La Corte costituzionale e la conservazione dello status filiationis acquisito all’estero: (molte) luci e (poche) ombre, tra verità biologica e interesse del minore

Con una decisione molto attesa - la n. 272/17 - la Corte costituzionale è intervenuta sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, sollevata dalla Corte d’Appello di Milano. Il giudice rimettente, in particolare, dubitava della legittimità costituzionale di tale disposizione, nella parte in cui non consente al giudice – in sede di decisione sull’azione di impugnazione del riconoscimento del figlio – di accogliere detta impugnazione solo ove essa sia effettivamente corrispondente all’interesse del figlio; quali parametri, venivano indicati gli artt. 2, 30, 31 e 117, comma 1 della Costituzione. La vicenda sottoposta all’esame della Corte d’appello di Milano trae origine dalla trascrizione del certificato di nascita formato all’estero, relativo alla nascita di un bambino, figlio di una coppia di cittadini italiani, i quali avevano fatto ricorso, in India, alla gestazione per altri, realizzata attraverso ovodonazione, ottenendo – ai sensi della legislazione indiana – un certificato di nascita attestante per il minore lo status di figlio di entrambi i genitori d’intenzione.
Si tratta, pertanto, di decisione relativa non alla legittimità costituzionale della gestazione per altri (rectius: del divieto di ricorrere ad essa; la stessa Corte d’Appello di Milano, pur prospettandola, aveva escluso di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 6, della legge n. 40/2004), bensì alla posizione del minore nato a seguito del ricorso a tale pratica, con particolare riguardo al suo diritto a conservare lo status di figlio del genitore d’intenzione, acquisito nello Stato di nascita in conformità alla legge del luogo: in particolare, la Corte era chiamata a chiarire se l’interesse pubblico alla corrispondenza dello status di figlio alla verità biologica (per la madre) e genetica (per il padre) – il cd. favor veritatis – possa essere bilanciato con l’interesse del minore alla conservazione dello status non corrispondente, nel caso di specie, alla verità biologica (ed in particolare, al fatto del parto).
La decisione della Corte rappresenta l’ultimo di una serie di significativi interventi che – a partire dalla seconda metà degli anni Novanta – hanno accompagnato il processo di riforma che ha investito, per effetto di interventi legislativi e di una corposa giurisprudenza di merito e legittimità, la disciplina giuridica della filiazione, culminato con il D. Lgs. n. 154/13 (che, come noto, ha introdotto nell’ordinamento il principio dell’unicità dello status di figlio, con tutta una serie di conseguenze, anche e soprattutto sul piano della disciplina delle azioni di stato). Un processo senza dubbio complesso, che ha visto il progressivo abbandono – nella costituzione dello status di figlio – della centralità del favor legitimitatis, a favore di più delicati equilibri tra il favor veritatis e la considerazione del miglior interesse del minore, declinato con riferimento alla fattispecie concretamente considerata.
Attraverso una sentenza interpretativa di rigetto, la Corte media tra i due estremi della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’automatismo legislativo e il suo mantenimento sic et simpliciter. Senza pervenire ad un giudicato di accoglimento, la Corte preferisce dunque lasciare al giudice la valutazione non solo dei termini, ma della stessa esistenza di una concorrenza – caso per caso – tra interesse del minore e favor veritatis. Pur con i limiti derivanti dall’efficacia solo inter partes del giudicato di rigetto – su tutti, il rischio che un giudice possa ritenere insussistente la concorrenza, nel caso concreto, così non tentando nemmeno il bilanciamento – si tratta di una decisione prudente, idonea ad assicurare un equilibrio tra gli interessi in gioco, curvandolo sulle concrete caratteristiche del caso. Peraltro, la ricostruzione dei termini del bilanciamento effettuata dalla Corte – ed in particolare, l’articolazione di una concezione ampia dell’identità personale del minore, atta a ricomprendervi anche il rilievo delle relazioni familiari di fatto (e di intenzione) – sembra allontanare il rischio di esclusioni a priori di una concorrenza tra favor veritatis e interesse del minore.
Assai condivisibilmente, infatti, la Corte esclude che l’“accertamento della verità biologica e genetica dell’individuo costituisca un valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da sottrarsi a qualsiasi bilanciamento” (Diritto, 4.1), pur in presenza di un “accentuato favore” dell’ordinamento per la corrispondenza tra status e “realtà della procreazione”. Tale affermazione è dedotta da una puntuale ricostruzione dell’evoluzione legislativa e della giurisprudenza che mostra come, nel nostro ordinamento, già abbia fatto ingresso da tempo un concetto di filiazione non necessariamente legato alla verità biologica o genetica ed anzi aperto alla considerazione della relazione familiare di fatto e, soprattutto, dell’intenzione e dell’assunzione di responsabilità sottesa alla costituzione del rapporto parentale. Ne consegue – afferma la Corte – che l’ordinamento già consente al giudice di valutare l’interesse del minore alla conservazione dello status, in sede di decisione ex art. 263 c.c. Tale valutazione si lega strettamente ad una declinazione per così dire aperta del concetto di identità personale del minore. Afferma infatti la Corte che la verità biologica della procreazione - sebbene costituisca una componente essenziale dell’identità personale del minore – concorre “insieme ad altre componenti, a definirne il contenuto” (Diritto, 4.1.6).
In sede di bilanciamento, inoltre, il giudice dovrà valutare – precisa la Corte – se l’interesse a far valere la verità prevalga sull’interesse del minore, anche con riferimento all’eventuale rilievo pubblicistico dell’interesse alla verità medesima. Tuttavia, è proprio sull’individuazione dei termini del bilanciamento che deve essere svolto qualche rilievo critico. Ritenuto che la regola di giudizio, in questi casi, “debba tenere conto di variabili molto più complesse della rigida alternativa vero o falso” (Diritto, 4.3), la Corte traccia alcuni caratteri del giudizio “comparativo” tra accertamento della verità e interesse del minore, individuando – quali indicatori del concorrente interesse del minore – la “durata del rapporto instauratosi col minore” e dunque la “condizione identitaria già da esso acquisita”, le modalità del concepimento e della gestazione nonché, infine, la presenza di strumenti giuridici che, in alternativa al riconoscimento (e pur instaurando un legame parentale di tipo diverso), consentano adeguata tutela al minore sotto il profilo della conservazione del rapporto con il genitore non biologico (in questo caso, con la madre di intenzione).
In disparte le considerazioni – che pure potrebbero essere svolte – sul rilievo della durata del rapporto e della sussistenza di altri strumenti giuridici per dare riconoscimento e tutela alla relazione, è in particolare il riferimento al rapporto tra valutazione dell’interesse del minore e modalità del concepimento e del parto che deve essere approfondito.
