Un landmark tra Strasburgo e Sarajevo: il caso Sejdić e Finci

Diversi sono gli aspetti rilevanti del caso Sejdić e Finci c. Bosnia-Erzegovina, deciso dalla Grande Camera della Corte di Strasburgo il 22 dicembre del 2009 (ricc. nn. 27996/06 e 34836/06).

Il primo riguarda il contesto di provenienza della causa. I ricorrenti sono due cittadini bosniaci, rispettivamente di origine rom e ebraica, che si vedono interdetta la possibilità di essere eletti sia alla seconda camera del Parlamento (la Camera dei popoli) che alla Presidenza, e lamentano per questo la violazione degli artt. 14, 3 prot. 1 e 1 prot. 12 CEDU. L’impedimento nasce dal fatto che la Costituzione, adottata nel 1995 quale protocollo dell’accordo di pace di Dayton e mai soggetta a referendum, prevede che sia l’uno che l’altro organo siano costituiti in modo perfettamente paritario da soggetti appartenenti alle tre etnie prevalenti in Bosnia: bosniaci, croati e serbi. Sia la Camera dei popoli (quindici membri in tutto) che la Presidenza (tre membri in tutto) sono infatti formate da un numero pari di individui appartenenti a ciascuna delle tre componenti, mentre gli individui appartenenti ad altre etnie, espressamente definiti “popoli non costituenti”, possono concorrere solamente all’elezione per la Camera dei rappresentanti, l’unico organo eletto direttamente dal popolo.

La Corte di Strasburgo, quindi, era chiamata a decidere non solamente su norme di rango costituzionale, ma su un complesso equilibrio di poteri che, oltre ad essere formalmente incardinato in un trattato internazionale, ha costituito una delle condizioni che hanno consentito il raggiungimento di un accordo dopo la fine della guerra in Jugoslavia. Dietro questo scenario, mi sembra che l’intervento della Corte di Strasburgo smascheri, una volta di più, uno dei problemi centrali riguardo alla sua giurisdizione: la tutela dei diritti garantiti dalla CEDU costituisce un bene bilanciabile con il perseguimento di interessi vitali degli Stati membri? I diritti devono operare come le briscole (trumps) di Dworkin e far soccombere quanto più possibile questi interessi o questi ultimi possono/debbono avere uno spazio idoneo a limitarne l’operatività? E se sì, a quali condizioni? Le risposte date sinora a questo dilemma, che per la Corte EDU rappresenta forse il dilemma, hanno fatto leva su soluzioni procedurali: margine d’apprezzamento e, in certa misura e da una diversa prospettiva, la recente vicenda delle sentenze pilota. In questo caso non c’è, e non poteva esserci, né l’una né l’altra soluzione, ed è per questo che viene da chiedersi se questa sentenza non rappresenti un caso che, anche nella sua drammaticità, contribuirà a segnare le sorti, oltre che dell’incerta democrazia bosniaca, anche della rappresentazione, offerta dalla Corte europea, del legame tra diritti fondamentali e forme della convivenza politica.

Un altro aspetto rilevante di questa sentenza è che essa costituisce il primo caso di applicazione dell’art. 1 del Protocollo 12 della CEDU, con cui è entrato in vigore nel 2005 un divieto generale di discriminazione nel “godimento di ogni diritto previsto dalla legge”: un divieto, quindi, che si estende ben al di là dell’attuale art. 14 CEDU.
Ora, se esordio doveva essere, questo è stato decisamente sottotono: bastano solo due paragrafi (§§ 55-56) alla Corte per chiarire che, “nonostante la differente portata” rispetto all’art. 14 cit., il termine discriminazione assume nei due articoli un contenuto sostanzialmente identico. Sul punto, una critica viene dall’opinione parzialmente dissenziente dei giudici Mijović e Hajiyev, i quali si chiedono se, mediante il più duttile strumento del prot. 12, la Corte non avrebbe potuto ad esempio chiarire se ad essere contraria alla Convenzione era solamente la preclusione a danno dei “popoli non costituenti”, od anche lo stesso obbligo per i cittadini delle tre etnie maggioritarie a votare dichiarando la propria appartenenza ad un gruppo etnico. Certo, non era stata sollevata una questione del genere, e la Corte, a maggior ragione in un caso del genere, non si mostra propensa a pronunciarsi ultra petita. Resta però il fatto che, se non l’ha fatto in questo caso, nel prossimo futuro la Corte dovrà chiarire se l’unica novità costituita dal divieto ex prot. 12 sia relativa all’ambito di applicazione, o se questo non implichi un sindacato più evoluto di quello svolto sinora, perché strutturalmente affine, con tutte le differenze del caso, ai vari test di proporzionalità/ragionevolezza elaborati dalle Corti costituzionali nazionali.