La Corte aziona l’arma dei “controlimiti” e, facendo un uso alquanto singolare delle categorie processuali, sbarra le porte all’ingresso in ambito in-terno di norma internazionale consuetudinaria (a margine di Corte cost. n. 238 del 2014)*

* In Consulta OnLine, 17 novembre 2014.

Sommario: 1. La stranezza costituita da un sindacato di costituzionalità che si appunta su una norma (di adattamento) che… non c’è, la qual cosa avrebbe dovuto piuttosto portare a dichiarare inammissibile, e non già infondata, la questione, rimettendo la verifica della incompatibilità tra norma internazionale consuetudinaria e Costituzione al giudice comune. – 2.Il disinvolto abbandono del precedente del ’79, con cui si dava ad intendere che il sindacato di costituzionalità può aver luogo sulle sole consuetudini internazionali posteriori all’entrata in vigore della Costituzione. – 3. Il riconoscimento, operato dalla Corte, del carattere intangibile dei “controlimiti” e la tesi invece qui nuovamente patrocinata secondo cui norme esterne e norme interne, pur se espressive di principi fondamentali, possono partecipare ad operazioni di bilanciamento secondo valore, in vista dell’affermazione della Costituzione come “sistema”. – 4. La conferma, venuta dalla odierna vicenda, della tendenza della giurisdizione a presentarsi, in alcune delle sue più salienti manifestazioni, quale giurisdizione per risultati e il timore che, alla fin fine, i diritti costituzionali restino sguarniti di tutela, ineffettivi.

1. La stranezza costituita da un sindacato di costituzionalità che si appunta su una norma (di adattamento) che… non c’è, la qual cosa avrebbe dovuto piuttosto portare a dichiarare inammissibile, e non già infondata, la questione, rimettendo la verifica della incompatibilità tra norma internazionale consuetudinaria e Costituzione al giudice comune

Finalmente giustizia è fatta per le vittime dei crimini nazisti! Ma, è giustizia effettiva, che dà vero ristoro a coloro che hanno patito sofferenze indicibili durante la seconda grande guerra?

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Noterelle in tema di affido di minori a coppie di omosessuali

Sommario: 1. Le strutturali carenze della legislazione a riguardo di molte delle questioni eticamente sensibili, l’innaturale “supplenza” alla quale sono di conseguenza assai spesso chiamati i giudici e il bisogno di uno sforzo congiunto da tutti gli operatori prodotto, in spirito di “leale cooperazione”, in vista dell’appagamento di alcuni tra i diritti più diffusamente ed intensamente avvertiti. – 2. L’esclusione, in base ad un’interpretazione meramente letterale del dato legislativo, delle coppie omosessuali quali possibili destinatarie dell’affido e la riconsiderazione di quest’esito in prospettiva assiologicamente orientata (e, segnatamente, alla luce del principio del preminente interesse del minore), dovendosi nondimeno previamente stabilire se l’interesse stesso possa precedere e determinare la cerchia dei soggetti potenzialmente idonei all’affido ovvero se debba seguire a siffatta definizione entrando in campo unicamente dopo che si sia stabilito quali siano tali soggetti. – 3. La connotazione complessivamente tipica dell’affido, l’adattamento interpretativo da essa sollecitata della nozione costituzionale di “famiglia”, il possibile affidamento del minore anche a coppie del medesimo orientamento sessuale, laddove ciò sia consigliato in vista dell’ottimale appagamento del suo preminente interesse. – 4. Il cerchio si chiude (una succinta notazione finale).

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Ancora una decisione d’incostituzionalità accertata ma non dichiarata (nota minima a Corte cost. n. 279 del 2013, in tema di sovraffollamento carcerario)

Una limpida testimonianza di fecondo “dialogo” tra Corte EDU e Corte costituzionale appare essere la pronunzia cui si dirigono queste succinte notazioni. Nessuna divergenza sostanziale di punti di vista è dato registrare tra i due giudici, a riprova del fatto che Convenzione e Costituzione possono andare a braccetto e di pari passo offrire tutela ad alcuni tra i più pressanti bisogni elementari degli esseri umani (qui, soggetti particolarmente esposti, quali appunto sono i detenuti). Peccato che l’ammissione del torto subito, in un bene indisponibile qual è la dignità, non si accompagni al giusto, doveroso ristoro; e questo per la ragione – ci viene detto oggi dalla Consulta – che molti possono essere i modi coi quali ripristinare il rispetto della legalità costituzionale violata e, con esso, delle persone sottoposte a restrizione della libertà personale, un rispetto sistematicamente venuto meno per effetto di una situazione di sovraffollamento carcerario non oltre modo tollerabile. La Corte, nondimeno, non si limita a dichiarare l’inammissibilità della questione, così come – volendo – avrebbe potuto fare, ma si fa premura di elencare, sia pure in via meramente esemplificativa, quali rimedi potrebbero essere introdotti al fine di porre termine ad un fenomeno universalmente deprecato (o, quanto meno – dovrebbe forse, con maggiore cautela, dirsi – di arginarlo in una certa, non disprezzabile misura). Tra i quali rimedi va invero annoverato anche quello della sospensione della esecuzione della pena auspicato dalle autorità remittenti, visto però quale extrema ratio; e ciò, per la ragione che l’obiettivo di non imporre ai detenuti trattamenti disumani e degradanti va raggiunto congiuntamente all’altro di non pregiudicare la finalità rieducativa della pena. Solo che, stante la pluralità delle soluzioni praticabili, si rivelano per ciò solo non fattibili le classiche, di crisafulliana memoria, “rime obbligate”. Di qui l’impossibilità di dare il “seguito” auspicato alle istanze rappresentate negli atti di rimessione. Insomma, come si segnala nel titolo posto in testa a queste note, una illegittimità costituzionale che è, sì, accertata ma che non può esser dichiarata.

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“Dialogo” tra le Corti e tecniche decisorie, a tutela dei diritti fondamentali*

Sommario: 1. La opzione qui fatta per una delimitazione del campo di studio, ristretto alle sole tecniche decisorie di cui si avvale la giurisprudenza costituzionale sul versante dei rapporti tra diritto interno e CEDU, e le ragioni che vi stanno alla base. – 2.L’osservazione delle relazioni interordinamentali al piano (e con gli strumenti) della teoria dell’interpretazione, e gli esiti a questo (e tramite quelli) conseguibili, diversamente dagli esiti cui fa pervenire la teoria delle fonti. – 3. La tecnica decisoria secondo cui l’osservanza del diritto convenzionale va ristretta alla sola “sostanza” degli indirizzi interpretativi invalsi a Strasburgo, la ragione che la giustifica, gli effetti che potrebbero aversene ove dovesse farsene un uso non vigilato. – 4. La tecnica decisoria che induce alla ricerca della norma (o del sistema di norme) da cui discenda la più “intensa” tutela dei diritti in gioco e, più in genere, degli interessi bisognosi di giuridica protezione, e la conferma del carattere estremamente mobile e fluido delle relazioni interordinamentali che possono aversi per effetto della sua applicazione, in modi peraltro non coincidenti a seconda del contesto in cui l’applicazione stessa si abbia e dell’operatore che vi faccia luogo. – 5. Se il giudice costituzionale sia il solo chiamato a stabilire dove si situi la più “intensa” tutela ai diritti ovvero se di ciò possano (o, ancora, debbano) farsi carico, il più delle volte, i giudici comuni, muovendo dall’assunto che la “graduatoria” delle tutele non implica di necessità un’antinomia tra le norme (convenzionali e interne) che la danno. – 6.Due succinte notazioni al piano della teoria della Costituzione e della teoria delle relazioni interordinamentali, e le loro possibili implicazioni nella pratica giuridica. – 7. Legislatore e giudici uniti nel servizio da apprestare ai diritti.

