La sentenza Torreggiani come argomento per negare l’esecuzione di un mandato d’arresto europeo

L’11 marzo scorso, la Queen’s Bench Division della High Court inglese, composta dai giudici McCombe e Hickinbottom, ha accolto l’appello di un cittadino somalo, che contestava la sua consegna in Italia disposta dalla District Court in esecuzione di un mandato d’arresto europeo/MAE (Hayle Abdi Badre v. Court of Florence, Italy). La decisione è importante per diverse ragioni: in primo luogo, perché sono presenti, anche se non direttamente esaminati dalla Corte, profili attinenti la libertà religiosa nell’ambito dell’esercizio delle libertà economiche; in secondo luogo, perché è rilevante il criterio della doppia incriminazione quale possibile motivo di rifiuto del MAE; da ultimo – ma è l’aspetto più attuale – perché la sentenza Torreggiani della Corte di Strasburgo viene utilizzata come uno degli argomenti principali della decisione (Torreggiani c. Italia, dell’8 gennaio 2013). A sua volta, l’uso argomentativo della sentenza Torreggiani si segnala per un duplice ordine di motivi: da un lato, perché esso è stato in grado di paralizzare l’efficacia del MAE, rappresentando un’ipotesi di “circolo virtuoso” all’interno del pluralismo giuridico europeo; dall’altro, perché esso riguarda il problema strutturale delle condizioni carcerarie in Italia, per la risoluzione del quale la stessa Corte di Strasburgo ha fissato indirettamente il termine del 28 maggio 2014, senza che finora il legislatore se ne sia fatto adeguatamente carico (v. anche Corte cost., sent. 279/2013).

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Ancora sul mandato d’arresto europeo: osservazioni a margine di una sentenza irlandese che ha rifiutato l’esecuzione del MAE sulla base della giurisprudenza di Strasburgo

In quest’ultimo anno, la giurisprudenza delle corti europee e nazionali sul mandato di arresto europeo ha visto succedersi alcune tappe significative. Si ricorderanno i primi rinvii pregiudiziali sollevati rispettivamente dal Tribunale costituzionale spagnolo (ATC 86/2011) e dal Conseil Constitutionnel francese (2013-314 QPC), ai quali hanno fatto seguito due decisioni della Corte di Giustizia, non del tutto assimilabili nei risultati e nei percorsi interpretativi. Con la sentenza Melloni, sul rinvio pregiudiziale spagnolo, la CGUE aveva infatti sostanzialmente disconosciuto le istanze volte ad affermare un’articolazione complessa e non gerarchica della protezione dei diritti fondamentali negli assetti costituzionali europei, istanze avanzate sulla base della clausola orizzontale di cui all’art 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (C-399/11, del 26 febbraio 2013). Con la sentenza Forrest, sul rinvio pregiudiziale francese, la Corte aveva bensì ricondotto all’attuazione nazionale della decisione quadro una violazione del diritto alle garanzie processuali, ma nell’argomentazione era stata maggiormente attenta alle ragioni dei diritti fondamentali, applicando le clausole di equivalenza piuttosto che il solo principio del primato (C-168/13 PPU, del 30 maggio 2013). Dopo le due pronunce della CGUE, si sono conclusi i rispettivi giudizi costituzionali. Più lineare è stata la decisione del Conseil, che ha dichiarato l’illegittimità dell’assenza di ricorso, prevista dalla norma interna, nel caso di estensione del MAE a fattispecie diverse (2013-2014 QPC). Più articolata è apparsa quella del Tribunale costituzionale spagnolo, che ha visibilmente preso le distanze dalla motivazione della CGUE, ricollegandosi alla dottrina dei controlimiti formulata nella precedente dichiarazione DTC 1/2004, pur ridimensionando le proprie posizioni sulla cd. violazione indiretta dei diritti fondamentali, con riferimento specifico alle condanne in absentia (STC 26/2014).

In questo filone giurisprudenziale più problematico, sviluppato dai giudici nazionali, si colloca la sentenza della Supreme Court irlandese che qui si commenta (Minister for Justice and Equality v. Kelly aka Nolan, del 10 dicembre 2013).

 

 

 

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La responsabilità civile dei magistrati: verso una soluzione?

Presso la Commissione per le Politiche comunitarie della Camera si trova attualmente, in sede referente, il disegno di legge relativo alla legge europea 2103-bis (A.C. 1864), nella quale il Governo ha reintrodotto una norma sulla responsabilità civile dei magistrati. Il tema, come si sa, ha toccato nel nostro paese un nodo scoperto del rapporto tra sistema politico e magistratura.

Non potendo ripercorrere in questa sede la complessa vicenda che ha interessato la disciplina italiana sulla responsabilità civile dei magistrati, mi limito a ricordare che l’esigenza di una riforma si è posta con urgenza dopo le sentenze della Corte di Giustizia Köbler (2003) e Traghetti del Mediterraneo (2006). Nella prima, la Corte ha esteso la responsabilità degli stati membri per violazione “manifesta” del diritto comunitario anche all’attività degli organi giurisdizionali di ultima istanza, individuando contestualmente una serie di parametri sulla base dei quali valutare la sussistenza della violazione. Nella seconda, la Corte si è occupata specificamente delle norme della legge italiana che delimitano la responsabilità del giudice: da un lato, escludendola per “l’attività di interpretazione di norme di diritto [e per quella] di valutazione del fatto e delle prove” (art. 2, comma 2, l. n. 117/1988) e, dall’altro, richiedendo per la risarcibilità del danno gli elementi soggettivi del dolo o della colpa grave (art. 2, commi 1 e 3, l. n. 117/1988). Per la Corte di Giustizia, tali norme, insieme a un’interpretazione di esse fortemente restrittiva da parte della Corte di Cassazione, sono incompatibili con il diritto europeo, poiché, rendendo oltremodo gravosa la risarcibilità del danno, pregiudicano l’effettività delle norme europee che attribuiscono determinati diritti ai singoli.