Si deve escludere, anzitutto, che la sentenza individui un vincolo biunivoco e automaticamente rilevante tra l’interesse del minore e la circostanza che questi sia venuto al mondo grazie ad una tecnica non consentita dal nostro ordinamento. In questo senso, è la Corte stessa ad escludere che – anche nei casi in cui la valutazione comparativa degli interessi sia operata direttamente dal legislatore, o viga un divieto assoluto di ricorso alla pratica procreativa in Italia (come nel caso della surrogazione di maternità) – l’interesse del minore venga automaticamente cancellato (cfr. Diritto, par. 4.2).
D’altro canto, la stessa ipotesi di un nesso tra interesse del minore alla conservazione dello status e modalità della procreazione desta notevoli perplessità: essa rischierebbe, infatti, di sovrapporre acriticamente all’interesse del minore il disfavore dell’ordinamento verso talune tecniche o pratiche di p.m.a. Come sostenuto in dottrina, invece, “nell’attuale diritto di famiglia, secondo i principi costituzionali interni ed europei ed in conformità alle regole civilistiche vigenti, l’attribuzione di stato non può essere determinata dall’esigenza di prevenire e sanzionare condotte dei genitori riprovate dall’ordinamento, ma deve invece guardare all’interesse del figlio” (così G. Ferrando, Gravidanza per altri, impugnativa del riconoscimento per difetto di veridicità e interesse del minore. Molti dubbi e poche certezze, in GenIUS, n. 2/2017, pp. 12 ss., p. 17).
Si tratta di questione non nuova, che la giurisprudenza di merito e legittimità ha più volte affrontato, anche in relazione alla valutazione della contrarietà all’ordine pubblico di status costituiti all’estero, dei quali si richiedeva la trascrizione in Italia, escludendo l’esistenza – e comunque la rilevanza – di simile nesso. Molto chiara, sul punto, Cass., sez. I civ., sent. n. 19599/16, secondo cui “non si può ricorrere alla nozione di ordine pubblico […] per giustificare discriminazioni nei confronti [del minore] a causa della scelta di coloro che lo hanno messo al mondo mediante una pratica di procreazione assistita non consentita in Italia […] Vi sarebbe altrimenti una violazione del principio di uguaglianza, intesa come pari dignità sociale di tutti i cittadini e come divieto di differenziazioni legislative basate su condizioni personali e sociali” (par. 8.3). Si ricordi, inoltre, che proprio la considerazione dell’interesse del nato aveva condotto la Corte costituzionale – nella sentenza n. 162/14 – ad interpretare gli artt. 8 e 9, comma 1 della legge n. 40/2004, ritenendoli pacificamente applicabili anche a tecniche di p.m.a. praticate all’estero (pur se non consentite dalla legge italiana), ed anzi riconoscendo in tale peculiare sfera di applicazione l’originario fondamento della ratio delle disposizioni richiamate. Si tratta, peraltro, di principi affermati anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nelle due sentenze “gemelle” Mennesson c. Francia (26.6.2014, ric. n. 65192/11) e Labassee c. Francia (26.6.2014, ric. n. 65941/1), relative proprio ad una ipotesi di diniego di trascrivere l’atto di nascita formato all’estero a seguito di ricorso alla gestazione per altri, vietata dall’ordinamento francese. Come affermato dalla Corte, gli effetti del mancato riconoscimento in Francia dello status filiationis validamente formato all’estero non riguardano solo i genitori, che abbiano scelto di fare ricorso all’estero ad una pratica di p.m.a. non consentita dall’ordinamento francese, ma anche e soprattutto i minori, il cui diritto alla vita privata – “che implica che ognuno debba poter costruire e veder riconosciuta la propria identità personale, anche sotto il profilo dello status filiationis” – risulta pertanto violato (par. 99).
L’operazione di bilanciamento dovrà essere dunque condotta considerando la fattispecie nel suo complesso, e le più recenti evoluzioni della giurisprudenza sul punto: ciò è d’altro canto coerente con lo stesso spirito della decisione della Corte, che esclude qualunque automatismo nella prevalenza di un interesse sull’altro, auspicando una attenta valutazione comparativa da parte del giudice (cfr. ancora Diritto, par. 4.3).
Qualche brevissima considerazione deve essere svolta, infine, sulla valutazione della pratica della gestazione per altri, contenuta in un inciso del par. 4.2 del Diritto, nel quale la Corte afferma – a proposito del rapporto tra rilevanza pubblica del favor veritatis e divieto di ricorso alla surrogazione di maternità (in Italia) – che la maternità surrogata “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”.
La valutazione del merito di simili affermazioni – dure, e forse poco attente alla varietà di esperienze e relazioni cui la gestazione per altri pure può dare luogo, al di là delle pure presenti e censurabili ipotesi di sfruttamento della capacità procreativa della donna (come messo in luce da una ormai cospicua pubblicistica e da importanti ricerche in ambito psicologico: v. rispettivamente S. Marchi, Mio tuo suo loro, Fandango 2017; S. Golombok, Famiglie moderne, EDRA 2016, N. Carone, In origine è il dono, il Saggiatore, 2016) – richiederebbe una più approfondita disamina, in questa sede preclusa, e relativa ad esempio, in ottica comparativa, alla pluralità di modelli di disciplina della gestazione per altri, e ai differenti livelli di tutela della libertà e della dignità dei soggetti coinvolti, ed in primo luogo della donna e del nascituro (si rinvia, sul punto, al ricco volume a cura di K. Trimmings e P. Beaumont, International surrogacy arrangements: legal regulation at the international level, Hart 2013). Merita però di essere sottolineata, nel metodo, la circostanza che la Corte interviene così in un dibattito delicato, aperto e conflittuale, quale quello sulla gestazione per altri. E lo fa con affermazioni molto nette, che vanno al di là della rilevanza del disfavore ex se desumibile dal divieto penale di ricorso alla g.p.a. di cui all’art. 12, comma 6, della legge n. 40/2004 in sede di valutazione dell’interesse del minore alla conservazione dello status, e non sembrano tenere pienamente conto – nel quadro di una sentenza per altro verso molto attenta al riconoscimento delle relazioni familiari di fatto – non solo della pluralità di modelli ed esperienze, ma anche delle diverse e complesse posizioni emerse in dottrina sul diverso grado di incidenza della pratica proprio sulla dignità della donna e sulle relazioni fondamentali sottese alla gravidanza, al parto e alla scelta di diventare genitori (e questo, sia tra i favorevoli alla pratica, se condotta nel rispetto delle parti coinvolte – come Gattuso – sia tra i contrari – come Niccolai, pp. 50 ss., laddove sembra considerare ammissibili forme di maternità solidale tra donne, pure nel quadro di una ferma condanna della surrogazione – sia tra coloro che hanno assunto una posizione intermedia, pensosa, aperta al rilievo delle diverse esperienze, come Pezzini e, con diversi accenti, Ruggeri).