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Riforma costituzionale ed autonomia regionale, dal punto di vista della tutela dei diritti fondamentali (profili problematici)*

Sommario: 1. Quale il fine e quale il criterio alla cui luce può essere vagliata la progettazione in corso delle riforme della Costituzione? Il valore di unità-autonomia, nel suo fare “sistema” coi valori fondamentali restanti, quale parametro delle proposte di riforma e la verifica della rispondenza delle seconde al primo col metro della ragionevolezza. – 2. La doppia “anima” della progettazione in cantiere, l’una volta al riaccentramento di materie e funzioni e l’altra alla pur parziale promozione dell’autonomia. – 2.1.Le (non rosee) prospettive che si prefigurano per la specialità e la (inopinata) rimozione del modulo di “specializzazione” dell’autonomia previsto dall’art. 116, ult. c., con la conseguente, negativa incidenza che potrebbe aversene a carico dei diritti fondamentali. – 2.2. L’endemico disordine delle fonti, con specifico riguardo ai rapporti tra le leggi di Stato e Regione, oscillanti tra il modello della separazione e quello della integrazione delle competenze, e il bisogno di fare finalmente chiarezza nella Carta novellata per ciò che attiene alla operatività dei criteri che presiedono alla composizione delle fonti in sistema. – 2.3. Il bisogno di taluni corposi aggiustamenti nei meccanismi di garanzia, segnatamente per ciò che attiene ai controlli sulle leggi di Stato e Regione, all’insegna del principio della “parità delle armi”, e i riflessi che potrebbero aversene nei riguardi del sistema di sindacato in via incidentale (e, perciò, sui diritti fondamentali). – 2.4. La mancata ricerca di soluzioni organizzative originali in ambito regionale, in vista di un adeguato servizio da apprestare ai diritti fondamentali. – 3. Il ritorno al centro di alcune materie, dapprima demandate alla disciplina regionale, e la previsione, in termini sommamente ambigui e preoccupanti, della clausola di supremazia, che potrebbe dar modo di attrarre, in buona sostanza, all’area di competenza dello Stato tutto quanto attiene alla cura dei diritti fondamentali. – 4. Le novità riguardanti la seconda Camera, tanto per ciò che concerne la sua struttura quanto in merito alle funzioni ad essa spettanti ed alla sua relazione (non… fiduciaria) col Governo, e la possibile ricaduta che può aversene al piano della salvaguardia dei diritti fondamentali. – 5. I (mancati) rapporti delle Regioni con l’Unione europea ed in seno alla Comunità internazionale e il bisogno, di cruciale rilievo, di far luogo ad una loro nuova e temporis ratione aggiornata disciplina nella Carta costituzionale, al servizio dei diritti fondamentali.

 

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A proposito dell’ordine giusto col quale vanno esaminate le questioni di costituzionalità e le questioni di “comunitarietà” congiuntamente proposte in via d’azione (a prima lettura di Corte cost. n. 245 del 2013)

Sommario: 1. La soluzione fatta propria dal giudice delle leggi, il carattere perentorio dell’affermazione che la sostiene, il suo non tener conto dell’attitudine delle norme dell’Unione a derogare allo stesso riparto costituzionale delle competenze tra le leggi di Stato e Regione. – 2. La distinzione tra i ricorsi presentati dallo Stato e quelli delle Regioni e i riflessi che possono aversene in merito all’esame delle questioni “complesse”. – 3. Certezza del diritto, a salvaguardia della primauté del diritto sovranazionale, ed opportunità che si faccia comunque luogo all’esame delle questioni di “comunitarietà”. – 4. Una duplice notazione finale, con riguardo alle peculiari movenze della tecnica dell’assorbimento dei vizi nelle sue possibili applicazioni alle questioni “complesse” ed all’uso discontinuo e scarsamente motivato degli strumenti processuali.

 

 1.La soluzione fatta propria dal giudice delle leggi, il carattere perentorio dell’affermazione che la sostiene, il suo non tener conto dell’attitudine delle norme dell’Unione a derogare allo stesso riparto costituzionale delle competenze tra le leggi di Stato e Regione

Non nuova l’affermazione di sfuggita fatta nella decisione che ora rapidamente si annota, ripresa da anteriori decisioni espressamente richiamate (e, segnatamente, dalle sentt. nn. 120 e 127 del 2010), secondo cui in caso di questioni di costituzionalità “complesse”, nelle quali sia a un tempo denunziata la violazione del riparto costituzionale delle competenze tra le leggi di Stato e Regione e quella del diritto “comunitario” (o, piace a me dire, “eurounitario”), alla prima lagnanza debba essere comunque data la precedenza rispetto alla seconda. Trattasi di un indirizzo relativamente recente, che ha la sua prima e più decisa affermazione nella sent. n. 368 del 2008[1], in rottura rispetto a precedenti pronunzie (tra le quali, la n. 406 del 2005[2]) nelle quali siffatto ordine di priorità non era rigidamente fissato e si era piuttosto fatto più volte luogo all’esame della questione di “comunitarietà” con precedenza rispetto a quella concernente l’osservanza dell’ordine interno delle competenze[3].
Colpisce il carattere perentorio dell’affermazione fatta dalla Corte nella sentenza cui si dirige questo breve commento, tanto più se la si pone a raffronto con quanto è detto in altre pronunzie, relative ai campi più varî di esperienza, nelle quali il giudice delle leggi ha lasciato chiaramente ad intendere di volersi tenere le mani libere circa l’ordine con cui far luogo all’esame delle plurime questioni presentate in uno stesso atto di ricorso.
Ma, qual è la ratio del nuovo indirizzo e cosa esso non dice e però potrebbe far capire di voler dire?
Comincio da quest’ultimo punto. Si potrebbe invero pensare che il presupposto non esplicitato dell’ordine di priorità sopra indicato sia dato dalla inidoneità del diritto sovranazionale ad alterare l’assetto costituzionale delle competenze, al punto che la verifica circa la effettiva osservanza di quest’ultimo richieda comunque di esser fatta, e di esser fatta appunto con precedenza su ogni altra. Se, di contro, si ammette – così come, invero, usualmente si ammette (anche da parte della Consulta…) – che il diritto “eurounitario” sia in grado di esprimere una forza normativa “paracostituzionale” (o costituzionale tout court), tale da potersi, se del caso, dirigere avverso lo stesso riparto costituzionale delle competenze[4], la conclusione parrebbe dover essere esattamente rovesciata rispetto a quella cui la Corte oggi perviene, il riscontro della osservanza del diritto dell’Unione dovendo precedere quello della osservanza del riparto medesimo.
Ora, quanto al presupposto sopra indicato, ammesso pure (ma non concesso) che esso si abbia, ugualmente non si vede perché mai debba in ogni caso tenersi fermo l’ordine di priorità voluto dalla Corte. Il rispetto della Costituzione (in ogni norma diversa da quelle degli artt. 11 e 117, I c.) sarebbe infatti da tenere separato dal rispetto del diritto “eurounitario”, così come – ma il punto ora non è di specifico interesse per questo studio – dal rispetto del diritto internazionale in genere[5]. E, trattandosi in tesi di parametri – per dir così – “indipendenti” l’uno dall’altro, non si vede perché mai debba comunque darsi per sistema la precedenza all’uno in rapporto agli altri.
Se ci si pensa, poi, anche poi a stare al secondo ordine di idee, quello ormai affermatosi, secondo cui il diritto sovranazionale può far luogo a legittime alterazioni del quadro costituzionale, ugualmente l’esame delle questioni riguardanti l’osservanza del diritto stesso non dovrebbe in ogni caso precedere quello della osservanza del riparto costituzionale delle competenze tra Stato e Regioni. E ciò, per la ovvia considerazione che le alterazioni suddette restano pur sempre un fatto assolutamente eccezionale, di cui si ha – come si sa – riscontro unicamente laddove la disciplina dell’Unione individui il livello istituzionale al quale deve aver luogo l’attuazione della disciplina stessa. Una evenienza, come si sa, già verificatasi ma, appunto, in via eccezionale[6].
Sta, insomma, al giudice delle leggi decidere di volta in volta quale sia il modo più conveniente di risolvere questioni “complesse”, nel senso qui indicato. Avendo sentore della possibile deroga al quadro costituzionale delle competenze da parte del diritto “eurounitario”, gli converrà far subito luogo all’esame della questione di “comunitarietà” con precedenza rispetto ad ogni altra; in caso contrario, potrà, volendo, ugualmente far luogo all’esame di tale questione in via prioritaria, così come, però, regolarsi diversamente.

 

2.La distinzione tra i ricorsi presentati dallo Stato e quelli delle Regioni e i riflessi che possono aversene in merito all’esame delle questioni “complesse”

A ben vedere, tuttavia, non è che il giudice delle leggi abbia davvero sempre – come a prima impressione parrebbe – le mani totalmente libere circa la scelta dell’ordine giusto col quale far luogo allo scrutinio della costituzionalità (in senso largo, comprensivo della “comunitarietà”) delle norme oggetto di ricorso.
Va infatti distinto il caso di ricorso presentato dallo Stato da quello presentato dalla Regione[7]. Dal momento che quest’ultima, a stare alla giurisprudenza ormai invalsa[8], è abilitata a rivolgersi alla Corte unicamente a presidio della propria sfera di competenze e può dunque far riferimento a parametri costituzionali diversi da quelli relativi al riparto delle competenze stesse alla sola condizione che se ne abbia comunque l’incidenza a carico di quest’ultimo[9], se ne ha che, in caso di questioni “complesse” (nel senso sopra detto) proposte dalla Regione, l’esame non può che riguardare, a un tempo, la questione di “comunitarietà” e quella di costituzionalità (stricto sensu).
Quanto poi ai ricorsi presentati dallo Stato, possono darsi due evenienze. La prima è sostanzialmente coincidente rispetto a quella da ultimo presa in considerazione (e coincidente è dunque la relativa soluzione), l’invasione della competenza statale risultando per il fatto stesso della violazione del diritto dell’Unione. La seconda è che la violazione dell’un parametro costituzionale sia un fatto del tutto indipendente da quella dell’altro[10]; ed allora, come si faceva poc’anzi osservare, il giudice potrebbe scegliere a quale delle due questioni dare la precedenza rispetto all’altra, segnatamente in applicazione del criterio della maggiore aspettativa di possibile caducazione[11].
Questa, in via di principio, parrebbe essere la soluzione giuridicamente più lineare; ma, è anche la più conveniente?

