Suicidio assistito: la sentenza Carter v. Canada alla prova della trans-judicial communication

Commentando su questo blog la sentenza della Corte suprema del Canada, Carter v. Canada (Attorney General) [2015] SCC 5, con la quale è stata dichiarata l’incostituzionalità del divieto generalizzato di suicidio assistito, si era già parlato dell’influenza che la decisione avrebbe potuto esercitare sulla giurisprudenza straniera in materia di morte medicalmente assistita: si tratta di una materia particolarmente permeabile alla trans-judicial communication e ciò è ancor più evidente negli ordinamenti di common law, da sempre maggiormente aperti alla circolazione delle giurisprudenze. Infatti, le prime “risposte” a Carter sono giunte dal Sudafrica e dalla Nuova Zelanda, attraverso due sentenze, rispettivamente dalla High Court del Sudafrica (divisione provinciale di Gauteng) e dalla High Court della Nuova Zelanda: Stransham-Ford v. Minister of Justice And Correctional Services and Others [2015] ZAGPPHC 230 e Lecretia Seales v. Attorney General [2015] NZHC 1239. Nelle pronunce si fa ampio riferimento al precedente canadese, che si è scelto di seguire soltanto nel caso sudafricano. Il giudice sudafricano ha infatti consentito al ricorrente di sottoporsi alla pratica del suicidio assistito, poiché ritenuta conforme alla Costituzione, mentre secondo l’Alta Corte neozelandese il divieto generalizzato non viola i diritti contenuti nel Bill of Rights.

Sia in Sudafrica che in Nuova Zelanda le sentenze sono state accolte da un acceso dibattito pubblico e hanno suscitato il più vivo interesse dei media nazionali. All’interno della società sudafricana il caso Stransham-Ford ha riportato il tema del suicidio assistito all’attenzione dell’opinione pubblica, dopo i dibattiti sorti in seguito alla redazione della Costituzione, che si protrassero fino all’adozione, nel 1998, del rapporto “Euthanasia and the artificial preservation of life” da parte della South African Law Commission. Tale rapporto, che raccomandava l’attuazione di forme di legalizzazione della pratica del suicidio assistito, non è mai stato seriamente preso in considerazione, poiché le emergenze di quegli anni, prima tra tutte l’epidemia di AIDS, hanno spostato l’attenzione del Ministero della Salute su altre questioni. Diverse associazioni, soprattutto di medici, si oppongono fermamente all’abolizione del divieto di suicidio assistito in Sudafrica (tra queste, due sono state ammesse al processo in quanto amici curiae: Doctors for Life International e Cause for Justice) e il Governo di Pretoria ha già dichiarato che farà appello contro la sentenza presso la Supreme Court of Appeal.

Anche la sentenza della Nuova Zelanda è stata accompagnata dall’emergere di posizioni contrastanti, rappresentate da un lato dal New Zealand Society of Palliative Medicine, dal New Zealand Medical Association e dal Care Alliance, contrari a qualsiasi forma di suicidio assistito, e dall’altro lato dal Voluntary Euthanasia Society. A seguito del forte dibattito interno al paese sorto attorno al caso Seales e ai risultati dei recenti sondaggi, in larga parte favorevoli al suicidio assistito, la commissione parlamentare per la salute è stata incaricata di svolgere un’inchiesta sull’eutanasia.

Le situazioni dei ricorrenti, nei due casi, presentano alcuni tratti comuni: al momento in cui fu presentato il ricorso, entrambi erano affetti da una patologia tumorale in fase terminale, che ne ha causato la morte in concomitanza con l’emanazione della sentenza (il sig. Stransham-Ford è morto il giorno stesso, la sig.ra Seales quello seguente). I due, entrambi avvocati, sono stati inoltre ritenuti perfettamente in grado di intendere e di volere e nessun altro ricorrente, né associazione, si è unito ai loro ricorsi.

Nonostante le sentenze in esame muovano da situazioni di fatto simili e debbano tener conto dell’autorevole precedente del Canada, un ordinamento il cui sistema giuridico di protezione dei diritti fondamentali presenta chiari elementi comuni rispetto a quello sudafricano e neozelandese, le due Corti hanno fatto uso di argomenti profondamente diversi tra loro, tali da condurre all’adozione di decisioni opposte.