Un altro piccolo passo verso il riconoscimento dell’omogenitorialità: la Corte costituzionale e la trascrizione dei provvedimenti stranieri di adozione coparentale

Sono state depositate, in data 7 aprile 2016, le motivazioni della decisione (sent. n. 76/2016) con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 35 e 36 della legge n. 184/83, in una fattispecie attinente all’efficacia interna di un provvedimento straniero di adozione reso nei confronti del partner omosessuale del genitore biologico.

Come si ricorderà, la Camera di consiglio si era tenuta il 24 febbraio 2016, in pieno dibattito parlamentare sul disegno di legge S. 2081 (unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze di fatto) ed in particolare mentre era nel vivo la discussione sullo stralcio dell’art. 5 del suddetto ddl, relativo proprio all’estensione alle parti dell’unione civile dell’istituto dell’adozione speciale di cui all’art. 44, lett. b) della legge n. 184/83 (cd. adozione del figlio del coniuge).

Le motivazioni della decisione della Corte – particolarmente attese, anche in ragione della contingenza politica – giungono dunque quando ormai il disegno di legge, pur mutilato di un elemento ritenuto da molti essenziale ad assicurare un adeguato livello di protezione della vita familiare alle coppie omosessuali ed ai loro figli, è stato approvato dal Senato e si trova all’esame della Commissione Giustizia della Camera dei deputati.

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La lotta inconclusa: il difficile cammino delle unioni civili

1. Nonostante il (momentaneo) arresto dell’iter parlamentare di approvazione – dovuto alla concomitanza con la sessione di bilancio – il disegno di legge che introduce le unioni civili tra persone dello stesso sesso continua ad essere al centro del dibattito politico e di quello scientifico. Pare allora opportuno intervenire con qualche indicazione relativa al processo di approvazione, ai contenuti del disegno di legge nonché, soprattutto, ai principali nodi problematici che esso presenta.

2. Gli antecedenti sono noti: fin dal 2010, la Corte costituzionale ha riconosciuto, con la nota sentenza n. 138, che le coppie omosessuali sono una formazione sociale nella quale l’individuo liberamente svolge la propria personalità, ai sensi dell’art. 2 Cost. e che, come tali, meritano riconoscimento giuridico e protezione, nelle forme stabilite dal legislatore. Ritenuto di non poter estendere, in via interpretativa e per mezzo di una sentenza additiva – come pure era richiesto dal rimettente – la disciplina del matrimonio alle coppie omosessuali, la Corte ha rinviato, pertanto, alla discrezionalità del legislatore la scelta in merito alla forma giuridica del riconoscimento, contestualmente formulando un monito e riservandosi di intervenire – pure in assenza di un riconoscimento legislativo – a tutela di specifiche situazioni.

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National Conversation. L’Irlanda e il matrimonio egualitario: spunti per una comparazione

Con il 62,1% dei voti favorevoli, gli elettori irlandesi hanno approvato, nel referendum del 22 maggio scorso, l’emendamento costituzionale volto ad inserire nell’art. 41 della Costituzione un paragrafo che riconosce la parità di accesso all’istituto del matrimonio per tutte le coppie, siano esse etero- od omosessuali (“Marriage may be contracted in accordance with law by two persons without distinction as to their sex”). Come conseguenza dell’approvazione dell’emendamento, si attende ora l’approvazione parlamentare di una legge sul matrimonio gender neutral, prevista entro l’autunno, con la celebrazione dei primi matrimoni già alla fine di quest’anno.