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Una biografia habermasiana

La biografia di Matthews Specter su Jürgen Habermas (Matthews G. Specter, Habermas. An Intellectual Biography, Cambridge, Cambridge University Press, 2010, pp. 263) è un testo agile, che si segnala qui soprattutto perché pone l’attenzione sulla dimensione politico-costituzionale del pensiero habermasiano. In particolare, Specter evidenzia il rapporto di Habermas con Wolfgang Abendroth (e quindi con una parte della tradizione helleriana), con cui Habermas ha discusso la dissertazione Strukturwandel der Öffentlichkeit (1962), precedentemente rifiutata da Horkheimer a Francoforte. Ad Abendroth, Specter fa risalire una vera e propria scuola (di cui fa parte anche Helmut Ridder), che tuttavia è rimasta marginale nell’ambito della giuspubblicistica tedesca, dominata da quelle facenti capo rispettivamente a Rudolf Smend e a Carl Schmitt. Se, negli anni giovanili, Habermas studia e rielabora i lavori di Schmitt e Forsthoff, egli sembra però più distante dalla dottrina di matrice smendiana, associata in maniera piuttosto generalistica alla giurisprudenza sulla Wertordnung del Tribunale costituzionale federale. Maggiori sono i punti di contatto con alcuni studiosi di scuola smendiana (soprattutto Hesse ed Häberle) e con alcuni costituzionalisti weimariani emigrati negli Stati Uniti, divenuti poi importanti esponenti della scienza politica del dopoguerra (Kirchheimer e Fränkel). La vicinanza di Habermas ad Abendroth non è solo scientifica, ma anche politica, essendo stati entrambi fortemente critici del programma di Bad Godesberg (1959), con cui l’SPD si era proposto di superare alcuni assunti della dottrina marxiana e il proprio carattere di partito di lavoratori.

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Mandato d’arresto europeo e primo rinvio pregiudiziale del TCE: la via solitaria della Corte di giustizia

Con la sentenza Melloni (del 26 febbraio 2013, C-399/11), la Corte di Giustizia dell’Unione europea è tornata a pronunciarsi sulla compatibilità del mandato d’arresto europeo (MAE) con i diritti e i principi delle costituzioni nazionali. Diversamente dal filone giurisprudenziale che ha valorizzato il nesso tra residenza e principio di reinserimento del condannato (v., da ultimo, con riferimento alle condanne in absentia, sent. 21 ottobre 2010, C-306/09, I.B.), questa decisione omette di considerare questioni interpretative emblematiche di un sistema di protezione “cooperativo” dei diritti in Europa (v. già la controversa sent. 3 maggio 2007, C-303/05, Advocaten voor de Wereld). La sentenza Melloni si segnala inoltre perché essa costituisce l’esito del primo rinvio pregiudiziale sollevato dal Tribunale costituzionale spagnolo (TCE).

Il caso riguardava un MAE, emesso dall’autorità giudiziaria italiana e indirizzato all’autorità giudizaria spagnola in seguito ad una condanna contumaciale. Il sig. Melloni, assente dal proprio processo, aveva prima conferito e poi revocato il mandato a due difensori, i quali avevano ricevuto le notifiche di rito ed erano comparsi in giudizio. Invocando il diritto di difesa e facendo leva sull’impossibilità di ottenere un nuovo processo in Italia, Melloni aveva impugnato con recurso de amparo la decisione dell’Audiencia Nacional che aveva disposto l’esecuzione del MAE.

Mentre il testo originario della decisione quadro sul MAE prevedeva la facoltà, per lo stato membro di esecuzione e nei casi di condanna in absentia, di subordinare l’esecuzione del mandato d’arresto alla condizione della celebrazione di un nuovo processo nello stato di emissione (art. 5 d.q. 2002/584 GAI), una modifica recente ha circoscritto in maniera sensibile tale ipotesi (art. 4 bis, introdotto dalla d.q. 2009/299 GAI). Tra le varie innovazioni, le nuove norme hanno previsto l’esecuzione obbligatoria del MAE qualora l’interessato, pur non comparso personalmente al processo, venendo a conoscenza di esso abbia conferito il mandato a un difensore e questi abbia patrocinato l’imputato in giudizio.

L’ordinanza di rinvio del TCE (ATC 86/2011, del 9 giugno 2011, con voto particular di Pérez Tremps) ha ricostruito l’interpretazione dell’art. 24 della costituzione spagnola sul diritto di difesa, ha rilevato un possibile contrasto con la decisione quadro e ha sottoposto alla Corte di Giustizia alcuni dubbi interpretativi relativi sia alla portata dei corrispondenti diritti fondamentali dell’UE (art. 47 e  48, comma 2 CDFUE) sia al significato delle clausole orizzontali della carta europea (art. 52, comma 2 e 53 comma 3 CDFUE) (sull’ordinanza, v. il commento di Augusto Aguilar Calahorro).