 

3.Certezza del diritto, a salvaguardia della primauté del diritto sovranazionale, ed opportunità che si faccia comunque luogo all’esame delle questioni di “comunitarietà”

E, invero, se si riconsidera la vicenda ora fatta oggetto di rapido studio in prospettiva assiologicamente orientata, parrebbero aversi ulteriori argomenti a sostegno dell’idea che giovi comunque prendere in esame le questioni di “comunitarietà”, non importa se con precedenza rispetto a quelle di costituzionalità (in ristretta accezione) ovvero congiuntamente e persino posteriormente ad esse.
Mi riferisco, in particolare, al rilievo assegnato dalla stessa giurisprudenza al valore della certezza del diritto, nelle sue peculiari espressioni al piano dei rapporti tra diritto sovranazionale e diritto interno.
Come si sa, è proprio in ragione del valore suddetto che il giudice delle leggi ha ritenuto, ormai quasi vent’anni addietro, di spianare la via ai ricorsi in via principale avverso leggi sospette di contraddire norme (ieri comunitarie ed oggi) “eurounitarie”, persino laddove queste ultime dovessero apparire suscettibili d’immediata applicazione. E l’ha fatto espressamente rammentando l’impegno assunto in sede “comunitaria” a rimuovere alla radice e con effetti erga omnes ogni norma interna lesiva del diritto sovranazionale. Il giudice costituzionale ha, insomma, mostrato di condividere la preoccupazione nutrita in ambiente “eurounitario” circa possibili, ancorché circoscritte, violazioni del diritto sovranazionale, suscettibili di sfuggire al pur oculato controllo svolto dagli operatori nazionali (e, segnatamente, dai giudici comuni).
Ora, non è di qui ragionare dell’interna coerenza di un siffatto modo di vedere le cose che – come si vede – parrebbe portare diritto ad ammettere che il meccanismo di ripianamento delle antinomie tra diritto interno e diritto sovranazionale imperniato sulla “non applicazione” del primo accompagnata dalla contestuale applicazione del secondo risulti essere pur sempre carente o, diciamo pure, “rischioso” e – a ragionare in quest’ordine di idee – presenti, a quanto pare, minori vantaggi del sindacato accentrato svolto dal giudice costituzionale, il solo abilitato ad estirpare le norme interne “malate” sin dalle radici, una volta per tutte e con effetti generali[12].
Sta di fatto che – come si diceva – la sola giustificazione possibile a sostegno della impugnazione in via principale delle leggi sospette d’incompatibilità con norme sovranazionali self-executing è quella che fa appunto appello al valore della certezza, nel suo porsi al servizio della primauté del diritto dell’Unione.
Così stando le cose, a me pare che della verifica della compatibilità delle leggi rispetto ai parametri “comunitari” convenga non fare comunque a meno; e ciò persino nel caso che l’esame della questione di “costituzionalità” (nella ristretta accezione sopra indicata) dovesse essere accolta e si possa perciò – volendo – far luogo alla tecnica di assorbimento dei vizi, della quale nondimeno – come si sa – non si ha sempre utilizzo, pur in presenza di vizi già accertati in capo alla norma oggetto di sindacato[13].
La ragione è presto spiegata; ed è che non può escludersi in partenza l’eventualità che la medesima norma risulti prodotta tanto da una legge statale quanto da una regionale e – ciò che, forse, ancora più importa – da più leggi regionali, alle quali il Governo non di rado (e sia pure discutibilmente) riserva un diverso trattamento in sede di controllo; ed allora se – com’è ovvio – non è indifferente il fatto che la produzione stessa avvenga nel rispetto del riparto costituzionale delle competenze (da parte, cioè, della sola legge a ciò abilitata), resta pur sempre di cruciale rilievo accertare che la norma stessa (non la fonte[14]) sia appieno rispettosa del diritto sovranazionale[15]. La Corte, in tal modo, renderebbe un servizio prezioso agli operatori (e, segnatamente, ai giudici comuni), in sede di eventuale, ulteriore vaglio della medesima questione di “comunitarietà” che, a seguito del giudizio conclusosi presso la Consulta, dovesse essere posta agli operatori stessi[16].

 

4.Una duplice notazione finale, con riguardo alle peculiari movenze della tecnica dell’assorbimento dei vizi nelle sue possibili applicazioni alle questioni “complesse” ed all’uso discontinuo e scarsamente motivato degli strumenti processuali

Una duplice, succinta notazione finale.
La prima. Le questioni di costituzionalità (in larga accezione) sono pur sempre – come si sa “tagliate” in un certo modo, in ragione del parametro evocato in campo, dell’oggetto del giudizio, dei vizi denunziati e di quant’altro ne dà la conformazione complessiva. Se viene lamentata la mera invasione della sfera di competenze del ricorrente, nulla – com’è chiaro – è richiesto alla Corte di dire sulla medesima norma di legge in relazione a parametri diversi da quello che ha riguardo al riparto costituzionale delle competenze stesse. Se però viene contemporaneamente denunziata anche la violazione del diritto sovranazionale è quanto meno opportuno, laddove pure non si reputi giuridicamente imposto, estendere il sindacato alla questione di “comunitarietà”. È vero che – come si è venuti dicendo – la tecnica dell’assorbimento dei vizi ha qui pure modo di spiegarsi con ampiezza di raggio ed incisività d’intervento; forse, però, nello specifico ambito di esperienza al quale prendono corpo le relazioni interordinamentali (e, segnatamente, col diritto dell’Unione), è doveroso ammettere che essa si esprima con peculiarità di movenze e risulti pertanto sollecitata a non trascurare in ogni caso l’esame delle questioni di “comunitarietà”. È così, infatti, che il giudice delle leggi può, a un tempo, offrire al meglio un servizio agli operatori di diritto interno e prestare il suo fattivo concorso all’integrazione sovranazionale ormai avanzata, tanto più nella presente stagione in cui, recependo una sollecitazione vigorosamente avanzata da numerosa dottrina, ha finalmente dato mostra di voler “dialogare” in prima persona col giudice dell’Unione avvalendosi dello strumento del rinvio pregiudiziale anche in giudizi diversi da quelli promossi in via d’azione[17].
Il secondo rilievo, che riguarda anche (ma non solo) questo caso, si riferisce alla sensazione di disagio che, ad esser franco, avverto ogni volta che assisto a bruschi cambiamenti di rotta nella giurisprudenza costituzionale su questioni relative a norme sulla normazione e a strumenti processuali.
Nel caso, appena richiamato, del ricorso in via pregiudiziale al giudice dell’Unione bene ha fatto, ad opinione mia e di molti altri studiosi, il giudice costituzionale ad innovare al proprio precedente orientamento; proprio però perché si era al riguardo in precedenza manifestata una secca chiusura al “dialogo” con la Corte dell’Unione, perlomeno un supplemento di ulteriore argomentazione a sostegno del nuovo ed opposto avviso sarebbe stato assolutamente necessario[18].
Così pure nel caso che ha dato lo spunto per questa succinta riflessione, laddove il mutamento d’indirizzo registratosi nel 2008 e qui risolutamente confermato non appare sorretto da un adeguato apparato di argomenti che ne diano la giustificazione.
Non si sta ora a dire a quali condizioni ed entro quali limiti possa aversi un mutamento d’indirizzo giurisprudenziale; è tuttavia fin troppo evidente e in modo insistito fatto notare dalla più sensibile dottrina che la Corte non può farvi luogo senza enunciare le ragioni che la inducano ad innovare rispetto a se stessa. Come potrà altrimenti sottrarsi alla critica di fare un uso autoritativo dei poteri di cui dispone al servizio della legalità costituzionale?

[1] In Giur. cost., 6/2008, con nota di M.P. Iadicicco, Violazione del riparto costituzionale delle competenze e rispetto degli obblighi comunitari: questioni processuali e possibile contrasto tra parametri del giudizio di legittimità costituzionale in via principale, 4397 ss.

[2] In Giur. cost., 6/2005, con nota di R. Calvano, La Corte costituzionale “fa i conti” per la prima volta con il nuovo art. 117 comma 1 Cost. Una svista o svolta monista della giurisprudenza costituzionale sulle “questioni comunitarie”?, 4436 ss., nonché A. Celotto, La Corte costituzionale finalmente applica il 1° comma dell’art. 117 Cost. (in margine alla sent. n. 406 del 2005), in Giur. it., 2006, 1123 ss., e C. Napoli, La Corte dinanzi ai “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”: tra applicazione dell'art. 117, primo comma e rispetto dei poteri interpretativi della Corte di Giustizia, in Le Regioni, 2-3/2006, 483 ss.