Il giudice del Sudafrica ha riconosciuto che il divieto assoluto di suicidio assistito, contenuto in una norma di common law, viola sia il diritto alla dignità umana (art. 10 Cost.), la cui posizione è assolutamente centrale all’interno del testo costituzionale, sia il diritto all’integrità fisica e psicologica della persona (art. 12 Cost.). Nel giungere a tale conclusione, egli ha fatto ampio riferimento ai “recenti sviluppi in materia di eutanasia” e principalmente alla sentenza Carter, ritenuta “illuminante e persuasiva”. Nello specifico, la Corte del Sudafrica ha sottolineato, come è solita fare, la somiglianza tra la Carta dei diritti e delle libertà del Canada e il Bill of Rights nazionale: entrambi, infatti, contengono una clausola di limitazione (rispettivamente all’art. 1 e all’art. 36), in base alla quale i diritti ivi riconosciuti possono essere soggetti solo a quelle limitazioni generali previste dalla legge, giustificabili e necessarie in una società democratica. Tale clausola impone al giudice di verificare se esistono misure alternative rispetto a quelle impugnate, in grado di perseguire il proprio scopo, che nel caso di specie è la protezione dei soggetti vulnerabili, incidendo in maniera meno severa sui diritti dei ricorrenti.  A tal riguardo, la Corte sudafricana, basandosi sulle argomentazioni e sulle evidenze empiriche contenute in Carter, ha concluso che il divieto assoluto di suicidio assistito è eccessivo e che non può quindi essere giustificato ai sensi dell’art. 36 del Bill of Rights.

Espresso riferimento a Carter viene fatto anche al momento in cui la High Court del Sudafrica argomenta la sua decisione di disapplicare il principio generale di common law che vieta il suicidio assistito e rispetto al quale il legislatore non è intervenuto in alcun modo. La Corte afferma, infatti, che sia in Canada che in altri ordinamenti (tra cui Paesi Bassi e Belgio) la pratica del suicidio assistito è diventata legale prima che entrasse in vigore una legge che la consentisse espressamente e aggiunge che, in base all’art. 39 della Costituzione sudafricana, ciascuna corte ha il dovere, nell’esaminare un caso specifico, di assicurare lo sviluppo del common law conformemente allo spirito del Bill of Rights (v. sent. della Corte costituzionale sudafricana S v. Masiya  [2007] (2) SACR 435 (CC)). È precisamente da questo obbligo, sancito dall’art. 39, che la Corte del Sudafrica, considerando che i diritti del ricorrente sono violati dall’attuale principio di common law, in un modo che è incompatibile rispetto al Bill of Rights, ha riconosciuto il diritto del sig. Stransham-Ford di ricevere l’assistenza di un medico per suicidarsi.

Diversamente dal Sudafrica, in Nuova Zelanda la materia del suicidio assistito è disciplinata dal Crimes Act del 1961, il quale ripete alcune delle disposizioni del Criminal Code Act del 1893 che proibiscono la pratica del suicidio assistito (artt. 160 e 179) e ne introduce di nuove volte a rafforzare tale divieto (artt. 41 e 180). La sig.ra Sealesha impugnato alcune di queste disposizioni, ovvero gli artt. 160 e 179, perché ritenute contrarie alle disposizioni del Bill of Rights che tutelano il diritto alla vita (art. 8) e il diritto a non essere sottoposti a tortura o a trattamenti crudeli (art. 9), usando argomentazioni che evocano espressamente la sentenza Carter.

Prima di verificare la violazione di tali diritti il giudice ha evidenziato le peculiarità del quadro normativo neozelandese rispetto a quello canadese. In Nuova Zelanda, la decisione di preservare l’art. 179 e di introdurre l’art. 180, che vieta i c.d. suicide pacts ed è chiaramente ispirato all’Homicide Act britannico del 1957, costituirebbe la chiara dimostrazione della volontà del Parlamento di perseguire, attraverso il divieto assoluto di suicidio assistito, uno scopo più ampio rispetto a quello riconosciuto dalla Corte canadese, ossia la protezione dei soggetti vulnerabili. Le disposizioni del Crimes Act neozelandese avrebbero, infatti, il duplice obiettivo di garantire una protezione assoluta dei soggetti vulnerabili e di preservare la vita di coloro che non appartengono a tale categoria. Nel discostarsi dal precedente del Canada, il giudice neozelandese evidenzia invece che il significato che attribuisce alle disposizioni nazionali è identico all’interpretazione dell’art. 2 del Suicide Act britannico del 1961 data dalla Corte suprema del Regno Unito (caso R (Nicklinson) v. Ministry of Justice [2014] UKSC 38) e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Pretty v. United Kingdom [2002] 2346/02. È proprio questa la normativa più affine a quella della Nuova Zelanda, motivo per il quale, come spiega la Corte, le sentenze non possono divergere nei loro esiti.