Il TCS ha riconosciuto una diversa valenza del diritto alla difesa ab intra e ab extra del territorio spagnolo: nella seconda ipotesi, che investe direttamente il potere pubblico di altri stati e indirettamente le autorità spagnole, non operano tutte le garanzie elencate all’art. 24 CE ma solo il contenuto essenziale del diritto, inerente alla dignità della persona e determinato alla luce dei trattati internazionali in materia (art. 10, commi 1 e 2 CE). In tale nucleo essenziale, è compreso il diritto a partecipare al dibattimento orale e a difendersi personalmente. Esso non è soltanto un risvolto del principio del contraddittorio, ma costituisce uno strumento per l’esercizio del diritto di autodifesa (che implica la possibilità di ammettere o contestare l’accusa, interrogare i testimoni, concordare la strategia difensiva con il difensore ed esercitare il diritto all’ultima parola). Date queste premesse, il TCE ha ritenuto illegittima l’estradizione incondizionata (cioè, non subordinata alla condizione della richiesta di un nuovo processo) per violazione indiretta dell’art. 24 CE (STC 91/2000).

Tale orientamento è stato confermato per la consegna prevista dalla disciplina sul MAE (STC 177/2006). In una pronuncia più recente, il TCE ha rigettato la tesi secondo cui il conferimento del mandato ad un legale e la presenza di questi in giudizio sarebbe stata sufficiente ad escludere una condanna in absentia, dato il valore primario del diritto ad essere presente al dibattimento orale (STC 199/2009).

Nel caso in esame, il TCE ha rilevato che il parametro di costituzionalità (art. 24 CE) avrebbe dovuto essere integrato dalle norme conferenti del diritto dell’Unione europea e che, a tal fine, era imprescindibile che la Corte di Giustizia sciogliesse alcuni nodi relativi all’interpretazione e alla validità della decisione quadro sul MAE (sull’integrazione del parametro costituzionale, con particolare attenzione all’ordinamento spagnolo, v. Angelo Schillaci, Diritti fondamentali e parametro di giudizio, Napoli 2012, 375ss.). Riconoscendosi finalmente “organo giurisdizionale” ai sensi dell’art. 267 TFUE, il TCE ha quindi sollevato un rinvio pregiudiziale avente ad oggetto tre questioni tra loro subordinate: se l’art. 4 bis della decisione quadro potesse essere interpretato, alla luce di un canone testuale o sistematico, nel senso di impedire il diniego dell’esecuzione del mandato ma non anche la consegna condizionata; se l’art. 4 bis violasse gli art. 47 e 48, comma 2 CDFUE, il cui significato e la cui portata corrispondono a quelli dell’art. 6, comma 1 e 3 CEDU come interpretato dalla relativa Corte (art. 52, commi 3 e 7 TUE); se l’art. 53 CDFUE, prevedendo che la Carta dei diritti fondamentali non debba considerarsi «limitativa o lesiva» dei diritti riconosciuti dalle costituzioni nazionali, potesse giustificare, da parte delle autorità spagnole, una consegna condizionata.

L’argomentazione del TCE sulle due clausole orizzontali è molto articolata: per un verso, valorizzando le indicazioni dell’art. 52 comma 3 CDFUE, il Tribunale ha ripreso la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull’art. 6 CEDU, secondo cui la rinuncia a partecipare al proprio processo deve risultare in maniera inequivoca, essendo insufficiente a tal fine la dichiarazione dello stato di latitanza (tra gli altri, cfr. Sejdovic c. Italia, del 1 marzo 2006 e Kwiatokowska v. Italia, del 30 novembre 2000). Per l’altro verso, sottolineando l’importanza fondamentale dell’art. 53 CDFUE nell’ambito di un sistema di protezione dei diritti in Europa, il TCE ha prospettato tre possibili interpretazioni di tale norma: essa può rappresentare una clausola sullo standard minimo di protezione (assimilabile all’art. 53 CEDU), oppure delimitare l’ambito di applicazione della Carta tra l’Unione e gli stati membri (sovrapponendosi all’art. 51 CDFUE), oppure ancora combinare queste due ricostruzioni. In quest’ultima ipotesi, la più dinamica, l’art. 53 CDFUE «opererebbe sia come una clausola di standard minimo di protezione – capace quindi di essere incarnata da una disposizione costituzionale interna che protegga più intensamente il corrispondente diritto fondamentale – sia come una clausola che impone una soluzione comune uniforme su tutto il territorio – anche a costo di determinare … una riduzione del livello di protezione dei diritti fondamentali». In tale prospettiva, acquista un rilievo decisivo il «contesto sotteso al concreto problema» da risolvere, problema che potrebbe avere esiti diversi a seconda che ci si trovi dinanzi a «un conflitto tra diritti fondamentali, o tra un diritto fondamentale e qualche altro principio generale del diritto dell’Unione europea … o che la struttura normativa di ciascuno di essi rilevi in ordine alla possibilità di ammettere un maggior livello di protezione da parte delle costituzioni degli stati membri».

Date queste premesse, la sentenza della Corte di giustizia appare, dal punto di vista dell’argomentazione, alquanto deludente.

Preliminarmente, la Corte supera un’eccezione di procedibilità. Benché la d.q. 299/2009 non sia applicabile ratione temporis all’Italia, la valutazione circa la necessità del rinvio pregiudiziale spetta sostanzialmente al giudice del rinvio, in questo caso il TCE. Il Tribunale costituzionale spagnolo aveva già chiarito l’irrilevanza del fattore temporale, dovendosi avere riguardo, ai fini dell’integrazione del parametro costituzionale, al diritto europeo vigente al momento della decisione. In maniera meno convincente, la Corte insiste (come già aveva fatto in precedenza) sul carattere processuale e non sostanziale della disciplina sul MAE, per giustificarne l’applicazione ai casi pendenti.

Quanto alla prima questione di merito, la Corte interpreta la d.q. 299/2009 enfatizzandone lo scopo: «facilitare e accelerare la cooperazione giudiziaria» in Europa. Sia la lettera che l’analisi sistematica della decisione quadro sono univoche nel delineare una disciplina uniforme delle eccezioni all’obbligo di consegna degli individui condannati in absentia, e tali eccezioni non contemplano la consegna subordinata alla condizione della celebrazione di un nuovo processo.