[3] Riferimenti in A.O. Cozzi, La legge “salva Tocai” davanti alla Corte costituzionale: “i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario” non scattano, ma i parametri si integrano, in Le Regioni, 1/2009, 149 ss.

[4] … sempre che – secondo dottrina e giurisprudenza corrente – non risultino incisi i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale (i c.d. “controlimiti”). La qual cosa, in relazione all’ambito materiale qui rilevante, dovrebbe richiedere accertamenti assai disagevoli e problematici negli esiti, ove si assuma in partenza che il riparto in parola realizza per tabulas la sintesi ottimale tra i valori fondamentali di unità-indivisibilità e di autonomia o, ad essere ancora più precisi, una sintesi interna ad un solo valore nelle sue varie proiezioni nell’esperienza, quello della promozione dell’autonomia – la massima possibile alle condizioni oggettive di contesto – nella unità ovvero, rovesciando i termini della relazione (ma lasciando immutato l’esito dell’operazione condotta), quello della salvaguardia dell’unità attraverso la promozione dell’autonomia.

[5] Possono tuttavia darsi, come si sa, casi di reciproca interferenza tra gli obblighi “comunitari” – se vogliamo seguitarli a chiamarli (impropriamente) così – e gli obblighi internazionali, avuto specifico riguardo alla non remota eventualità di sostanziale coincidenza delle norme da cui gli uni e gli altri discendono; la qual cosa è di speciale interesse al piano della salvaguardia dei diritti fondamentali (ma, di ciò, in altra sede).

[6] Indicazioni nello scritto di M.P. Iadicicco dietro cit., 4404.

[7] È interessante notare che in tutti i casi decisi con le pronunzie sopra richiamate, compreso dunque quello definito dalla pronunzia che si va annotando, ricorrente era lo Stato.

[8] … per discussa (e discutibile) che sia (riferimenti su questa annosa questione, di recente, in AA.VV., I ricorsi in via principale, Giuffrè, Milano 2011).

[9] Fa storia a sé il riconoscimento della facoltà di ricorso, operato a beneficio delle Regioni, in vista della salvaguardia dell’autonomia degli enti infraregionali, laddove il filo che lega l’autonomia stessa a quella della Regione parrebbe ormai essersi fatto talmente sottile da potersi dubitare della sua capacità di tenuta (ma di ciò in altri luoghi).

[10] Ovviamente, potrebbe darsi altresì il caso che si abbia la sola violazione del diritto sovranazionale. Si sarebbe, perciò, in presenza di una questione “semplice” (non “complessa”), come tale ai nostri fini irrilevante.

[11] Come si accennava poc’anzi, non si ha tuttavia al riguardo una regola fissa, sistematicamente osservata. Molti sono, infatti, come si sa, i casi in cui dopo aver rilevato l’infondatezza di una questione, passando ad altra, la Corte decide per l’accoglimento, e viceversa.

[12] Ho più volte (e sotto diversi angoli visuali) ragionato attorno a talune aporie di costruzione a mia opinione riscontrabili nel complessivo modo d’intendere e risolvere le antinomie tra diritto sovranazionale e diritto interno [con specifica attenzione ai profili ora in rilievo, v., volendo, il mio Le leggi regionali contrarie a norme comunitarie autoapplicative al bivio fra “non applicazione” e “incostituzionalità” (a margine di Corte cost. n. 384/1994), in Riv. it. dir. pubbl. com., 1995, 469 ss.].

[13] In merito alle applicazioni, assai varie (e non sempre concordanti), fatte della tecnica in parola, v., ora, lo studio monografico di A. Bonomi, L’assorbimento dei vizi nei giudizi di legittimità costituzionale in via incidentale, Jovene, Napoli 2013.

[14] … salvo il caso, cui si è fatto dietro cenno, che lo stesso diritto dell’Unione indichi qual è il livello istituzionale congruo alla sua attuazione in ambito interno.

[15] È appena il caso di rilevare che, in presenza di norme che si ripetano con identità di tratti complessivi in più atti, la Corte potrebbe far luogo alla dichiarazione d’illegittimità “conseguenziale”, per quanto anche di siffatto strumento si sia fatto (e si seguiti a fare) un uso alquanto discontinuo ed oscillante (riferimenti, per tutti, in A. Morelli, L’illegittimità conseguenziale delle leggi. Certezza delle regole ed effettività della tutela, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008).

[16] La qual cosa non equivale a dire che l’eventuale verdetto di rigetto della questione di “comunitarietà” esprima un vincolo insuperabile per gli operatori (perlomeno a stare alla tesi ormai invalsa, nella quale nondimeno non mi riconosco, secondo cui le sentenze della specie in parola sarebbero inidonee a produrre effetti generali). Nulla, pertanto, osta a che i giudici comuni (e gli operatori in genere) possano determinarsi diversamente rispetto alla Corte, assumendo essere la norma interna incompatibile rispetto al diritto sovranazionale. È nondimeno indubbia l’efficacia (quanto meno…) persuasiva di cui sono dotati i verdetti in parola. Dal mio canto, consiglierei ad un giudice che ritenga di doversi discostare dall’avviso manifestato dal giudice costituzionale (nel caso, ovviamente, che sia ospitato da una decisione di rigetto), prima di sollevare nuovamente la medesima questione di “comunitarietà” dapprima respinta (per violazione di norme sovranazionali non self-executing) ovvero di far luogo alla “non applicazione” della norma nazionale, di adire la Corte di giustizia in via pregiudiziale. Tanto più giustificata appare questa soluzione sol che appunto si consideri che qui si tratta, in tesi, di non tener conto dell’autorevole orientamento manifestato in ordine all’antinomia dal giudice delle leggi.

[17] … e, segnatamente, in quelli in via incidentale, come s’è fatto con Corte cost. n. 207 del 2013 (e, su di essa, tra gli altri, i commenti di U. Adamo, Nel dialogo con la Corte di giustizia la Corte costituzionale è un organo giurisdizionale nazionale anche nel giudicio in via incidentale. Note a caldo sull’ord. n. 207/2013, in www.forumcostituzionale.it, 24 luglio 2013, pure ivi, B. Guastaferro, La Corte costituzionale ed il primo rinvio pregiudiziale in un giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale: riflessioni sull’ordinanza n. 207 del 2013, 21 ottobre 2013, nonché V. De Michele, L’ordinanza “Napolitano” di rinvio pregiudiziale Ue della Corte costituzionale sui precari della scuola: la rivoluzione copernicana del dialogo diretto tra i Giudici delle leggi nazionali ed europee, in www.europeanrights.eu, e G. Repetto, La Corte costituzionale effettua il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE anche in sede di giudizio incidentale: non c’è mai fine ai nuovi inizi, in www.diritticomparati.it, 28 ottobre 2013).

Resta, poi, da chiarire se l’apertura possa considerarsi estesa a tutto campo, in relazione cioè ad ogni competenza della Corte, ovvero se possano darsi casi in cui lo strumento del rinvio si riveli inutilizzabile (ma, di ciò in altro luogo).

[18] Torna qui in rilievo la somma questione concernente la sufficienza della motivazione delle decisioni della Corte, quale condizione della loro stessa esistenza e, perciò, della possibile attivazione della “copertura” di cui all’art. 137, ult. c., cost. Anche di ciò, tuttavia, non è possibile dir nulla in questa sede.


Salvaguardia dei diritti fondamentali ed equilibri istituzionali in un ordinamento “intercostituzionale”*