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Diversità culturali e secolarizzazione. A proposito di “Constitutional Secularism in an Age of Religious Revival” (a cura di S. Mancini e M. Rosenfeld, Oxford University Press, 2014)

Il bel volume curato da Susanna Mancini e Michel Rosenfeld (“Constitutional Secularism in an Age of Religious Revival”, Oxford University Press, 2014) offre l’occasione per riflettere sul rapporto tra evoluzione dello stato costituzionale contemporaneo e ruolo della dimensione religiosa nello spazio pubblico. Articolato in cinque sezioni, il volume unisce ad un’approfondita analisi del quadro teorico di riferimento (sezione I), l’esame di singole dimensioni del rapporto tra secolarismo e fattore religioso, quali la condizione femminile (sezione III), le sfide del costituzionalismo contemporaneo (sezione II), la libertà di espressione (sezione V); la sezione IV rovescia l’analisi, approfondendo il problema attraverso l’esame (dall’esterno) delle posizioni delle tre religioni monoteiste su alcuni profili specifici, come la disciplina del matrimonio (nell’esperienza israeliana), l’approccio al secolarismo da una posizione minoritaria (nel caso islamico) e l’uso della ragione in rapporto alla fede nel discorso pubblico (con riferimento alla Chiesa cattolica).

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Tempo da lupi per il diritto alla casa

Il 20 maggio la Camera ha approvato in via definitiva il disegno di legge di conversione del Decreto legge n. 47 del 2014, recante misure per fronteggiare l’emergenza abitativa e relative all’Expo 2015 (cd. Decreto “Lupi”).

Tra le numerose disposizioni relative all’emergenza abitativa una, in particolare, suscita l’attenzione del costituzionalista ed è stata oggetto di vivaci contestazioni da parte dei movimenti per il diritto all’abitare. Si tratta dell’oramai noto articolo 5, che prevede sanzioni particolarmente aspre per coloro che occupino abusivamente un immobile. In particolare, la norma prevede che chi occupa abusivamente un immobile non possa più richiedere la residenza e l’allacciamento ai pubblici servizi; in aggiunta si prevede, con disposizione a carattere generale introdotta dalle Camere in sede di conversione, che non si possa più chiedere l’attivazione o la volturazione di un contratto di fornitura di energia elettrica, acqua o gas senza esibire un valido titolo di possesso o detenzione dell’immobile di utenza della fornitura, anche attraverso il ricorso alla dichiarazione sostitutiva di certificazioni. Infine, sempre in sede di conversione, è stata introdotta una disposizione sanzionatoria (comma 1 bis) ai sensi della quale a chi occupa abusivamente un alloggio di edilizia residenziale pubblica è preclusa, per i cinque anni successivi all’accertamento dell’occupazione abusiva, l’assegnazione di alloggi della medesima natura.

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Indietro (non) si torna. La Corte Suprema indiana, i comportamenti sessuali “contro natura” ed il verso della comparazione

La sentenza dell’11 dicembre 2013 (ric. n. 10972/2013 et al.) – con la quale la Corte suprema indiana ha riformato il precedente della High Court di Delhi, che aveva dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 377 del Codice penale, in tema di repressione penale della sodomia e di qualunque comportamento sessuale “against the order of nature” – rappresenta, senza dubbio, un significativo arretramento nel cammino della protezione dell’orientamento sessuale come dimensione di vita e dignità costituzionalmente rilevante. Al tempo stesso, essa offre al comparatista una serie di spunti di riflessione sulle diverse virtualità dell’uso della comparazione giuridica nella giurisprudenza e, soprattutto, sul “verso” della circolazione di argomenti e precedenti. Se, infatti, il terreno dell’uso della comparazione da parte dei giudici è assai arato – anche e soprattutto con riferimento alle problematiche legate all’orientamento sessuale e, più in generale, alla sfera dell’autodeterminazione riproduttiva, affettiva e sessuale dei singoli – ancora aperta resta la riflessione sulla funzione e sul “verso” della comparazione, vale a dire sulle sue virtualità (solo) progressive – funzionali cioè all’ampliamento degli spazi di libertà e garanzia dei diritti – o (anche, almeno potenzialmente) regressive.

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I diritti degli omosessuali e la comparazione giuridica (riflettendo su La tutela della vita familiare delle coppie omosessuali nel diritto comparato, europeo e italiano, di Raffaele Torino)

Il volume di Raffaele Torino su La tutela della vita familiare delle coppie omosessuali nel diritto comparato, europeo e italiano (Torino, Giappichelli 2012) rappresenta una lettura obbligata per chiunque voglia affrontare le complesse questioni legate al riconoscimento dei diritti degli omosessuali nel nostro ordinamento.

Il libro, peraltro, si inserisce nel quadro della riflessione che l’autore conduce, ormai da anni, sul tema delle trasformazioni dei modelli familiari e che ha già prodotto scritti di rilievo (dalla monografia su Nuovi modelli familiari. Il diritto di essere genitori, Roma, Aracne 2003 fino al più recente volume, che raccoglie gli atti di un seminario animato nel giugno 2012 dallo stesso autore, su Le coppie dello stesso sesso: la prima volta in Cassazione, RomaTrE-Press, 2013).

In particolare, il volume qui recensito offre un quadro completo del dato normativo (e giurisprudenziale) offerto dall’esperienza comparata, con un panorama che spazia dalle esperienze degli stati europei che già riconoscono diritti alle coppie formate da persone dello stesso sesso, alle principali esperienze extraeuropee, per giungere all’ordinamento dell’Unione europea, alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ed infine alla problematica situazione italiana.