È negativa anche la risposta alla seconda questione: l’art. 4 bis non viola i diritti all’equo processo e i diritti di difesa protetti dagli artt. 47 e 48, comma 2 CDFUE, poiché tali norme non escludono il processo in absentia quando vi sia stata una rinuncia volontaria ed inequivocabile al processo (in questo senso viene letto anche l’art. 6 CEDU). La d.q. 299/2009 ha tipizzato alcune ipotesi di rinuncia volontaria, tra cui quella del conferimento del mandato ai difensori, e tale atto è per la Corte idoneo a delimitare e definire il contenuto dei diritti summenzionati (sulla mancata lesione degli art. 47 e 48 v. sent. 29 gennaio 2013, C-396/11, Radu),

Infine, i giudici di Lussemburgo ridimensionano la questione relativa all’art. 53 CDFUE: la ricostruzione del TCE non è accettabile, poiché l’applicazione dei diritti costituzionali in nome di uno standard di protezione più elevato sarebbe lesiva del principio del primato e sminuirebbe l’efficacia del diritto dell’Unione. Nemmeno potrebbe operare il margine riconosciuto agli stati membri nell’ambito dell’attuazione del diritto dell’Unione – strumento flessibile utilizzato dalle corti nazionali per preservare l’efficacia dei diritti costituzionali nazionali –, poiché lo impedirebbe la d.q. 299/2009. Avendo questa misura il fine specifico di rimediare alle difficoltà, derivanti dalle differenze di tutela dei diritti fondamentali negli stati membri, del riconoscimento reciproco delle decisioni pronunciate in absentia, essa avrebbe realizzato «un’armonizzazione … che riflette il consenso raggiunto dagli stati membri nel loro insieme». In tale prospettiva, permettere la subordinazione della consegna alla condizione della revisione del processo nello stato di emissione provocherebbe una «lesione dei principi di fiducia e riconoscimento reciproci che [la d.q.] mira a rafforzare e, pertanto, un pregiudizio per l’effettività» di essa.

Putroppo, la Corte di giustizia non si è discostata in maniera apprezzabile dalle conclusioni dell’Avvocato generale Bot, su cui già il prof. Ruggeri e Giorgio Repetto avevano espresso rilievi critici. Preoccupa l’insistenza unilaterale sul principio del primato e sull’efficacia uniforme del diritto europeo, senza il dovuto riconoscimento delle interdipendenze ordinamentali. È da censurare l’uso interpretativo della d.q. 299/2009 (un atto di diritto secondario) per determinare il contenuto dei diritti fondamentali di cui agli art. 47 e 48 CDFUE. Non convince il riferimento alla d.q. 299/2009 come misura di armonizzazione sostenuta da un forte consenso degli stati membri, se si tiene presente che le proposte della Commissione, volte alla definizione di norme minime relative ai diritti processuali, sono state congelate per anni a causa delle diverse concezioni della giustizia penale nei singoli stati (la prospettiva dell’approvazione di alcune direttive in materia è relativamente recente). Infine, manca la consapevolezza della specificità dello “spazio di libertà, sicurezza e giustizia” – e in particolare della cooperazione in materia di giustizia penale e di polizia – nell’ordinamento dell’Unione europea: è un’osservazione ormai condivisa che l’insistenza sul principio del mutuo riconoscimento tende, in quest’ambito, ad enfatizzare la dimensione repressiva a scapito dei diritti di libertà.

 


Obama e la politica antiterrorismo

Negli ultimi mesi, la promozione dei diritti da parte della Presidenza Obama ha avuto risonanza in Italia soprattutto per l’importante riforma sanitaria e per il sostegno espresso a favore delle coppie omosessuali.

Meno seguito è stato forse un altro aspetto della sua azione di governo con implicazioni per i diritti, e cioè quello della politica antiterrorismo, che sollecita immediatamente un confronto con il suo predecessore. Negli Stati Uniti, la materia continua ad essere coperta sia dalla stampa che da gruppi di specialisti.

Tra i volumi usciti negli ultimi mesi sul tema, si segnalano Jack Goldsmith, Power and Constraint. The Accountable Presidency after 9/11, New York and London, W.W. Norton & Company, 2012, pp. 311 e Jonathan Hafetz, Habeas Corpus after 9/11. Confronting America’s New Detention System, New York and London, New York University Press, 2011, pp. 320.

Si tratta di studiosi di provenienza diversa. Il primo, professore ad Harvard e conservatore moderato, ha diretto l’Office of Legal Counsel del Department of Justice dell’amministrazione Bush tra il 2003 e il 2004, distinguendosi per aver ritirato gli assai contestati torture memos redatti dal medesimo ufficio prima del suo arrivo (la vicenda è ricostruita da Goldsmith in The Terror Presidency, W.W. Norton & Company, 2007). Il secondo è associate professor alla Seton Hall University (New Jersey) e avvocato impegnato nella difesa dei diritti dei detenuti a Guantánamo.

L’approccio dei due libri è inevitabilmente differente, ma entrambi gli Autori mettono in evidenza alcuni profili di continuità tra le politiche dell’ultima fase della presidenza Bush e quelle di Obama. Fra questi, occorre ricordare il mantenimento sia della detenzione esecutiva a Guantánamo che delle commissioni militari. Se il presidente Obama non ha chiuso la base militare sul territorio cubano, come si era impegnato a fare pochi giorni dopo il suo insediamento, ciò è dovuto soprattutto agli ostacoli frapposti dal Congresso, che non ha acconsentito al finanziamento di soluzioni alternative. Ma, come risulta da diversi atti ufficiali e comportamenti dell’amministrazione, quest’ultima non avrebbe comunque rinunciato ad avvalersi della detenzione esecutiva per gli individui considerati più pericolosi.

