Spunti sullo stato dell’arte del negoziato transatlantico su commercio ed investimenti*

 * Il commento costituisce un riassunto aggiornato dell’articolo Prime riflessioni sulla Transatlantic Trade and Investment Partnership, in La Comunità Internazionale, 2015, 59 – 82.

1. Trade for All, Towards a more responsible trade and investment policy è il titolo di una recente comunicazione della Commissione sulla politica commerciale comune [COM(2015) 497 final]. In effetti, esso rende bene l’idea dell’attuale dibattito intorno al TTIP. La convinzione che l’accordo in corso di negoziazione tra Unione europea e Stati Uniti non risponda alle esigenze “di tutti” bensì vada a beneficio esclusivo dei grandi attori del capitalismo globale, si sta pian piano diffondendo nell’opinione pubblica europea. La c.d. iniziativa sulla trasparenza, intrapresa dalla Commissaria al commercio Cecilia Malmström, che ha portato alla pubblicazione di numerosi documenti negoziali, non sembra essere stata sufficiente a persuadere gli oppositori dell’accordo che continuano a ritenere che un’eventuale conclusione del TTIP, oltre a non comportare vantaggi economici, avrà conseguenze negative sotto il profilo politico, sociale ed ambientale.

2. Le preoccupazioni della Commissione non sono rivolte evidentemente soltanto ai timori dell’opinione pubblica. L’atteso parere della Corte di giustizia (caso A-2/15, ma si v. anche la richiesta di parere sul Trattato di Marrakesh, caso A-3/15), che definirà se il trattato tra UE e Singapore sia da qualificare di esclusiva competenza dell’Unione ovvero un accordo misto, giocherà un ruolo essenziale nel definire le competenze dell’UE sulla politica commerciale comune. È molto probabile che, anche qualora si riterrà che l’Unione abbia competenza a firmare e concludere da sola il trattato commerciale e che quindi la portata dell’art. 207 TFUE sia tale da offrire copertura giuridica piena all’accordo tra UE e Singapore, alcuni Stati membri vorranno comunque garantire, data l’estensione delle materie coinvolte e l’impatto mediatico del trattato, che i rispettivi parlamenti si pronuncino sul TTIP. Che l’accordo transatlantico passerà per il vaglio dei parlamenti nazionali sembra essere suggerito sia dalle dichiarazioni dell’ex Commissario De Gucht, il quale ha assicurato la natura mista dell’accordo con gli Stati Uniti, sia dalla posizione espressa da alcuni Stati membri in merito. In Francia, ad esempio, l’Assemblée Nationale si è pronunciata (si v. Résolution européenne 23 novembre 2014 n. 428) nettamente affinché si affermi «la qualification juridique d’accord mixte» del trattato commerciale tra UE e Canada. A fortiori può ben ritenersi che alcuni Stati membri reclameranno la natura mista del TTIP. Per tali motivi, la Commissione deve tenere in debita considerazione anche gli equilibri e gli eventuali sommovimenti che l’accordo transatlantico sta provocando e, una volta concluso, sarà in grado di provocare nello scenario politico di ogni Stato membro.