Sommario: 1. Una Corte costituzionale che “predica bene e razzola male” o, all’inverso, “predica male e razzola bene”, per il fatto di delineare un certo modello di rapporti tra Costituzione e Convenzione europea dei diritti dell’uomo e di non restare poi ad esso in tutto fedele nelle soluzioni di merito apprestate per i singoli casi? – 2. I lineamenti della giurisprudenza costituzionale relativa alla condizione giuridica della CEDU in ambito interno e i casi in cui, contrariamente all’avviso del giudice costituzionale, può aversi applicazione diretta della Convenzione stessa. – 3. I conflitti tra norma convenzionale e norma costituzionale e le tecniche decisorie a mezzo delle quali essi sono abilmente camuffati (in particolare, l’obbligo di prestare ossequio alla Convenzione unicamente nella sua “sostanza” e l’assunto, assiomaticamente posto ed espressivo di una singolare idea di “Costituzione-totale”, per cui la tutela apprestata ai diritti dalla Carta costituzionale non sarebbe, in tesi, meno “intensa” di quella offerta da altre Carte). – 4. Segue: la tecnica decisoria con la quale si ammette, sì, l’esistenza di un conflitto tra norma convenzionale e norma interna (anche costituzionale), ma lo si supera facendo riferimento alla Costituzione come “sistema”. – 5. La ricerca della norma – quale che sia la provenienza, la forma ed il rango della fonte che la produce – idonea a dare la più “intensa” tutela ai diritti e, perciò, a rivendicare a buon diritto il primato sulle norme restanti (interne o esterne che siano). – 6. I rimedi prospettabili al fine di parare il rischio, sempre incombente in certa giurisprudenza, di un nazionalismo o patriottismo costituzionale infecondo ed ingenuo, convertendo la superbia in umiltà costituzionale, all’insegna di un modello di “Costituzione-parziale”: una Costituzione che si dimostri perciò, nei fatti, disponibile ad aprirsi all’alto ed all’altro ed a farsi rigenerare senza sosta da altri documenti normativi essi pure adottati al servizio dei diritti, presentandosi pertanto quale un’autentica “intercostituzione”, punto di convergenza e di vera e propria immedesimazione dei sistemi preposti a dare tutela ai diritti. – 7. Il ruolo dei giudici in un ordine “intercostituzionale”: a chi spetta la ricognizione di “nuovi” diritti fondamentali? Critica delle opposte opinioni che vorrebbero ora categoricamente esclusi i giudici da siffatta opera definitoria ed ora invece gli artefici in sovrana solitudine della stessa, specie alla luce del presente contesto caratterizzato dal sensibile avvicinamento del ruolo da essi giocato rispetto a quello proprio del legislatore. – 8. La sofferta ricerca del modo migliore col quale preservare la tipicità dei ruoli rispettivamente giocati dal legislatore e dai giudici, i cui problematici rapporti richiedono di essere riequilibrati attraverso misurate discipline normative, essenzialmente per principia, che quindi si rimettano per la loro opportuna attuazione ed integrazione (e non la mera applicazione o esecuzione) alle sedi presso le quali si somministra giustizia, sia ordinaria che costituzionale.

 

1.Una Corte costituzionale che “predica bene e razzola male” o, all’inverso, “predica male e razzola bene”, per il fatto di delineare un certo modello di rapporti tra Costituzione e Convenzione europea dei diritti dell’uomo e di non restare poi ad esso in tutto fedele nelle soluzioni di merito apprestate per i singoli casi?

Toccherò, con la massima rapidità, unicamente due punti tra i molti di particolare interesse riguardati dal tema della protezione dei diritti fondamentali nel c.d. costituzionalismo “multilivello”[1]: quello dei rapporti tra la tutela apprestata dalla Costituzione e la tutela delle Carte internazionali dei diritti (con specifico riferimento alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo: d’ora innanzi CEDU)[2] e l’altro dei rapporti tra la tutela apprestata dal legislatore e la tutela offerta dai giudici (costituzionali e non): due profili che – come si tenterà di mostrare – solo ad una prima (ma erronea) impressione parrebbero essere reciprocamente distinti ma che, in realtà, risultano strettamente, inscindibilmente legati l’uno all’altro.
Comincio dal primo.
Non faccio qui cenno alcuno alle più varie opinioni manifestate in dottrina circa il modo con cui si atteggiano, secondo modello, i rapporti tra la Costituzione e le Carte suddette, vale a dire a seconda che si adotti quale angolo visuale a finalità di ricostruzione, rispettivamente, quello risultante dalla prima ovvero dalle seconde[3]. I modelli, infatti, come si sa, sono non poche volte ed in maggiore o minore misura fatti oggetto di adattamenti e vere e proprie torsioni nella pratica giuridica e per le sue più pressanti esigenze, manipolazioni tutte queste che hanno proprio nella giurisprudenza il terreno più fertile per la loro emersione e diffusione. Trovo dunque conveniente guardare qui, piuttosto che al diritto vigente (secondo questa o quella delle sue più accreditate letture), al diritto vivente, segnatamente a quello che si afferma per mano dei giudici costituzionali (e, ulteriormente specificando, per mano della nostra Corte).
Ora, assai singolare e meritevole di essere subito messo in evidenza appare ai miei occhi il fatto che la Corte italiana (ed ho motivo di pensare che non diversamente vadano le cose anche presso altre Corti), per un verso, dichiari di aver ormai messo a punto un proprio modello di relazioni tra Costituzione e CEDU nitidamente delineato nella sua struttura portante, appunto quello che – a suo dire – è l’unico modello desumibile dalla Carta costituzionale e disegnato a partire dalle famose sentenze “gemelle” nn. 348 e 349 del 2007, quindi riconfermato nelle ormai numerose pronunzie nelle quali è fatto riferimento alla CEDU[4]. Per un altro verso, però, il modello stesso, proprio in alcuni dei suoi tratti maggiormente espressivi e significanti, è fatto oggetto di significativi (seppur abilmente mascherati) scostamenti, in ragione dell’appagamento di talune esigenze che – a quanto pare – si reputa di non poter altrimenti salvaguardare.
Qual è allora – ci si deve chiedere – il vero “diritto vivente”? Quello in cui si dichiara essere il modello o l’altro in cui, nella stessa pronunzia, dopo avervi fatta menzione ci si discosta in una non secondaria misura?
E ancora: come valutare questo stato di cose? Dobbiamo dire che la Corte predica bene e razzola male oppure, rovesciando (innaturalmente…) su se stesso questo noto adagio, che predica male e razzola bene?
Dico subito che la mia idea è che nessuna delle due opzioni secche racchiuse nell’alternativa suddetta può essere pienamente ed incondizionatamente accolta e che piuttosto – come non di rado accade – la verità sta a mezza via, pur se con una certa qual propensione per le deroghe al modello operate nei singoli casi anziché per la salvaguardia dello stesso.
Le notazioni che seguono si sforzano di argomentare quest’idea.

 

2.I lineamenti della giurisprudenza costituzionale relativa alla condizione giuridica della CEDU in ambito interno e i casi in cui, contrariamente all’avviso del giudice costituzionale, può aversi applicazione diretta della Convenzione stessa