Goldsmith ritinene che le misure adottate da Obama – al pari di quelle dell’ultimo Bush – siano giustificate dal buon funzionamento dei checks and balances dopo il primo biennio della presidenza Bush: non solo il Congresso e le corti federali (tra cui soprattutto la Corte suprema), ma anche la stampa, le associazioni non governative e gli organi di controllo interni all’amministrazione avrebbero introdotto e rafforzato una serie di limiti agli eccessi delle politiche presidenziali, contribuendo col tempo a consolidarne la legittimazione. Benché non costituisca l’obiettivo prioritario dell’Autore, dalla sua ricostruzione emerge un ridimensionamento delle tesi sulla tendenza verso una deriva autoritaria (oltre che “imperiale”) della presidenza,  formulate più recentemente da Bruce Ackerman e Peter Shane.

L’analisi di Hafetz è incentrata sul writ di habeas corpus come principale strumento di controllo delle detenzione illegittime (si tratta di un filone in forte crescita negli ultimi anni). Pur valorizzando l’estensione della giurisdizione di habeas assicurata dalla Corte Suprema – da ultimo con la sentenza Boumediene –, l’Autore richiama l’attenzione sui vuoti di tutela che tuttora permangono. Il writ di habeas non si applica infatti alla base di Bagram in Afghanistan (dove sono custoditi circa tremila prigionieri), alle prigioni segrete all’estero (non del tutto soppresse da Obama), alle detenzioni c.d. proxy e alle extraordinary renditions. Hafetz esamina inoltre i casi decisi dalle corti inferiori – prevalentemente nel District of Columbia – dopo Boumediene, evidenziando alcuni punti critici di questa giurisprudenza. Diversamente da Goldsmith, gli aspetti di continuità con la politica di Bush vanno ravvisati per Hafetz nella tendenza di ogni amministrazione, durante le emergenze e con il consenso della popolazione, ad «iperreagire» in nome della sicurezza, sottraendosi a limiti e controlli costituzionali.

Resta, comunque, un aspetto profondamente problematico della presidenza Obama: il ricorso al targeted killing (uccisione mirata) di terroristi mediante aerei telecomandati (drones), in paesi lontani dal campo di battaglia (soprattutto in Yemen). Tra le vittime, ci sono anche alcuni cittadini americani. Incalzata dalla stampa e dalle associazioni per i diritti civili, l’amministrazione ha ammesso di avvalersi di questa tecnica (in misura anche maggiore rispetto all’amministrazione Bush), ma si è rifiutata di rilasciare il memorandum dell’OLC in cui viene esaminata (e, si deve ipotizzare, giustificata) la sua legittimità. Non solo il targeted killing può pregiudicare i diritti costituzionali (anzitutto il due process) e il rispetto delle norme internazionali, ma anche, se avvolta dal segreto, il principio di trasparenza, su cui lo stesso Obama aveva insistito al fine di rafforzare il controllo democratico sull’attività dell’esecutivo. Probabilmente, date le crescenti critiche da parte dell’opinione pubblica, l’amministrazione cercherà di “autocorreggere” questa linea, o vi sarà costretta dalle corti.

E, tuttavia, il percorso appare ancora lungo se, ancora pochi giorni fa, un giudice distrettuale di New York ha respinto la richiesta ai sensi del FOIA, formulata da due giornalisti del New York Times e dall’ACLU, di accedere al memorandum in questione, pur ammettendo il carattere «paradossale» della propria decisione (US District Court, Southern District of New York, New York Times co., C. Savage and S. Shane v. US Department of Justice, del 2 gennaio 2013).


Il “Living Originalism” di Jack Balkin

Il titolo del volume è volutamente provocatorio: in Living Originalism (Cambridge Mass., The Belknap Press of Harvard University Press, 2011, pp. 474), Jack Balkin si propone di superare la contrapposizione tra originalism e living constitutionalism, che da qualche decennio divide i costituzionalisti americani. Se vi sia riuscito è questione aperta, ma il libro ha senz’altro il merito di aver affrontato con acume alcuni temi centrali del dibattito contemporaneo (e non solo): il ruolo della storia nell’interpretazione, il mutamento costituzionale, la legittimazione democratica non solo delle corti, ma del sistema politico nel suo insieme.

La tesi di fondo è la seguente: se concepiti nel modo suggerito da Balkin, originalism e living constitutionalism sono compatibili. In particolare, l’originalism non deve ridursi a un’analisi sull’original expected application dei founding fathers, ma deve essere volto a ricercare l’original meaning delle norme costituzionali, il significato semantico dei concetti. A questo riguardo, l’Autore si rifà ad alcuni studi che hanno recentemente indagato i diversi tipi di originalismo. Diversamente da quello dei conservative originalists, inoltre, l’originalism propugnato da Balkin non ha come fine prevalente quello di circoscrivere e limitare (constrain) l’attività del giudice, ma piuttosto quello di individuare la «cornice» normativa all’interno della quale si dispiega l’attività delle generazioni successive. In questo senso, il framework originalism balkiniano viene contrapposto allo skyskraper originalism, che fissa invece nel testo dei framers una matrice dalla quale non è possibile discostarsi.

Per converso, il living constitutionalism di Balkin non è incentrato sulle decisioni giudiziarie e sull’interpretation, ma riguarda l’insieme delle constitutional constructions, ossia (con qualche variazione rispetto alla ricostruzione di Whittington) l’attività di implementazione e applicazione della costituzione da parte (non solo dei giudici ma anche) degli organi politici federali (Congresso e Presidente) e statali, nonché da parte dei movimenti sociali e politici.