3. Sembra invece essere stata sventata definitivamente la possibilità di un “agguato” al negoziato transatlantico in seno al Parlamento europeo. È noto che il PE, nonostante sia investito dell’importante ruolo di assicurare la democraticità del procedimento di conclusione dei trattati internazionali, sia fornito di un solo incisivo strumento da parte del diritto primario ossia quello dell’approvazione, secondo il dettato dell’art. 216, par. 6, TFUE. Nella prassi, tuttavia, il PE è riuscito a conquistare un (limitato) margine di manovra attraverso lo strumento delle raccomandazioni nei confronti della Commissione. Benché l’approvazione delle raccomandazioni sul TTIP, predisposte dalla Commissione sul commercio internazionale (INTA), da parte dell’assemblea plenaria sia stata tutt’altro che serena, il PE ha alla fine concesso il placet al progetto di trattato transatlantico suggerendo perlopiù puntualizzazioni che lasciano inalterata l’essenza del TTIP [2014/2228(INI)] .  Nel mese di giugno, considerato l’alto numero di emendamenti proposti al testo approvato dall’INTA, il Presidente del PE aveva deciso di rinviare il voto sul documento affinché si trovasse un accordo politico in seno alla maggioranza parlamentare. La discussione, come si ricorderà, aveva riguardato particolarmente il meccanismo di risoluzione delle controversie Stato-investitore (Investor-State dispute settlement, ISDS). Il raggiungimento di un compromesso sul punto, consistente nel c.d. Investment Court System, di cui si discuterà brevemente più avanti, ha portato quindi all’approvazione delle raccomandazioni. Lo scontro sull’ISDS ha tuttavia messo in secondo piano tutte le altre questioni spinose riguardanti il negoziato transatlantico. Da un’analisi rapida delle raccomandazioni, si nota che spesso esse sono volte semplicemente a riaffermare i limiti del mandato a negoziare concesso dal Consiglio alla Commissione nel 2013, come nel caso, ad esempio, dell’inserimento di una clausola di salvaguardia «che possa essere invocata qualora l’aumento delle importazioni di un particolare prodotto rischi di nuocere gravemente alla produzione interna».  Particolare attenzione viene invece dedicata alla protezione dei dati personali, evidentemente in risposta allo scandalo suscitato dal c.d. programma PRISM. Anzitutto il PE si è spinto ad affermare che condizionerà l’approvazione del TTIP alla cessazione dell’«attività di sorveglianza di massa» nei confronti dei cittadini europei. Inoltre, il PE raccomanda di «negoziare le disposizioni che riguardano il flusso dei dati personali soltanto se su entrambe le sponde dell’Atlantico è garantita e rispettata la piena applicazione delle norme sulla protezione dei dati», circostanza evidentemente smentita dal recente arresto giurisprudenziale della Corte di giustizia relativo al caso Schrems (sentenza del 6 ottobre 2015, C-362/14).

Concludendo, si può affermare che nella relazione approvata dal PE, come si anticipava, si evince una sostanziale condivisione dei tratti di fondo delle proposte avanzate sinora dalla Commissione nel contesto negoziale.

4. Il fine dichiarato del TTIP è quello di sviluppare un nuovo assetto normativo globale. Tra le raccomandazioni del PE si legge che l’accordo transatlantico «costituisce un’opportunità per plasmare e regolamentare l’assetto commerciale internazionale in modo da assicurare che entrambi i blocchi prosperino in un mondo interconnesso». Nel mandato del Consiglio si afferma che l’obiettivo del TTIP sarebbe quello di creare un «mercato veramente transatlantico» che ponga le basi per «norme globali». Ciò implica, com’è del tutto evidente, andare «oltre gli impegni esistenti nell’ambito dell’OMC» ed, allo stesso tempo, fare in modo che sia forgiato un sistema «pienamente coerente con le norme e gli obblighi previsti» nel contesto multilaterale. Tralasciando, in questa sede, il dibattito sulla crisi del multilateralismo e sulla “frammentazione” del diritto del commercio internazionale, occorre, seppure sinteticamente, esaminare in quale modo dovrà esplicarsi l’elaborazione di «norme globali». Attraverso l’analisi dei documenti pubblicati dalla Commissione dal maggio 2015 in poi, lentamente emergono i tratti di un nuovo quadro istituzionale che, secondo le proposte negoziali avanzate dall’UE agli Stati Uniti, governerà le relazioni transatlantiche. È ben noto che la vera scommessa sottesa al negoziato transatlantico è quella di arrivare ad un accordo in grado non solo di abbattere barriere tariffarie e, soprattutto, non tariffarie ma di fungere da foro stabile per la regolazione del commercio a livello transatlantico. Pertanto, le conseguenze del trattato non saranno apprezzabili o astrattamente ipotizzabili, nella loro pienezza, al momento dell’entrata in vigore dell’accordo poiché lo sviluppo di “norme globali” avverrà in modo permanente, attraverso il filtro di organismi che ne garantiranno l’elaborazione, il rafforzamento e l’applicazione.