Richiamo qui, unicamente a beneficio dei colleghi di altri Paesi partecipanti alle nostre Giornate, solo i punti maggiormente rilevanti su cui si regge la costruzione giurisprudenziale eretta nel 2007.
La Corte costituzionale, in breve, 1) qualifica la CEDU (e viene da pensare ogni altra fonte internazionale pattizia[5]) quale fonte “subcostituzionale” ed interposta, in virtù della “copertura” assicuratale dall’art. 117, I c., cost.: come tale, per un verso, tenuta a prestare ossequio a qualunque norma costituzionale[6] e, per un altro verso, bisognosa a sua volta di essere osservata dagli atti comuni di normazione (leggi ed atti aventi forza di legge), a pena della loro invalidità (e del conseguente possibile annullamento[7]); 2) dichiara che, per quanto possibile, è fatto obbligo al giudice comune[8] di interpretare le leggi di cui è chiamato a fare applicazione in senso conforme (oltre che alla Costituzione) alla CEDU stessa (ed alle altre fonti al pari di essa protette dal disposto costituzionale surrichiamato); 3) ove una siffatta interpretazione “conciliante” si dimostri essere impossibile (per le resistenze oppostole dai testi), al giudice non resta altro che sollevare una questione di legittimità costituzionale (appunto per violazione indiretta dell’art. 117, sopra cit.), restando in ogni caso esclusa la eventualità della disapplicazione diretta della norma interna accompagnata dalla contestuale applicazione in sua vece della norma convenzionale; 4) è pur sempre fatta salva l’eventualità che sia la stessa norma astrattamente idonea a porsi a parametro in un giudizio di “convenzionalità-costituzionalità” a convertirsi in oggetto del sindacato della Corte, ove si dubiti della sua conformità a Costituzione (nel qual caso, si è detto fino alla sent. n. 311 del 2009, la Corte può intervenire a tutela della Costituzione, caducando la norma convenzionale[9] incostituzionale. A partire dalla decisione ora richiamata, la Corte si è limitata a dichiarare che la norma stessa non potrà integrare il parametro costituzionale; la qual cosa autorizza a pensare che potrebbe aversi una dichiarazione di mera “irrilevanza” per il caso del parametro convenzionale, in tal modo in buona sostanza disapplicato[10]); 5) non è detto che l’acclarato contrasto tra norma convenzionale e norma legislativa porti sempre e comunque all’annullamento della seconda, che di contro potrebbe avere la meglio, a condizione però che si dimostri che essa offra un’ancòra più “intensa” tutela ai diritti fondamentali e, più largamente, ai beni costituzionalmente protetti, visti nel loro fare “sistema” (dovendosi, cioè, in buona sostanza, fare riferimento all’“insieme” delle norme costituzionali, per come evocato in campo dal caso)[11].
Partendo proprio da quest’ultimo punto, può subito notarsi la stranezza costituita dal fatto che, ad opinione della Corte, in una circostanza siffatta si assisterebbe pur sempre ad una violazione indiretta dell’art. 117, conseguente all’accertamento del contrasto (insanabile per via interpretativa) tra legge e CEDU, a fronte della quale tuttavia – come s’è detto – dovrebbe darsi prioritaria considerazione al fatto che, allo stesso tempo, la legge offra una maggior tutela ai beni costituzionalmente protetti di quella discendente dalla CEDU. Solo che, così stando le cose (e prescindendo ora dalla questione micidiale riguardante il parametro o il criterio in nome del quale poter far luogo, senza soverchie incertezze, all’accertamento della norma, interna o esterna, in cui si situi la più “intensa” tutela), nessuna violazione, in tesi, può dirsi che si abbia della Convenzione, dal momento che è quest’ultima a volersi fare da parte, dichiarando (art. 53) essere il proprio ruolo meramente “sussidiario”, esercitabile appunto unicamente nei casi in cui la norma convenzionale fissi più in alto di quella interna la salvaguardia dei diritti.
Ora, non dandosi, in una congiuntura siffatta, lesione della Convenzione, dovrebbe essere affare esclusivo del giudice comune far luogo ad un siffatto riscontro, senza perciò che ad esso possa o debba seguire l’interpello del giudice costituzionale. Quest’ultimo è, infatti, il “giudice naturale” dei conflitti reali tra norme legislative interne e norme convenzionali (ed internazionali in genere), non già di quelli meramente apparenti o astratti. La stessa Convenzione va cioè vista, al pari della Costituzione, come “sistema”, vale a dire per il modo con cui i suoi singoli disposti si considerano sia inter se che nel loro riporto all’art. 53, ora cit., col quale ora si apre ed ora si chiude la porta che dà modo alla Convenzione stessa di uscire dal proprio ambito materiale di competenza e di immettersi nell’ambito interno per spiegare in quest’ultimo la sua azione benefica a salvaguardia dei diritti.
Si aggiunga che, in una circostanza quale quella ora presa in esame, il carattere meramente apparente dell’antinomia può essere ulteriormente avvalorato dal fatto che, a prendere in considerazione le singole norme (a prima impressione) incompatibili, potrebbe darsi il caso che si sia in presenza di una tutela “graduata” del diritto in gioco, maggiore da parte dell’una e minore da parte dell’altra: insomma, volendo ricorrere ad un’immagine che ho già rappresentato altrove[12], sarebbe come se due treni corressero, a velocità diverse, nella stessa direzione e su binari paralleli, di modo che l’uno riesca a portarsi più avanti dell’altro ovvero a raggiungere la meta prima di esso, non già perciò due treni fatalmente destinati allo scontro siccome disposti l’uno di fronte all’altro sui medesimi binari.
Così come possono darsi casi di non applicazione della Convenzione, possono di contro darsi casi di applicazione diretta, malgrado il giudice costituzionale ad essi si dichiari decisamente, incondizionatamente ostile[13].
Mi limito ad elencarli, soffermandomi quindi su uno soltanto di essi, specificamente riguardante il secondo profilo, sul quale di qui a breve mi intratterrò.
Il primo di essi si ha ogni qual volta si abbia una sostanziale coincidenza tra una norma convenzionale ed una norma della Carta di Nizza-Strasburgo suscettibile di applicazione diretta. È vero che questa condizione va provata, così come va verificato se il caso ricada in ambito materiale di competenza dell’Unione, al quale soltanto – come si sa – resta circoscritta l’applicazione della Carta suddetta. L’una e l’altra cosa, tuttavia, potrebbero aversi non di rado[14], sol che si consideri la tendenza crescente a fare applicazione diretta delle norme costituzionali sui diritti (e le norme delle Carte sono esse pure materialmente costituzionali) e si consideri altresì l’espansione vistosa dell’area materiale di competenza dell’Unione, essa pure dovuta ad una coraggiosa giurisprudenza sovranazionale cui non è mancato il sostegno o, quanto meno, l’acquiescenza da parte dei giudici nazionali[15].
Il secondo potrebbe aversi (in verità, in un numero progressivamente decrescente[16]) ogni qualvolta la norma convenzionale sia cronologicamente posteriore alla norma interna con essa contrastante ed allo stesso tempo la prima si dimostri in grado di prendere subito il posto della seconda[17], facendosi pertanto luogo all’utilizzo dello schema dell’abrogazione piuttosto che a quello della invalidità (quale presupposto del successivo annullamento da parte del giudice costituzionale). Ancora una volta, dunque, l’antinomia è meramente apparente, non dandosi la simultanea vigenza delle disposizioni normative in “conflitto”, una soltanto perciò essendo quella da applicare al caso[18].
Il terzo potrebbe aversi in presenza di acclarata violazione della Convenzione da parte di norma di legge tuttavia non (ancora) rimossa a seguito e per effetto della pronunzia della Corte europea; dopo di che – quanto meno alle parti attivatesi per ottenere giustizia a Strasburgo[19] (ma, a mia opinione, anche a terzi…[20]) – non dovrebbe applicarsi la norma interna illegittima bensì, in modo diretto ed esclusivo, la norma convenzionale[21].
La questione merita invero un supplemento di riflessione in altra e più acconcia sede. L’ipotesi nondimeno di un diverso modo di farsi valere del primato della Convenzione in relazione ai soggetti, per quanto sia da prendere in conto, sembra per più aspetti lasciare perplessi alla luce del principio di eguaglianza, nel suo fare “sistema” col principio dell’apertura dell’ordine interno al diritto internazionale e sovranazionale.
Il quarto ed ultimo caso si ha laddove non si dia l’esistenza di una norma interna e il giudice possa pertanto colmare il vuoto facendo immediato riferimento alla norma convenzionale. Non si capisce infatti la ragione per cui, mentre diffusamente si ammette, quanto meno con riferimento a taluni casi, la possibile (ed anzi doverosa) applicazione diretta della Costituzione, non possa dirsi lo stesso delle Carte internazionali dei diritti (e, segnatamente, della CEDU), tanto più che esse sono rese esecutive con legge (dunque, come si vede, una vera e propria lacuna legislativa in una siffatta circostanza non si ha).
Su quest’ultimo punto, tuttavia, si rendono necessarie alcune precisazioni, delle quali mi farò carico più avanti. Avverto comunque sin d’ora come non siano di raro riscontro nella pratica giuridica i casi in cui, volendo il giudice comune fare applicazione diretta della Convenzione e consapevole del contrario avviso al riguardo manifestato dal giudice costituzionale, si circoscriva in modo artificioso l’area materiale “coperta” dalle previsioni legislative e, al contempo, si faccia espandere quella delle previsioni convenzionali, sollecitate in tal modo ad un loro “forte” e talora eccessivo utilizzo.

 

3.I conflitti tra norma convenzionale e norma costituzionale e le tecniche decisorie a mezzo delle quali essi sono abilmente camuffati (in particolare, l’obbligo di prestare ossequio alla Convenzione unicamente nella sua “sostanza” e l’assunto, assiomaticamente posto ed espressivo di una singolare idea di “Costituzione-totale”, per cui la tutela apprestata ai diritti dalla Carta costituzionale non sarebbe, in tesi, meno “intensa” di quella offerta da altre Carte)