In che modo Balkin associa originalism e living costitutionalism? Essendo il primo qualificato come framework originalism, l’indagine sull’original meaning è volta a mettere in luce i principi, le promesse e gli impegni (principles, promises and commitments) racchiusi nel testo della costituzione. Tale operazione intende ricostruire le norme costituzionali che «incanalano e disciplinano, [ma] non ipotecano» la  futura attività politica, di modo che lo spazio da esse creato possa essere riempito, nel corso del tempo, dalle constitutional constructions elaborate da organi politici, giudici e cittadini.

Il framework originalism è sviluppato attraverso il metodo text and principles, che richiede all’interprete fede (faith) nella costituzione e fedeltà (fidelity) al testo costituzionale. Tale metodo consente di distinguere le regole e le parti del documento che non possono essere modificate se non con la procedura di cui al V emendamento, e di enucleare gli standards e i principi espressi o sottesi al testo (underlying principles). Individuate in tal modo le “promesse” originarie della costituzione, il compito e la responsabilità di redimerle e riscattarle (redeem) ricade sulle generazioni future, nella misura in cui queste ultime si riconoscano nel piano (plan) costituzionale e siano in grado di farne propri gli impegni (sul ricorso da parte di Balkin a categorie delle tradizioni religiose protestante ed ebraica v. McClain, in Boston University Law Review, pp. 1187ss.).

Il riscatto della costituzione e la prosecuzione del progetto da essa delineato da parte dei cittadini è possibile solo se la prima non è intesa esclusivamente come basic law che, allocando poteri, diritti e obblighi, promuove la stabilità politica, ma anche come higher law – «fonte di ispirazione e deposito di principi e valori» – e come our law, con la quale «ci [si] identifica» e verso la quale si nutre attaccamento (attachment) indipendentemente da un’effettiva prestazione del consenso (59ss.). La costituzione è dunque un progetto politico a lungo termine, a cui partecipano generazioni diverse, che si riconoscono in esso e nella relativa narrazione (constitutional story).

Nella teoria di Balkin, la storia assume quindi due ruoli correlati: da una parte, fattore di integrazione del We the People e sostrato della “our constitution e, dall’altra, strumento di interpretazione delle norme costituzionali attraverso l’indagine sull’original meaning.

Qual è il valore aggiunto del living originalism? Balkin ritiene che esso riesca a spiegare alcuni snodi fondamentali della tradizione costituzionale americana (il New Deal, Brown v. Board of Education, la c.d. civil rights revolution degli anni sessanta e settanta del Novecento, etc.) senza incappare nell’ostacolo dinanzi al quale vacillano sia gli originalists che i living constitutionalists. Per entrambi, infatti, questi sviluppi decisivi sono avvenuti al di là del testo costituzionale e possono essere giustificati soltanto alla luce della dottrina dello stare decisis, alla quale attribuiscono però un significato differente. Per gli uni (tra cui Bork e Scalia), i precedenti in questione rappresentano pragmatic exceptions all’original meaning, mentre per gli altri (tra cui Gerhardt e Ackerman) costituiscono dei superprecedents. Né l’una né l’altra posizione, tuttavia, riescono a spiegare perché alcuni precedenti debbano considerarsi particolarmente “resistenti” e altri meno.

Balkin, invece, ritiene che tali svolte costituiscano delle constitutional constructions, e che queste ultime – essendo un’implementazione dei relativi underlying principles –, siano riconducibili all’original meaning delle clausole costituzionali  A supporto di tale tesi, l’Autore svolge un’approfondita e documentata analisi storica avente ad oggetto la commerce clause (art. I sez. 8), la privilege or immunities clause (XIV em., frase 2) e la equal protection clause (XIV em., frase 4). Tale ricostruzione gli consente di rilevare una continuità tra le aspirazioni della generazione dei founding fathers e quelle delle generazioni successive. «Accettare queste construction[s] provenienti dal passato» costituisce per lui «il miglior modo di rimanere fedele nel presente ai principi stabiliti nel testo». In altre parole, Balkin fa «appello alle risorse comuni nella tradizione costituzionale» americana e sostiene che «ciò sia il modo giusto di portare avanti il progetto costituzionale» (p. 229).

Ma qual è dunque la distinzione dell’approccio di Balkin all’uso della storia rispetto a quello dei conservative originalists? È lo stesso Autore a dirci che il materiale storico viene impiegato da lui come una «risorsa» e dagli altri come un «comando» (pp. 228-9).

Qui, però, si appuntano i primi rilievi critici, dal momento che la storia (intesa come risorsa argomentativa) non è uno strumento esclusivo dei vari originalists, ma è ampiamente impiegata anche dai non-originalists. Inoltre, la sottolineatura della dinamica tra original meaning, underlying principles e constitutional constructions quale motore del mutamento costituzionale presenta visibili punti di convergenza con le tesi di Ackerman e di Dworkin, verso i quali lo stesso Balkin riconosce un debito (maggiore verso il primo, ma è forte anche la contiguità con il secondo). Considerati entrambi gli aspetti appena messi in luce, è stato sostenuto che l’appartenenza di Balkin al gruppo degli originalists non sia né metodologicamente necessaria (così Strauss, Fleming, Baxter, in Boston University Law Review 2012, pp. 1161ss. e di Alexander, in University of Illinois Law Review 2012, pp. 611ss.) né politicamente opportuna, poiché suscettibile di compromettere l’esito delle cause progressives (cfr. Dorf, in Harvard Law Review 2012, pp. 2011ss.).