La prima riflessione suscitata dal volume riguarda, pertanto, le virtualità dispiegate, anche in questo ambito, dal ricorso alla comparazione giuridica, che non rappresenta soltanto un mero ausilio di carattere “preparatorio” (o de jure condendo) all’operatore giuridico interno, come pure è nella tradizione del metodo comparativo.

Se, infatti, la comparazione mantiene, almeno in parte, una importante funzione “ancillare” rispetto allo studio delle risposte a nuove istanze di giustizia, non può negarsi che, quando ad essere coinvolti siano aspetti legati alla protezione dei diritti fondamentali e, dunque, in ultima analisi, all’allargamento di spazi di libertà, il ricorso al metodo comparativo contribuisca ad arricchire in maniera decisiva i percorsi di riconoscimento di differenti itinerari di esperienza e vita e, con essi, la costruzione dei processi di integrazione della comunità politica che ruotano attorno alla Costituzione. Peraltro, quando ad essere investiti dallo sforzo comparativo sono temi di questo genere, finisce per assottigliarsi – e proprio il volume di Torino lo dimostra – gli stessi tradizionali confini tra la comparazione pubblicistica e quella privatistica, per fare spazio al gesto comparativo interpretato e vissuto, in tutta la sua complessità, come movimento di apertura all’esperienza.

Come riconosciuto dallo stesso autore in un passo del volume, infatti, uno degli aspetti fondamentali di ogni ricerca sul tema dei diritti degli omosessuali – in particolare, quando si tratti dei diritti in ambito familiare – resta la valorizzazione della “effettiva esperienza di vita” personale e familiare degli omosessuali (p. 17): solo attraverso simile valorizzazione, possiamo aggiungere, è infatti possibile ammorbidire, sulla via del riconoscimento, la rigidità di consolidati modelli di analisi degli istituti di diritto familiare, che spesso risentono di precomprensioni particolarmente sensibili agli assetti sociali tradizionali, e molto meno al rilievo di pratiche di autodeterminazione affettiva che tentano di imprimere una diversa direzione al tempo della convivenza civile e sociale. Se questo è l’obiettivo, la comparazione rappresenta un’occasione per percorrere più in profondità gli itinerari del riconoscimento: in altre parole, allargare lo sguardo verso altre esperienze giuridiche aiuta ad illuminare, su molteplici livelli, la coscienza di sé attraverso il confronto con l’altro e, soprattutto, conduce, nel nostro caso, ad una revisione critica del livello di integrazione raggiunto dall’ordinamento italiano con riferimento al tema dei diritti degli omosessuali.

Il quadro restituito dall’analisi comparativa condotta da Torino è ricco e complesso, e mostra plasticamente l’estrema varietà di soluzioni e aggiustamenti raggiunti, nel mondo, con riguardo al riconoscimento della pluralizzazione dei modelli familiari: con l’effetto, anzitutto, di sdrammatizzare e relativizzare molti dei luoghi comuni che soffocano, in Italia, il dibattito pubblico su questi temi (come, ad esempio, il presunto effetto nocivo del riconoscimento delle “altre” famiglie sulla tenuta dei modelli familiari tradizionali).

Inoltre, l’analisi condotta nel volume contribuisce ad alleggerire molte delle preoccupazioni legate alla capacità dei testi costituzionali di riconoscere ed offrire copertura a nuovi modelli familiari. In particolare, merita di essere sottolineata la lucidità con la quale l’autore afferma, in apertura del volume, che la nozione giuridica di famiglia “non è, né deve rappresentare, un dogma intoccabile, ma una formazione sociale al servizio dell’individuo”, ancorando poi tale (solidissima e pienamente condivisibile) posizione al rilievo centrale del riconoscimento giuridico dell’affettività come perno dei percorsi di libero svolgimento della personalità che fanno capo all’istituto familiare (p. 23).

Mi sembra, questo, un passaggio davvero decisivo, al momento di riflettere sulle diverse interpretazioni della garanzia costituzionale dell’istituto matrimoniale, che si lega a doppio filo alla già sottolineata rilevanza del metodo comparativo: di nuovo, la comparazione tra esperienze giuridiche si allarga alla comparazione tra i diversi approcci degli ordinamenti al riconoscimento dei percorsi di vita ed affettività degli omosessuali, invitando l’osservatore a riflettere sulla necessità di ripensare il processo di integrazione della comunità politica articolato attorno alla Costituzione a partire dalla capacità di immaginare – secondo il fondamentale insegnamento di Martha Nussbaum – la concreta situazione di vita degli omosessuali che chiedono il riconoscimento delle proprie scelte in materia affettiva e familiare. Ad uscire profondamente arricchita da questo viaggio attraverso le “altre” declinazioni del riconoscimento è, in definitiva, la stessa immagine della persona umana accolta dalla Costituzione, che può e deve allargarsi a ricomprendere – ormai senza infingimenti – anche la dimensione di esistenza rappresentata dall’orientamento omosessuale.