5. Si muove in questa direzione la proposta UE di istituire un Regulatory Cooperation Body per mezzo del trattato. L’obiettivo del nuovo organismo sarà quello di favorire la convergenza normativa attraverso un’attività di costante monitoraggio, aggiornamento, modifica ed integrazione delle disposizioni sulla regolazione che verranno inserite nel TTIP. L’argomento ha suscitato un notevole interesse nella dottrina, visto che la proposta UE prevede un meccanismo permanente volto a favorire la convergenza dei rispettivi regulatory acts, sia di livello centrale che non centrale, verso standard comuni in modo da abbattere i costi di transazione derivanti dall’eterogeneità della regolazione. L’oggetto dell’attività dell’organismo saranno quindi gli atti di regolazione, di cui è fornita una definizione tendente ad escludere «legislation at central or non-central level which establishes the framework or principles applicable on a cross-sectoral basis to achieve public policy objectives» (così Textual proposal on regulatory cooperation in TTIP, general note 5, 1-2). In sostanza, quindi, l’atto di regolazione non è distinguibile sulla base della fonte normativa (direttiva, regolamento, decreto legislativo, legge ordinaria, etc.) ma dal suo contenuto. Astrattamente, tutte le fonti citate potranno passare al vaglio del Regulatory Cooperation Body. Qualora però un atto stabilisca un principio, la cui ratio risieda in una scelta di politica pubblica, esso non potrà essere oggetto di cooperazione normativa. La preoccupazione del passaggio citato sopra è chiaramente quella di lasciare la definizione degli obiettivi di politica pubblica e i mezzi per il raggiungimento di essi ai parlamenti (europeo e nazionali). La definizione della proposta UE evoca in effetti la demarcazione tra tecnica e politica. Solo ciò che è “tecnico” avrebbe a che fare con i meccanismi di cooperazione normativa. Si tratta tuttavia di un criterio dai contorni solo apparentemente nitidi che tende a sbiadirsi nella prassi e che si presterà, qualora dovesse figurare nel testo del trattato, a notevoli contrasti. Pensiamo ad un esempio semplice: la sicurezza del consumatore. Garantire la sicurezza del consumatore è sicuramente un obiettivo di politica pubblica. Tuttavia, esso è perseguito attraverso un regime di responsabilità civile ed una serie di atti normativi dalla consistenza decisamente tecnica che delineano il modello ideale di prodotto sicuro (generale e per settori). Per il filtro dell’armonizzazione degli standard tecnici pertanto il Regulatory Cooperation Body andrà ad incidere indirettamente anche sul regime della responsabilità civile (il punto è messo in luce da E. Al Mureden, Il danno da “prodotto conforme”. Le soluzioni europee e statunitensi nella prospettiva del Transatlantic Trade and Investment Partnership (T.T.I.P.), in Contratto e impresa, 2/2015).