Perché allora Balkin si professa originalista? Nel rispondere a questa domanda, egli afferma di essere stato colpito dalla frequenza con cui i movimenti sociali e politici americani, anche radicali, hanno in passato invocato il testo della costituzione – breve e alla portata di tutti –. Ciò sarebbe dovuto non solo alla tradizione di common law (secondo cui i nuovi diritti emanano da antichi precedenti e consuetudini) e alla congiunta influenza di giusnaturalismo e liberalismo, ma anche a un atteggamento tipicamente «protestante» dei cittadini verso il testo scritto (p. 84 e, più diffusamente, dello stesso Autore, Constitutional Redemption. Political Faith in an Unjust World, Cambridge Mass., Harvard University Pr., 2011, cap. 8; la categoria del protestant constitutionalism è di Levinson). Il living originalism, infatti, si distingue per il forte nesso tra la “fedeltà” al testo costituzionale e la continua capacità di mobilitazione sociale e politica dei cittadini. Quest’ultimo profilo, che recepisce gli orientamenti del popular e del democratic constitutionalism (soprattutto nella versione di Post e Siegel), differenzia il modello di interpretazione costituzionale di Balkin da quelli del primo Ackerman e soprattutto di Dworkin. Il mutamento della costituzione, infatti, non è tanto il prodotto delle decisioni di giudici isolati, ma il frutto di un più profondo cambiamento nella cultura costituzionale – sul quale hanno influito le mobilitazioni della società civile –, cambiamento che a sua volta incide sulla sfera politica e sull’attività giurisprudenziale.

Emerge a questo punto il secondo aspetto problematico della tesi di Balkin: affinché venga mantenuta la “fede” nella costituzione e nei relativi impegni, occorre che i cittadini ne sviluppino continuamente il progetto. Tale progetto, però, non indica una direzione precisa. I cittadini, cioè, possono condividere o contestare determinate constructions messe in opera dagli organi politici e dai giudici. Il metodo text and principles mette a loro disposizione un linguaggio comune, da utilizzare per l’adesione così come per la critica della constitution-in-practice. L’importante è che sia preservato uno spazio per il dissenso volto a  mutare l’orientamento prevalente in un dato periodo. È tale contesa sul senso del progetto e delle promesse della costituzione che non fa venir meno l’autorità della constitution-in-practice, anche quando questa si riveli nei fatti ingiusta: nel suo ambito, infatti, devono conservarsi la possibilità di critica e di una “redenzione” della costituzione diversa e migliore di quella realizzata in concreto.

Se le premesse di Balkin sono apertamente pluralistiche, la sua ricostruzione non sembra andare esente da qualche contraddizione. Per un verso, la prospettiva è relativistica: ad esempio, i movimenti progressisti per l’eguaglianza della donna e pro-choice sono equiparati a quelli dei conservatori che invocano il diritto individuale a portare le armi, dal momento che la loro presenza nella sfera pubblica è quantitativamente analoga. In questo senso Balkin ha affermato, in un intervento più recente, che non si può stabilire dall’esterno se sia più giusto il movimento del Tea Party o quello di Occupy Wall Street.  Per l’altro verso, in alcuni passaggi del libro l’Autore si riferisce ai mutamenti costituzionali che hanno particolare «valore» per la tradizione americana e che devono essere adeguatamente compresi dalla teoria costituzionale (p. 90). Sulla stessa scia, afferma che i precedenti giudiziali devono essere conservati o superati a seconda che essi costituiscano un’implementazione ragionevole o irragionevole della costituzione (p. 121-122) – laddove il riferimento alla ragionevolezza implica un giudizio di valore, seppur nella connotazione più debole propria dell’esperienza statunitense –. Ciò, del resto, corrisponde alla concezione della costituzione non solo come basic law, ma anche come higher law e our law. Se quindi il living originalism intende travalicare la contrapposizione tra conservatori e progressisti (il conservative originalism non è altro che il living constitutionalism degli originalisti), il rapporto tra relativismo e “attaccamento” ai principi costituzionali non sembra del tutto risolto, specie se si considera l’insistente ricorso a termini dalla matrice religiosa (caduta, fede, redenzione) che implicano una dimensione valoriale (v. McClain, cit.).

In linea con le posizioni del democratic constitutionalism (v. supra) e con importanti studi sulla Corte Suprema (Dahl, Whittington, Graber, nell’ambito della scienza politica, ma anche Powe e Friedman), Balkin contesta la nota tesi di Bickel sul ruolo counter-majoritarian di quest’ultima (pp. 300ss.). Nei momenti di più significativo mutamento costituzionale, infatti, la Corte Suprema ha sostanzialmente «cooperato» con la «coalizione politica nazionale dominante», al contempo legittimando e limitando le relative constitutional constructions e «sintetizzando i nuovi valori e [le nuove] istituzioni con il passato». Per quanto non direttamemente coinvolta nelle questioni politiche quotidiane, la Corte si è rivelata responsive alle «tendenze politiche di lungo periodo», espresse dai movimenti e dai partiti politici. Più velata e problematica è la critica alla tesi di Ely. Se, infatti, la footnote 4 di Carolene Products, da questi ripresa, individuava il ruolo della Corte nel proteggere gli interessi delle discrete and insular minorities, nella ricostruzione di Balkin le minoranze sono destinate ad essere «semplicemente ignorate» finché non assumono un «peso politico» significativo.