Nell’esaminare la presunta violazione dell’art. 8 del Bill of Rights, la Corte neozelandese, al pari di quella canadese quando decide ex. art. 7 della Carta dei diritti e delle libertà, deve tener conto anche dei “principi fondamentali di giustizia”, i quali però in Nuova Zelanda non sono stati esplicitati attraverso un’elaborazione giurisprudenziale, cosicché nel caso di specie si è fatto riferimento all’interpretazione che di questi principi è emersa proprio in Canada e che è stata da ultimo ricordata dalla Corte suprema canadese in Carter.

Contrariamente a quanto deciso dalla Corte suprema canadese, il giudice neozelandese ha ritenuto il divieto assoluto conforme ai principi fondamentali di giustizia, anche a quello che vieta a una legge di essere overbroad, e  questo in virtù del diverso significato attribuito alle disposizioni del codice penale in Nuova Zelanda, dalle quali trasparirebbe la chiara volontà del legislatore.

La High Court ha escluso inoltre una possibile violazione dell’art. 9 del Bill of Rights, citando la pronuncia canadese della quale la sentenza Carter ha disposto l’overruling, ossia il caso Rodriguez v. British Columbia(Attorney General)[1993] 3 SCR 519, nella quale si escludeche la proibizione assoluta di suicidio assistito possa essere intesa come un “trattamento” da parte dello Stato, non essendoci una forma di controllo sull’individuo.

Da una breve analisi delle due sentenze si evince come attorno alla questione del suicidio assistito si stiano chiaramente delineando due diversi orientamenti, soprattutto all’interno degli ordinamenti di common law, i quali su tematiche simili (v. interruzione dei trattamenti di fine vita, eutanasia attiva) tendono invece ad attestarsi su posizioni coincidenti. Un primo approccio alla materia è quello emerso con la sentenza Carter, da ultimo riproposto dalla High Court  del Sudafrica, secondo il quale una Corte ha il dovere di innovare lo stato attuale del diritto, anche a fronte dell’inerzia legislativa, così da garantire una piena tutela dei diritti umani. Un secondo filone è invece quello che si inserisce nel solco della pronuncia della Corte suprema canadese Rodriguez, poi ripresa dalla Corte suprema inglese in Nicklinson, che la Corte neozelandese ha scelto di seguire, nel senso che la presenza di disposizioni che prevedono tale proibizione assoluta viene intesa come una chiara scelta da parte del legislatore e rispettata in quanto tale.

La centralità che, nell’affrontare il suicidio assistito, riveste il rapporto tra corti e legislatore è indubbia. Molti però sono i fattori che influiscono in maniera altrettanto incisiva sui diversi orientamenti giurisprudenziali; tra questi l’atteggiamento della Corte europea dei diritti dell’uomo suggerisce che anche il parametro giuridico invocato contro la proibizione assoluta possa svolgere un ruolo decisivo. Quest’ultima dopo aver dichiarato che il divieto generalizzato non viola il diritto alla vita ex art. 2 della CEDU (caso Pretty), ha di recente riconosciuto una violazione dell’art. 8 della CEDU, relativo al diritto alla vita privata e familiare (v. sentt. Haas v. Switzerland [2011] 31322/07 e Gross v. Switzerland [2013] 67810/10). L’utilizzo di un parametro giuridico diverso da quello del diritto alla vita, il quale apre un acceso dibattito sulla prevalenza del principio della sacralità della vita rispetto all’autonomia individuale, potrebbe essere la chiave di volta per avvicinare i due attuali filoni, come sembra indicare la stessa corte neozelandese, che non esclude la possibilità di accogliere un ricorso fondato sul diritto alla vita privata e familiare.