Il punto però nel quale si rende con maggiore evidenza visibile lo scostamento dal modello, per come dalla stessa giurisprudenza delineato, si ha laddove, riscontrato il contrasto tra norma convenzionale e norma costituzionale, non si fa luogo né all’annullamento della prima né alla formale, solenne dichiarazione della sussistenza del contrasto stesso quale causa – come si diceva – della “irrilevanza” della Convenzione per la definizione del caso.
Il contrasto – come si avvertiva all’inizio di queste notazioni – è, in realtà, abilmente mascherato.
Due le tecniche decisorie al riguardo utilizzate. Con l’una, il conflitto è ad arte evitato, sia pure col costo di far luogo a corpose selezioni delle norme convenzionali evocabili in campo, scartando quelle suscettibili di entrare in rotta di collisione con la Costituzione e facendo esclusivo riferimento unicamente a quelle con essa – a dire del giudice costituzionale – compatibili; con la seconda, il conflitto è apertis verbis ammesso, e però ancora una volta si evita accuratamente di far seguire a siffatto accertamento la caducazione della norma convenzionale o, comunque, la formale dichiarazione della sua “irrilevanza” per il caso, pur nei fatti ottenendosi il medesimo scopo che per il suo tramite si conseguirebbe.
La prima tecnica poggia sulla premessa secondo cui ciò che conta non è il diritto convenzionale vigente bensì quello vivente: ricorrenti sono, infatti, le attestazioni fatte alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la quale tuttavia – qui è il punto – rileva unicamente per la sua “sostanza”, va cioè osservata dagli operatori di diritto interno non già in ogni sua parte, per filo e per segno, bensì per ciò che essa in nuce rappresenta[22].
Per vero, la Corte costituzionale non ha mai chiarito cosa esattamente s’intenda per la “sostanza” in parola, in particolare se essa vada riferita ad indirizzi ormai consolidati (a delle vere e proprie consuetudini interpretative ricorrenti), sì da potersi considerare non cogenti singole pronunzie o gli stessi indirizzi suddetti laddove ancora ad uno stadio iniziale, complessivamente immaturo, ovvero se di ogni pronunzia si possa (e debba) avere riguardo al solo suo “nucleo duro”, tralasciando espressioni marginali, di secondario rilievo (ammesso pure che si possa con chiarezza, nettamente, distinguere il “nucleo” stesso dalle parti che vi stanno attorno). Non credo che il giudice delle leggi abbia la convenienza di dare un chiarimento siffatto, che comunque potrebbe essergli d’intralcio in successive decisioni. Sta di fatto che, grazie a siffatto artificio retorico-argomentativo (ché di questo, a conti fatti, si tratta), si rende possibile far luogo a selezioni anche cospicue dei casi, scartando le indicazioni della giurisprudenza europea che appaiano “scomode” ed attingendo a quelle idonee a saldarsi in modo armonico agli indirizzi del giudice costituzionale.
Forse, non è appropriato al riguardo discorrere – come pure ho poc’anzi fatto – di una vera e propria selezione di “norme” convenzionali, la selezione stessa appuntandosi su orientamenti giurisprudenziali relativi anche ad una stessa norma. Non di rado però sono in gioco plurime interpretazioni somministrate dal giudice europeo con riferimento ad una stessa disposizione della Convenzione, dalla quale dunque col tempo vengono estratte norme diverse, solo alcune o magari una soltanto delle quali giudicate dalla Corte nazionale rilevanti per il caso.
Come si vede, la giurisprudenza costituzionale finisce con l’allineare non già la propria giurisprudenza a quella europea bensì questa a quella, utilizzando cioè le indicazioni che vengono da Strasburgo a conferma di quelle a dire del giudice di Roma desumibili dalla nostra Carta costituzionale. In fondo, se ci si pensa, prende qui corpo quella previsione, fatta ormai parecchi anni addietro (sent. n. 388 del 1999), secondo cui “i diritti umani, garantiti anche da convenzioni universali o regionali sottoscritte dall’Italia, trovano espressione, e non meno intensa garanzia, nella Costituzione”, malgrado subito appresso si trovi scritto che la Costituzione e le Carte dei diritti “si integrano, completandosi reciprocamente nella interpretazione”. Due affermazioni – mi è parso in altri luoghi di poter dire – assai problematicamente riducibili in modo armonico ad unità, la prima sembrando voler fare da specchio ad un “nazionalismo o patriottismo costituzionale ingenuo ed infecondo”[23], diversamente dalla seconda nella quale il principio dell’apertura al diritto internazionale e sovranazionale rinviene una delle sue più incisive e significative espressioni. E non è senza significato rilevare come la seconda delle affermazioni suddette muova dall’assunto di quella parità di condizioni in cui stanno tutti i documenti normativi che danno il riconoscimento (in senso proprio) dei diritti fondamentali, che è invece negata dalla giurisprudenza inaugurata nel 2007, con la qualifica in essa data della CEDU (e, perciò, di ogni altra Carta di origine esterna) quale fonte “subcostituzionale”.
Sta di fatto che, a mezzo della tecnica in parola, la CEDU è, a conti fatti, utilizzata meramente a rinforzo di una tutela dei diritti che si assume esservi già, tutta quanta, in Costituzione, in quest’ultima vedendosi l’atto per eccellenza idoneo ad offrire piena garanzia a qualsivoglia diritto fondamentale; le Carte restanti possono, perciò, solo dare ulteriore testimonianza o conferma di una garanzia comunque validamente apprestata in ambito interno[24].
Come si vede, quella sopra riportata, appare essere una dichiarazione – se posso dire con franchezza – di superbia costituzionale, che muove dall’assunto (a mia opinione, essenzialmente inesatto) che la nostra sia una sorta di “Costituzione-totale”, che non contenga lacuna alcuna di previsione: una Costituzione perfetta, insomma, ultraterrena (se si conviene che la perfezione non è di questo mondo…).
Ora, non soltanto questo punto di vista è rigettato fuori delle nostre mura domestiche, la stessa Convenzione – come si è rammentato – dichiarando di avere una missione da compiere, proprio al fine di colmare le lacune di costruzione esistenti in ambito interno, ma è la stessa giurisprudenza costituzionale, in fin dei conti, a riconoscerlo, ammettendo che possa essere denunziata la violazione, in modo diretto ed esclusivo, da parte di leggi nazionali della Convenzione stessa (o di altre Carte).
D’altro canto, quale pratico senso potrebbe mai avere la sottoscrizione delle Carte stesse (e, fra queste, della CEDU) ove esse dovessero limitarsi a ripetere, magari con parole diverse, le previsioni della Carta costituzionale fatte a beneficio dei diritti?
La nostra è, dunque, una “Costituzione-parziale”, che dà numerosi e importanti riconoscimenti ai diritti fondamentali ma non, appunto, a tutti e in modo pieno, se si eccettua la norma di sintesi di cui all’art. 2 della Carta costituzionale, nella quale l’inviolabilità dei diritti stessi è in modo fermo e chiaro dichiarata. Altro è però – si convenga – un riconoscimento fatto una volta per tutte (e genericamente) ed altra cosa il puntuale ed espresso riconoscimento operato a beneficio di singoli diritti, nella stessa Costituzione o, appunto, in altre Carte alle quali la prima rimandi ed alle quali, pertanto, offra “copertura”: una “copertura” che è, nel modo più saldo ed efficace, assicurata proprio dall’art. 2, nel suo fare “sistema” col principio di eguaglianza, di cui all’art. 3[25], più e prima ancora che a mezzo di altri enunciati costituzionali pure a buon diritto evocabili in campo (oltre al già cit. art. 117, I c., in particolare, gli artt. 10 e 11[26]), e, in ultima istanza, col valore “supercostituzionale” della dignità della persona umana, da cui costantemente si alimenta e riceve senso la coppia assiologica fondamentale di libertà ed eguaglianza, dalle cui mutue e varie combinazioni si fa ed apprezza la giustizia[27].
Sta di fatto che, circoscrivendosi l’obbligo della osservanza della CEDU alla sola “sostanza” della relativa giurisprudenza, il nostro giudice delle leggi può parare sul nascere il rischio del conflitto tra la CEDU stessa e la Costituzione, salva l’eventualità, astrattamente prospettabile ma di assai remoto riscontro, che il conflitto stesso non emerga in modo vistoso per effetto di un orientamento della Corte di Strasburgo consolidato, pressoché sistematicamente ripetuto (come si diceva, un vero e proprio “indirizzo” di consuetudinaria fattura). Non si trascuri poi che, se è vero che lo stesso giudice europeo non ha (perlomeno a tutt’oggi…) preteso scrupolosa osservanza per le proprie pronunzie, non è meno vero che l’individuazione della “sostanza” da tener presente potrebbe aversi con esiti divergenti o, diciamo pure, reciprocamente incompatibili, rispettivamente, da parte del giudice europeo e da parte del giudice nazionale. La qual cosa renderebbe il conflitto insanabile, proprio perché inconciliabili sarebbero, in tesi, i punti di vista da cui si fa luogo a siffatta ricognizione, spianandosi così la via per la ricerca delle soluzioni maggiormente adeguate al suo superamento[28].

 

4.Segue: la tecnica decisoria con la quale si ammette, sì, l’esistenza di un conflitto tra norma convenzionale e norma interna (anche costituzionale), ma lo si supera facendo riferimento alla Costituzione come “sistema”

È qui che però subentra la seconda delle tecniche decisorie, cui si faceva poc’anzi cenno.
Messa con le spalle al muro, la Corte italiana ammette talora l’esistenza di una insanabile divergenza interpretativa riscontrabile tra la propria giurisprudenza e quella forgiata a Strasburgo. Ne dà però una spiegazione in teoria persuasiva, che tuttavia si presta a pratiche sue applicazioni non poco discutibili. Dice infatti il nostro giudice delle leggi (spec. sentt. nn. 236 del 2011 e 264 del 2012 e, più di recente, 170 e 202 del 2013[29]) che, mentre a Strasburgo si presta attenzione alla singola norma della Convenzione che offre tutela ad uno specifico diritto[30], trascurandosi il riferimento alle norme stesse nel loro fare “sistema” (un’affermazione, questa, che, pur non priva di un suo fondamento, non è tuttavia sempre e del tutto vera), il giudice nazionale (e questo vale per lo stesso giudice delle leggi come pure per il giudice comune) ha da guardare ogni volta all’intero “sistema” di norme[31], un sistema nel quale il riconoscimento dei diritti si accompagna alla garanzia di beni di altra natura, essi pure meritevoli di protezione (talora, persino di una prioritaria protezione)[32].
Ecco allora che l’operatore che, pensoso, s’interroghi dove si situi la più “intensa” tutela ai diritti e, in genere, ai beni costituzionalmente protetti ha da guardare ogni volta all’intero “sistema”. In astratto, può pure darsi il caso che, con riferimento ad uno stesso diritto di cui si faccia menzione sia nella Convenzione che in Costituzione, la tutela maggiore sia da riconoscere in capo alla prima Carta, che nondimeno viene a trovarsi costretta a recedere nel corso di una data vicenda processuale in considerazione della soluzione al riguardo imposta dal “sistema”.
Si tratta dunque ogni volta di far luogo ad un operazione di bilanciamento che abbia appunto nel “sistema” l’orientamento verso il quale si svolga e il fermo ancoraggio dal quale si tenga, al fine di fissare il più in alto possibile, in ragione delle condizioni complessive di contesto, il punto di sintesi assiologicamente significante tra i beni costituzionalmente protetti.
È questa – come si è sopra veduto – la direttiva d’azione impartita da Corte cost. n. 317 del 2009 e già, sia pure confusamente accennata, nella prima delle sentenze “gemelle” del 2007.