Il volume di Balkin si presenta dunque come un testo importante e decisamente da consigliare. Il lettore europeo-continentale, peraltro, non può non avvertire l’assenza di alcuni riferimenti che ai suoi occhi appaiono fondamentali. Mi limito a suggerire quelli più immediati: il ruolo centrale della sfera pubblica nella tesi di Balkin evoca gli scritti di Habermas (richiamati invece in qualche recensione) e di Häberle (in particolare l’affermazione secondo cui le «teorie dell’interpretazione della costituzione dovrebbero prendere le mosse dall’intepretazione dei cittadini», p. 17), mentre, sulla legittimazione delle Corti, il dibattito tra Kelsen e Schmitt è ancora un passaggio obbligato (benché da noi forse un pò logoro). Ma, come è noto, analoghi rilievi sul difetto di sensibilità comparativa possono essere mossi ad altri autori statunitensi. Le ragioni sono antiche e non è questa la sede per ripercorrerle, per quanto negli ultimi anni vi siano stati segnali di una parziale controtendenza. Si nota quindi con piacere come Balkin, in una discussione recente, abbia ricordato Vico, a proposito di quel sensus communis (common sense) che rende possibile la condivisione del progetto della costituzione e rappresenta al contempo il terreno sul quale si sedimenta il mutamento costituzionale (p. 71, 306 e Id., Boston University Law Review, p. 129).


Dati relativi alle telecomunicazioni e sicurezza in una nuova pronuncia del BVerfG

Il diritto alla protezione dei dati personali, in Germania, ha assunto tratti talmente specialistici da costituire ormai una materia a sé. Nonostante la cospicua crescita del corpo normativo e la costante presenza di soluzioni che ricercano una convergenza tra diritto e tecnica per far fronte ai rischi insiti nelle tecnologie informatiche, l’inquadramento costituzionale del Datenschutz è rimasto nel tempo relativamente stabile.
Punto di riferimento imprescindibile resta ancora la sentenza sul censimento del 1983, che ha elaborato il diritto all’autodeterminazione informativa (Recht auf informationelle Selbstbestimmung: RiS), definito come il diritto di decidere da sé in merito all’uso e alla comunicazione dei propri dati personali. Il RiS è una concretizzazione del diritto generale della personalità (art. 2 comma 1 e 1 comma 1 GG); la sua centralità – e al contempo la sua residualità – non è venuta meno dopo l’individuazione del nuovo e diverso (ma secondo alcuni superfluo) “diritto alla garanzia della riservatezza e dell’integrità dei sistemi informatici” (BVerfGE 120, 274, del 27 febbraio 2008).

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Ancora sull’efficacia della CEDU nel diritto interno: il BVerfG e la “detenzione di sicurezza”

A partire dalla fine del 2009, com’è noto, la Corte costituzionale italiana ha accolto una serie di questioni in materia di diritto processuale penale alla luce della giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull’art. 6 CEDU, talora ponendo fine ad un contrasto tra i giudici di legittimità (sent. n. 317/2009, sulla restituzione del contumace nel termine di cui all’art. 175, comma 2 c.p.p., qualora l’impugnazione sia già stata proposta dal difensore d’ufficio), talaltra superando una propria pregressa giurisprudenza (sent. n. 93/2010 e 80/2011 sullo svolgimento in udienza pubblica del procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione), talaltra ancora negando efficacia preclusiva inter partes ad una propria pronuncia di rigetto emessa nello stesso grado di giudizio (sent. n. 113/2011, che fa seguito alla sent. n. 129/2008, sulla revisione/riapertura dei procedimenti penali in caso di accertamento, da parte della Corte EDU, di “prova iniqua” – si tratta del caso Dorigo).

Per contro, più rare, nel medesimo settore, sono state le decisioni del Tribunale costituzionale federale tedesco dopo la delineazione del rapporto tra ordinamento interno e CEDU avvenuta con il Gorgülü-Beschluß (BVerfGE, 111, 307, del 14 ottobre 2004): lo stesso Gorgülü-Beschluß ed il Caroline-Urteil (BVerfGE 120, 180, del 26 febbraio 2008) – i casi finora più significativi – hanno riguardato rispettivamente il diritto di famiglia e il conflitto tra libertà di opinione e privacy, ossia quelle che il BVerfG definisce “relazioni multipolari di diritti fondamentali”. Ad un primo sguardo, pertanto, la sentenza emessa dal Tribunale costituzionale federale tedesco lo scorso 4 maggio 2011 (2 BvR 2365/09; 2 BvR 740/10; 2 BvR 2333/08; 2 BvR 1152/10; 2 BvR 571/10), segnalata qui brevemente, si distingue anzitutto per l’ambito materiale investito – quello, appunto, penal-processuale – e la relativa implicazione in merito al giudizio di bilanciamento, che si svolge non già tra due diritti confliggenti, bensì tra una libertà individuale e l’interesse generale (nella fattispecie, quello alla prevenzione dei reati).

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Servizi di comunicazione e misure antiterrorismo in parziale attuazione di direttiva comunitaria: il BVerfG dichiara la nullità della conservazione “in blocco” e della trasmissione dei dati di traffico

In seguito alla proposizione di ben 34.000 ricorsi diretti, con una sentenza resa il 2 marzo 2010 (BVerfG, sentenza 2 marzo 2010, 1 BvR 256/08, 1 BvR 263/08, 1 BvR 586/08) il BVerfG ha dichiarato nulli, per violazione della libertà e segretezza delle comunicazioni (art. 10 GG), i §§ 113a, 113b della legge sulle telecomunicazioni (TKG) e 100g del codice di procedura penale (StPO), introdotti dalla legge 21 dicembre 2007 “sulla nuova regolazione della sorveglianza nelle telecomunicazioni ed altre misure istruttorie effettuate segretamente, e sull’attuazione della direttiva 2006/24/CE”.

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