Attenzione alla concreta situazione di vita e interpretazione dell’istituto familiare a partire dalla persona (e non dal dogma) rappresentano dunque, come ben dimostra l’analisi di Torino, il punto di partenza irrinunciabile per riflettere sulla portata della discriminazione che continua a realizzarsi, nel nostro ordinamento, in ragione del mancato riconoscimento di diritti in ambito familiare agli omosessuali. È infatti indubbio che, una volta raggiunto l’obiettivo della libertà sessuale (almeno in ambito strettamente giuridico), la questione del riconoscimento dei diritti in ambito familiare si sposta dal piano della libertà al piano dell’eguaglianza (p. 24); ma è altrettanto vero, e non può essere dimenticato, che per la nostra Costituzione l’eguaglianza si declina anzitutto come pari dignità sociale e, di conseguenza, il principio di non discriminazione va inteso anzitutto come eguale diritto all’affermazione della propria differenza. Con riferimento al matrimonio, in particolare, la prospettiva di analisi deve rimanere salda sulla pari dignità del desiderio di famiglia e sulla conseguente portata discriminatoria della restrizione dell’accesso al matrimonio alle sole coppie formate da persone dello stesso sesso (p. 35).

Nel volume di Torino, tale prospettiva resta salda (cfr. pp. 270-271), pur nella coscienza della pluralità di soluzioni e di esperienze, così come delle questioni ancora aperte (su tutte, il rapporto tra giudice e legislatore) e dei molteplici aggiustamenti che possono eventualmente rendersi necessari, nel divenire storico e secondo la concreta articolazione del dibattito pubblico in materia, al fine di garantire l’obiettivo finale del pieno riconoscimento dell’uguale dignità dei percorsi di vita: in questa coerenza, forse, il miglior insegnamento del volume, e senz’altro la sfida che il costituzionalista è chiamato a raccogliere.


Orientamento sessuale e diritti umani: a proposito dell’ultimo libro di Chiara Vitucci

Il bel libro di Chiara Vitucci su La tutela internazionale dell’orientamento sessuale (Napoli, Jovene, 2012) si inserisce, in una prospettiva senz’altro originale, nell’ormai vivace dibattito che, anche in Italia, investe il problema del riconoscimento (e della protezione) dell’orientamento sessuale.

L’originalità dell’approccio del volume risulta da un duplice ordine di considerazioni. In primo luogo, non è usuale, almeno in Italia, che l’esame della questione avvenga dall’angolo visuale del diritto internazionale, considerato nella sua dimensione globale (e non, come avviene più di frequente, nella prospettiva del diritto sovranazionale dell’area regionale europea).

In secondo luogo, degno di nota appare l’inquadramento del "problema dell’orientamento sessuale" nell’ambito del c.d. diritto internazionale dei diritti umani: tanto più se tale inquadramento prelude al coraggioso (e assai ben documentato) tentativo di ricostruire - e, in qualche misura, giuridicamente fondare - l’esistenza di un diritto umano all’orientamento sessuale.

Ciascuno dei profili evocati rinvia, peraltro, a problemi complessi e divisioni assai marcate, che vengono affrontate dall’Autrice attraverso una ricca analisi comparativa.

Proprio il rilievo della comparazione (costituzionale) nell’itinerario del volume merita di essere sottolineato e approfondito. Il primo degli strumenti cui Chiara Vitucci ricorre nel tentativo di accertare l’emersione di un diritto umano all’orientamento sessuale è infatti proprio la comparazione tra esperienze costituzionali situate in un orizzonte geografico (e soprattutto culturale) assai vasto. L’incursione nel metodo comparativo, seppur funzionale alla ricostruzione della prassi internazionale in materia, peraltro, non è legata solo all’atteggiamento tenuto dagli stati considerati nell’ambito delle relazioni con altri stati o con le organizzazioni internazionali di cui sono parti. Tutto al contrario, la comparazione si spinge decisamente all’interno delle diverse esperienze costituzionali considerate, dando notevole risalto alle decisioni delle Corti costituzionali in materia e, più in generale, all’analisi del dato normativo (anche subcostituzionale), con particolare riferimento al trattamento penalistico dell’attività sessuale tra adulti, anche consenzienti, dello stesso sesso (maschile, nella quasi totalità dei casi).

Attraverso il ricorso al metodo comparativo, peraltro, il tema trattato acquista uno spessore del tutto nuovo, attraverso un’importante contestualizzazione dell’esperienza giuridica nel quadro dell’esperienza sociale e culturale. Da un lato, simile operazione accentua i profili di tensione e le distanze tra i diversi contesti regionali; d’altro canto, essa contribuisce a relativizzarne la portata, svelandone i condizionamenti storico-culturali e religiosi e, soprattutto, inserendoli in un processo evolutivo che faticosamente si dipana, così articolando quel "lento cammino verso la riduzione delle discriminazioni a motivo dell’orientamento sessuale" (p. XIII) che, secondo l’Autrice, rappresenta uno degli aspetti centrali della "lotta per i diritti" nel XXI secolo. Non si tratta, pertanto, di un ricorso occasionale alla comparazione, né dell’uso di essa quale mero ausilio compilativo: tutto al contrario, il metodo comparativo è maneggiato con la piena consapevolezza di chi vuole illuminare lo spessore storico e culturale delle questioni trattate, nell’ottica della sostenibilità della differenza (parafrasando il titolo di un noto volume di Glenn).