6. Il secondo organismo che possiamo menzionare e che si va ad aggiungere al quadro istituzionale emergente dal negoziato, è il meccanismo di risoluzione delle controversie Stato-investitore. È nota la discussione che ruota intorno al capitolo sugli investimenti diretti esteri (IDE) nel TTIP e proviamo a sintetizzarla brevemente. Il mandato del Consiglio contiene direttive che lasciano ampi margini negoziali alla Commissione. Quest’ultima sostiene la sussistenza di un legame tra afflusso di capitali esteri e quadro giuridico di protezione degli IDE. Dal punto di vista del negoziatore, il beneficio dell’inserimento di un capitolo sulla protezione degli investimenti consiste proprio nell’attitudine di esso ad attrarre capitali dall’estero. Dal punto di vista dell’investitore, l’arbitrato sugli investimenti ed il corpus normativo a protezione degli IDE sono strumenti più duttili, efficienti ed efficaci rispetto alle corti nazionali considerate meno affidabili sia sotto il profilo della speditezza del giudizio, sia sotto il profilo della tutela delle ragioni degli investitori. Si potrebbe facilmente obiettare, come qualche studioso ha fatto, che sia l’ordinamento europeo che quello statunitense, nella loro globalità, garantiscono un elevato livello di tutela della proprietà privata nei confronti di atti e comportamenti dello Stato. Bisognerebbe quindi interrogarsi sulle ragioni di fondo per cui vi è una tale insistenza della Commissione sull’inserimento di un capitolo relativo alla protezione degli investimenti e dell’arbitrato Stato-investitore. A ben vedere, anche il capitolo sugli investimenti sembra rientrare nella logica dello sviluppo un international rule of law che governi l’esercizio dei poteri pubblici da parte dell’host State nei confronti dell’investitore straniero. Le raccomandazioni del PE hanno avuto, in questa materia, il paradossale effetto di rafforzare il sistema di tutela degli IDE proprio mentre alcuni parlamentari europei si compiacevano della “morte” dell’ISDS. La proposta della Commissione, che è seguita alla presa di posizione del PE e che ora dovrà essere discussa da Consiglio e Parlamento, sull’istituzione di un Invesment Court System rafforza la natura di public law remedy dell’azione dell’investitore straniero nei confronti dello Stato, finora asserita in via interpretativa dalla dottrina. Inoltre, la proposta della Commissione mira a superare la disorganicità del diritto degli investimenti internazionali principalmente attraverso due strumenti: una dettagliata “proceduralizzazione” del giudizio anche attraverso l’istituzione di una Corte d’appello; l’introduzione della regola del binding precedent. In materia di ISDS, la dottrina aveva considerato l’utilizzo del persuasive precedent da parte degli arbitri come una tendenza evolutiva in lenta affermazione. La proposta UE interviene per stabilire la regola del precedente vincolante. Questi correttivi procedurali tuttavia non risolvono i problemi connessi al diritto sostanziale degli investimenti internazionali: un diritto connotato dalla vaghezza delle clausole a tutela degli investimenti, che lascia un margine interpretativo molto ampio agli arbitri e che si pone spesso in tensione con il diritto interno e con scelte di politica pubblica condotte dallo Stato. Non può condividersi l’opinione di chi sostiene che il diritto degli investimenti internazionali costituisca soltanto una forma di tutela nei confronti dell’arbitrio statale. I casi che sta affrontando ed ha affrontato la Corte di giustizia confermano come l’interesse dell’investitore possa entrare in conflitto e persino prevalere su beni giuridici primari dell’ordinamento dell’Unione quali i principi di concorrenza e non discrezionalità (si vedano la sentenza 15 settembre 2011, Commissione/Slovacchia, C-264/09 ed il ricorso proposto il 2 settembre 2014, Micula/Commissione T-646/14).

7. Si è tentato, in questo breve contributo, di porre in luce la particolare natura del progetto di accordo tra UE e US rispetto ad un tradizionale Free Trade Agreement. I documenti sul TTIP si pongono in una certa continuità rispetto al testo del CETA, anche se la portata innovativa del trattato con gli Stati Uniti sembrerebbe maggiore. Si mostra invece decisamente innovativo rispetto al Trattato con la Corea del Sud, entrato in vigore nel 2011. L’aspetto inedito del negoziato transatlantico riguarda il proposito di creare meccanismi istituzionali volti a rafforzare i legami commerciali tra i due blocchi anche in seguito alla conclusione del TTIP. Un apparato di regole in fieri che pone anzitutto notevoli sfide per il ruolo del diritto interno (europeo e degli Stati membri) sia nel contesto del Regulatory Cooperation Body che dell’Investment Court System. Si è inoltre sostenuto come le raccomandazioni del Parlamento europeo siano state decisamente timide nell’affrontare determinate questioni. È comunque apprezzabile che si sia perlomeno colta l’occasione per precisare quanto già affermato da uno studio del CEPS, commissionato proprio dal PE, e cioè che il modello economico utilizzato dalla Commissione per vagliare gli effetti di un possibile accordo con gli Stati Uniti è inaffidabile e che «il TTIP non risolverà di per sé i problemi economici strutturali di lunga data dell’Unione e le cause ad essi sottostanti». L’ultimo inciso è di particolare rilievo e senz’altro condivisibile: solo la politica interna europea può trovare una soluzione alla crisi economica ed istituzionale dell’UE. L’idea, non troppo velatamente portata avanti dalla Commissione anche nella recente comunicazione Trade for All, citata in apertura, che si possa fare affidamento sulla “crescita degli altri” per portare fuori l’Europa dalla crisi, oltre ad essere priva di un solido fondamento, mostra tutta la debolezza dello stato attuale della politica dell’Unione.