e soprattutto a causa dalle gravi “lacune” che, a tutt’oggi, presenta l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (che fa da base ai vari tipi di consultazioni elettorali “dall’estero”, tra cui, per l’appunto, quelle per il parlamento nazionale), date le insufficienti garanzie riguardo alla corretta identificazione dei votanti, e, conseguentemente, circa la corrispondenza delle informazioni personali degli stessi coi dati concernenti gli iscritti nelle liste elettorali contenute nella suddetta A.I.R.E. Sempre con riguardo al versante della personalità del voto, mette conto, inoltre, di rilevarsi come – a differenza di quanto avviene, di norma, dove vige (come per l’elezione dei cittadini italiani residenti all’estero) il voto per corrispondenza –, in Italia non sia prevista come necessaria l’apposizione di una qualche firma autografa da parte di chi vota. Ciò che è tanto più grave se si considera che un tale “dato biometrico” è (in mancanza di altri, più affidabili “accorgimenti tecnici”) il solo che consente di appurare l’effettiva identità di chi vota (attraverso il confronto con la “firma campione” depositata, per tempo, dagli stessi votanti, identificati come tali, presso le proprie amministrazioni elettorali).

 

 

  1. Se, dunque, relativamente al “voto estero”, le maggiori problematicità paiono registrarsi in riferimento al principio di personalità del suffragio, va anche rilevato come non paia militare a favore della sua segretezza, il fatto che il ridetto voto avvenga “a distanza” ed in modo “non presidiato”, data l’impossibilità, con le tecnologie messe attualmente in campo, di garantire che il suffragio si realizzi in condizioni ambientali adeguate.

È proprio la presa d’atto di una tale infausta serie di problematicità dell’attuale congegno del voto degli italiani all’estero ad averci portato (in http://www.forumcostituzionale.it/site/images/stories/pdf/documenti_forum/paper/0387_trucco.pdf,  del 6 gennaio 2013) ad accogliere con cauto favore la proposta della sua riforma, grazie, particolarmente, all’«adozione», in via esclusiva, e «l’utilizzo», secondo le indicazioni del Parlamento, «della tecnologia informatica», secondo un “doppio binario informatico” “home vote/voto elettronico in loco” (v. l’art. 1 del d.l. n. 67 del 2012, come conv. nella legge n. 118 del 2012)[1]. L’auspicio è che ciò possa avvenire nel quadro di un più ampio ripensamento della rappresentanza e partecipazione delle comunità italiane di residenti all’estero nella vita politica del nostro Paese. Nell’ambito, cioè, di una riforma di più ampio respiro, ricomprendente pure il voto per le elezioni amministrative, degli italiani residenti all’estero (come dei non cittadini residenti). Trattasi, del resto, di quanto indicato, di recente, dalla stessa Corte costituzionale. Per la precisione, nella sent. n. 242 del 2012 la Corte si è augurata «che il legislatore ponga rimedio» agli «inconvenienti» derivanti dalla assenza di una normativa agevolativa del voto dei residenti all’estero con riguardo alle elezioni amministrative, ponendo, con ciò, proprio la questione delle modalità con cui attuare tali necessarie agevolazioni, tenuto conto ora delle opportunità offerte dalle più recenti tecnologie trasmissive, oltre che della possibilità di favorire lo spostamento “fisico” dei votanti (attraverso, in particolare, i “tradizionali” sconti sui “costi di viaggio”, su cui la stessa Consulta ha avuto modo di pronunciarsi favorevolmente, ad es.. nelle sentt. n. 39 del 1973; e n. 79 del 1988). Là dove a favorire la seconda soluzione potrebbe essere la constatazione della difficoltà, allo stato tecnologico attuale, di garantire la sussistenza di condizioni (ambientali e “materiali”) in grado di garantire la segretezza del voto nell’identificabilità del votante”, e, più in genere, un’espressione del suffragio a tutti gli effetti libera e svolgentesi da pressioni esterne “indebite”. Su di un diverso versante, poi, nella decisione resa il 15 marzo 2012 nel caso Sitaropoulos e Giakoumopoulos, la Corte EDU riunita in Grande Camera ha chiarito (diversamente da quanto affermato dalla Prima sezione[2]) che «none of the legal instruments examined above forms a basis for concluding that, as the law currently stands, States are under an obligation to enable citizens living abroad to exercise the right to vote», dato che dall’analisi in chiave comparata «of the legislation of Council of Europe member States in this sphere» emergerebbe la mancanza di un “acquis” comune  in materia «while the great majority of them allow their nationals to vote from abroad, some do not»; tuttavia, «as regards those States which do allow voting from abroad, closer examination reveals that the arrangements for the exercise of expatriates’ voting rights are not uniform, but take a variety of forms» (v. I §§ 74 e 75).

[1] Anche se, ad oggi, non solo del regolamento di attuazione chiamato a fissare le specifiche tecniche del suddetto voto elettronico non v’è traccia (si noti che il termine di sei mesi dall’entrata in vigore della legge di conversione – vale a dire, il 23 luglio 2012 – risulta ormai ampiamente traguardato…), ma, per di più, non si può nemmeno dire che la questione del voto estero risulti tra le priorità dell’Agenda politica di questo periodo.

[2] Nella decisione dell’8 luglio 2010, infatti, la Prima sezione della Corte EDU aveva ravvisato una violazione dell’art. 3 del Protocollo n.1 da parte della Grecia a causa della mancata messa a punto di una specifica normativa per l’esercizio del diritto di voto al di fuori del territorio nazionale, in attuazione degli artt. 51 § 4 e 108 della Costituzione greca.