In questo senso, l’analisi comparativa svolta nella prima parte del volume descrive lo sfondo e il contesto adeguato della seconda parte del volume, dedicata - secondo canoni più classicamente internazionalistici - alla rilevanza della prassi interna alle organizzazioni internazionali (in tema di riconoscimento dello status dei partners omosessuali dei dipendenti, con il progressivo superamento del rinvio alla legislazione nazionale di ciascuno). Gli echi della sensibilità comparatistica dell’Autrice si avvertono poi molto nettamente nel capitolo dedicato alla protezione indiretta dell’orientamento sessuale nel sistema di concessione dell’asilo secondo la Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato: l’emersione della persecuzione personale in ragione del proprio orientamento sessuale come ragione sufficiente alla concessione dell’asilo sembra rappresentare, infatti, un importante profilo di tensione (nell’ottica, se si concede, di uno "smascheramento" degli stati omofobi) funzionale al progressivo approfondimento delle tutele. Molto interessante, in questo senso, l’attenzione dell’Autrice per l’evoluzione degli orientamenti della giurisprudenza e della prassi internazionale in materia, specie con riferimento all’ampliamento dei margini di concessione dell’asilo, conseguente ad un approccio all’esperienza personale particolarmente sensibile a declinazioni della dignità umana come diritto alla libera autodeterminazione (anche) affettiva, o, se si preferisce, come diritto ad essere se stessi senza dover subire condizionamenti (siano essi fisici, psichici, o morali, con particolare attenzione all’incidenza dispiegata sul godimento dei diritti umani fondamentali dalla necessità di nascondere il proprio orientamento sessuale, o dal viverlo con senso di colpa e marginalità sociale).

Il ricorso alla comparazione, come ovvio, non pregiudica la solida vocazione internazionalistica del volume (nei limiti in cui abbia ancora senso l’erezione di paratìe stagne tra materie e settori scientifici), ed anzi conferma una lunga tradizione che riconosce la vicinanza tra metodo internazionalistico e ricorso alla comparazione, tanto nella storia del diritto internazionale pubblico (e viene in mente tutta la tradizione groziana), quanto in quella del diritto internazionale privato.

Allo stesso tempo, la vocazione internazionalistica del volume convive con una sensibilità profonda per il tono costituzionale dei temi trattati, specie con riferimento al rapporto tra protezione del diritto umano all’orientamento sessuale e dimensione costituzionale della convivenza.

In particolare, vi è un tema, che percorre il volume come un filo rosso e che si pone all’attenzione del costituzionalista come stimolo all’approfondimento del problema del “trattamento costituzionale” dell’orientamento sessuale, vale a dire il rapporto – controverso e affascinante – tra eguaglianza, riconoscimento della differenza e ragionevolezza della discriminazione.

Si tratta, come mostra l’indagine comparativa che percorre la prima parte del volume, di una questione che presenta profonde implicazioni di carattere storico, religioso e culturale, affrontate con lucidità e spirito critico. Il rapporto tra diritto all’orientamento sessuale e principio di uguaglianza, infatti, pone problemi in parte inediti, e si articola secondo canoni autonomi a seconda del concreto “problema di vita” preso in esame. Da un lato, infatti, questioni come la repressione penale del comportamento omosessuale possono essere ricondotte agevolmente agli schemi argomentativi tipici del giudizio di uguaglianza (e dello scrutinio di ragionevolezza della discriminazione): in questo caso, il riconoscimento della differenza impone, sul piano costituzionale, l’uguale trattamento del comportamento sessuale tra persone di sesso diverso e dello stesso sesso, e la protezione della dignità impone – come meglio vedremo – che tale trattamento  non possa consistere nell’introduzione di dispositivi di repressione.

D’altro canto, il ricorso ai canoni classici del giudizio di uguaglianza pone problemi peculiari nel caso dell’estensione agli omosessuali dei diritti in ambito familiare, come il diritto a vedere riconosciuta l’unione affettiva tra persone dello stesso sesso anche nelle forme del matrimonio. Con riferimento a tale diritto, in particolare, vi è ancora chi si chiede – e, di nuovo, tale aspetto del dibattito è illuminato nelle sue più profonde radici culturali proprio dall’analisi comparativa che “guida” l’itinerario di tutto il volume – se, in questo caso, il riconoscimento costituzionale della differenza imponga – secondo canoni di ragionevolezza – un diverso trattamento delle coppie omosessuali e di quelle eterosessuali. Si tratta, come evidente, di un problema aperto, ed il relativo dibattito assume diversa intensità nelle varie esperienze costituzionali. Si pensi, solo per fare alcuni esempi, alla recente – importantissima – sentenza del Tribunale costituzionale spagnolo (la n. 196/12) che ha riconosciuto la legittimità costituzionale dell’estensione legislativa dell’accesso all’istituto matrimoniale per le coppie formate da persone dello stesso sesso, combinando in un modo per più aspetti originale giudizio di uguaglianza, interpretazione evolutiva delle garanzie di istituto e garanzia costituzionale della dignità della persona; o si pensi ancora alla recente decisione della Corte suprema degli Stati Uniti, che ha deciso di prendere in esame due casi (Hollingsworth v. Perry e United States v. Edith Windsor, su cui si veda il post dell’11 dicembre scorso) relativi alla legittimità costituzionale del divieto di estensione – anche a livello federale - dell’istituto matrimoniale alle persone dello stesso sesso.

La posizione dell’Autrice sul rapporto tra orientamento sessuale e principio di uguaglianza si sviluppa, con lucida consapevolezza, lungo tutto il corso del volume, con un ancoraggio forte dell’analisi alla protezione della dignità umana. Se non andiamo errati, infatti, il punto di incontro tra eguaglianza, riconoscimento della differenza e “trattamento costituzionale” dell’orientamento sessuale è rappresentato proprio dalla protezione della dignità della persona, intesa come libertà di autodeterminazione, garanzia dell’autonomo perseguimento dei propri piani di vita (p. 65), diritto di essere se stessi e di costruire la propria esistenza senza essere per questo assoggettati a dispositivi di oppressione e discriminazione che, generando timore e perdita di autostima, impediscono la piena realizzazione di quegli stessi percorsi di libertà. L’individuazione e la stessa costruzione giuridica di un diritto umano all’orientamento sessuale appaiono dunque strettamente legate alla protezione della dignità umana, nella misura in cui l’orientamento sessuale venga riconosciuto quale componente fondamentale ed irrinunciabile della stessa identità della persona, e assunto dalla Costituzione come oggetto e compito di protezione: in tale ottica, il riferimento alla dignità illumina in profondità lo stesso scrutinio di ragionevolezza delle discriminazioni, rappresentando un punto di equilibrio e uno snodo fondamentale del bilanciamento tra uguaglianza e riconoscimento della differenza.

Proprio per questo, il volume di Chiara Vitucci si impone ai costituzionalisti-comparatisti come occasione di riflessione ed ulteriore approfondimento di questioni che si pongono al crocevia del rapporto tra costituzionalismo, gestione del pluralismo, protezione dei diritti fondamentali e costruzione della convivenza attraverso il superamento e l’inclusione di ogni area di marginalità.


Same-sex marriage: verso un intervento della Corte Suprema.

Con ordinanza del 7 dicembre 2012, la Corte suprema ha accettato di trattare due writs of certiorari sollevati nell’ambito di due casi molto noti all’opinione pubblica statunitense.
Si tratta, in particolare, del caso Hollingsworth v. Perry, relativo alla c.d. Proposition 8 – l’emendamento alla Costituzione della California, approvato per via referendaria nel novembre del 2008 al fine di porre nel nulla la decisione della Corte suprema della California che aveva introdotto il matrimonio tra persone dello stesso sesso – e del caso United States v. Edith Windsor, che chiama in causa direttamente il Defense of Marriage Act 1996 (d’ora in poi DOMA 1996), la legge federale che, come noto, ha vincolato la definizione federale di matrimonio al paradigma eterosessuale, escludendo in particolare la possibilità che gli Stati vengano obbligati a riconoscere le unioni omosessuali contratte – anche in forma matrimoniale – in altri Stati dell’Unione.
Nel caso Hollingsworth v. Perry viene richiesto alla Corte suprema di pronunciarsi sulla compatibilità con la Costituzione statunitense del divieto di istituire il same sex marriage contenuto nella Prop. 8. Va segnalato, peraltro, che la Proposition 8 è già stata dichiarata contraria alla Costituzione degli Stati Uniti, nel febbraio scorso, dalla Ninth Circuit Court of Appeals della California, sempre nel caso di Hollingsworth v. Perry. L’attuale certiorari viene richiesto dai firmatari della Proposition 8 proprio a seguito della pronuncia del febbraio scorso, al fine di provocarne il superamento da parte della Corte suprema. Si tratta, come evidente, di un caso che, pur strettamente legato al dibattito politico californiano, ha una proiezione federale, nella misura in cui una censura del divieto vigente in California finirebbe per dispiegare i propri effetti anche sugli analoghi divieti vigenti in altri Stati dell’Unione.
Più complesso il caso US v. Edith Windsor, che investe direttamente il DOMA 1996. La Windsor, 83 anni, nel 2007 aveva contratto matrimonio in Canada con la sua compagna, e il legame era stato riconosciuto dallo Stato di New York: sulla base del DOMA 1996, tuttavia, gli effetti del riconoscimento erano limitati allo Stato e non si estendevano ai rapporti di diritto federale, compresi quelli di natura fiscale. Alla morte della moglie, la Windsor si trovò dunque a dover corrispondere al governo federale la somma di 363.000 dollari di tasse sull’eredità della consorte, che non sarebbero state dovute qualora il matrimonio fosse stato contratto tra persone di sesso diverso e non fosse esistita la previsione del DOMA 1996, che impedisce al Governo federale di riconoscere effetto ai matrimoni same sex celebrati o riconosciuti a livello statale. Contro tale esito discriminatorio si appuntano le censure della Windsor, che punta a veder riconosciuta dalla Corte Suprema l’incostituzionalità del DOMA 1996.
La decisione della Corte Suprema di esaminare i due writs è senz’altro rilevante, e potrebbe preludere ad una svolta storica per i diritti degli omosessuali, in primo luogo negli Stati Uniti, ma senza dubbio con un notevole impatto anche al di fuori dei confini statunitensi. Non sembra casuale, pertanto, la scelta del momento. La rielezione di Barack Obama alla presidenza ha infatti accentuato la fragilità del DOMA 1996, nei confronti del quale il Presidente non ha mai nascosto il suo profondo scetticismo, pronunciandosi apertamente a favore del riconoscimento del diritto al matrimonio per le persone omosessuali. D’altro canto, non si deve dimenticare che, a seguito degli ultimi referendum statali, celebrati in concomitanza con le elezioni presidenziali dello scorso novembre, è ulteriormente aumentato il numero degli Stati che riconoscono il matrimonio tra persone dello stesso sesso: tale fattore, oltre a rivelare un mutamento profondo negli orientamenti dell’opinione pubblica sul tema, rischia di mettere ulteriormente in crisi il divieto di riconoscimento di cui al DOMA 1996. Quest’ultimo, nella misura in cui incide su un numero crescente di situazioni personali e, soprattutto, di realtà statali, mostra in misura sempre maggiore i suoi profili di debolezza, con riguardo alla certezza dei rapporti – anche economici, lo dimostra il caso di Edith Windsor – nonché, più in generale, con riferimento alla negazione “federale” della rilevanza giuridica di una dimensione di vita e libertà ormai accettata in un gran numero di Stati. Indipendentemente dagli esiti dell’intervento della Corte suprema, non si può non notare con favore che, ancora una volta, da Washington passerà una tappa fondamentale della lotta per i diritti civili nel XXI secolo, sul crinale del rapporto tra autorità e libertà, sulla strada del pieno riconoscimento del diritto ad essere se stessi ed a vivere in condizioni di uguaglianza esperienze di vita e affetto essenziali alla realizzazione della personalità.