 

5.La ricerca della norma – quale che sia la provenienza, la forma ed il rango della fonte che la produce – idonea a dare la più “intensa” tutela ai diritti e, perciò, a rivendicare a buon diritto il primato sulle norme restanti (interne o esterne che siano)

Di qui due conclusioni alle quali, a mia opinione, occorre prestare la massima attenzione.
La prima è che la ricerca della fonte nella quale è da rinvenire la più “intensa” tutela, svolgendosi al piano suo proprio delle norme e secondo i valori, non può essere condotta né i suoi esiti possono essere apprezzati se non in prospettiva appunto assiologico-sostanziale, non già da una formale-astratta, che guardi alle fonti ut sic, per la forma di cui sono dotate, l’ordinamento di origine o il rango astrattamente detenuto.
La seconda è che tutte le fonti possono giocarsi la partita ad armi pari, sollecitate – come sono – a dar vita ad una sana competizione a chi è in grado di offrire di più e di meglio a salvaguardia dei diritti e, in genere, dei beni costituzionalmente protetti nel loro fare “sistema”. Non c’è più fonte “subcostituzionale” o costituzionale o ordinaria; ci sono solo norme che da se medesime si assegnano questo o quel “posto” nel sistema[33], per il modo con cui dimostrano di saper dare appagamento ai beni della vita costituzionalmente protetti e, in ultima istanza, a libertà, eguaglianza, dignità.
Le stesse leggi comuni – come si è fatto poc’anzi notare – potrebbero portare ancora più in alto della Costituzione la salvaguardia di diritti pure in questa nominativamente indicati, dislocandosi in tal modo ad un’ancòra più corta distanza – se così può dirsi – rispetto alla luce abbagliante della coppia assiologica fondamentale, di cui agli artt. 2 e 3 della Carta costituzionale. D’altro canto, i principi fondamentali, che – come si sa – costituiscono la trascrizione grafica più immediata e genuinamente, densamente, espressiva dei valori parimenti fondamentali[34], in nome dei quali è stata condotta la battaglia vittoriosa per la edificazione del nuovo ordine costituzionale dopo le macerie della seconda grande guerra, sono norme a carattere tendenziale, perché tendenziali sono i valori cui esse danno voce. Prefigurano, insomma, un modello di società ideale (di uomini laboriosi, liberi, eguali, partecipi del governo che essi stessi si danno ed impegnati nell’adempimento dei doveri di solidarietà che gravano su ciascuno verso tutti) ancora di là da venire e che forse nella sua purezza e grandiosità mai appieno verrà, un modello i cui lineamenti quanto più ricevono appagamento da parte delle norme sottostanti, tanto più pretendono di essere ulteriormente svolti, in vista di future, accresciute acquisizioni a beneficio dei diritti e, in ultima istanza, della dignità della persona umana.
L’esito teorico cui naturalmente conduce una impostazione metodica siffatta, un esito che si è tentato di argomentare in altri luoghi[35], è che il “sistema” è sistema di norme, non già di fonti, secondo valori: un sistema che viene ogni volta rifatto secondo le esigenze dei casi, assumendo come punto costante di riferimento i principi fondamentali dell’ordinamento di appartenenza di ciascun operatore. La qual cosa, tuttavia, non dovrebbe portare acqua al mulino di quel nazionalismo o patriottismo costituzionale sterile ed insensato, di cui poc’anzi si diceva. L’esito corretto dovrebbe piuttosto essere esattamente quello opposto, ove si convenga che tra i principi fondamentali del nostro come pure di altri sistemi di norme v’è pure quello dell’apertura verso l’altro: un’apertura che risulti essere la massima possibile in considerazione delle esigenze complessive del “sistema” e, perciò, in buona sostanza, della salvaguardia dei principi che lo compongono.
Quanto meno così dovrebbe essere secondo modello, se non pure però sempre è secondo esperienza[36].

 

6.I rimedi prospettabili al fine di parare il rischio, sempre incombente in certa giurisprudenza, di un nazionalismo o patriottismo costituzionale infecondo ed ingenuo, convertendo la superbia in umiltà costituzionale, all’insegna di un modello di “Costituzione-parziale”: una Costituzione che si dimostri perciò, nei fatti, disponibile ad aprirsi all’alto ed all’altro ed a farsi rigenerare senza sosta da altri documenti normativi essi pure adottati al servizio dei diritti, presentandosi pertanto quale un’autentica “intercostituzione”, punto di convergenza e di vera e propria immedesimazione dei sistemi preposti a dare tutela ai diritti

Si tratta allora di chiedersi quali rimedi possano prospettarsi al fine di porre un argine all’affermazione di quel nazionalismo costituzionale di cui si è ripetutamente detto e di cui si ha sì frequente riscontro nella giurisprudenza di tutte le Corti.
Ora, non v’è dubbio che molte soluzioni sono astrattamente pensabili al piano dei rapporti tra le Corti stesse, in aggiunta a quelle di cui già si dispone (ad es., per ciò che concerne l’esercizio del rinvio pregiudiziale, anche da parte delle stesse Corti costituzionali[37], o la prevista consultazione da parte dei giudici comuni della Corte di Strasburgo). Un’autentica svolta, di carattere metodico, nel senso di convertire la superbia in umiltà costituzionale, all’insegna di quel modello di “Costituzione-parziale[38] di cui un momento fa si diceva, richiede tuttavia la maturazione di un’apertura culturale ad oggi incompleta. Non dico, ovviamente, che di essa non si abbia nitida traccia: sarebbe un giudizio ingeneroso e, a conti fatti, profondamente ingiusto. Dico solo che la strada da fare prima di pervenire alla meta è ancora lunga ed irta di ostacoli e resistenze, legate ad una mentalità dalle risalenti e nondimeno tuttora salde radici, che vedeva (e vede) nella Costituzione una fonte in sé perfetta, autosufficiente, fondante e non fondata, punto fermo dal quale l’intero ordinamento si tiene ed attorno al quale ruotano le più salienti vicende istituzionali, al piano sia della normazione che dell’applicazione (amministrazione e, soprattutto, giurisdizione). Un’idea – come si vede – quasi sacrale di Costituzione, debitrice del mito rivoluzionario formatosi al crepuscolo del secolo decimo ottavo che voleva la Costituzione figlia di un potere costituente illimitato ed illimitabile, in tesi idoneo a dar vita ex nihilo ad un nuovo ordine costituzionale connotato da discontinuità, apprezzabile in prospettiva assiologico-sostanziale, rispetto all’ordine preesistente dallo stesso a forza abbattuto, quali che siano i processi storico-politici che abbiano portato all’affermazione del potere stesso.
Oggi questo modo di vedere le cose non è – come si sa – in tutto e per tutto rinnegato (basti solo pensare alla dottrina dei limiti alla revisione costituzionale); e, tuttavia, si dimostra essere bisognoso di talune corpose correzioni, la più significativa delle quali – per ciò che qui specificamente interessa – è quella per cui la Costituzione non appare più, nel presente contesto segnato da un costituzionalismo c.d. “multilivello” (ma che – come si diceva – ancora meglio si dovrebbe piuttosto chiamare “interlivello”), idonea a giustificarsi da se medesima, riproponendosi dunque quale fonte fondante ma non fondata sia dell’ordinamento di appartenenza che delle relazioni interordinamentali. Di contro, la Costituzione si giustifica solo nel momento in cui si dichiara disponibile a farsi alimentare e rigenerare senza sosta da altri documenti parimenti costituzionali quoad substantiam (se non pure quoad formam[39]), aprendosi all’alto ed all’altro e dichiarandosi disponibile a farsi persino da parte per cedere il posto ad altre Carte che, in relazione alle esigenze di un caso, si dimostrino idonee ad offrire un’ancòra più intensa tutela agli stessi beni costituzionalmente protetti (e, segnatamente, ai diritti fondamentali).
Come si è tentato di argomentare in altri luoghi, pur laddove la Costituzione dovesse mostrarsi “cedevole” davanti ad altre Carte, in realtà essa realizzerebbe appieno se stessa, appagando nel modo migliore quei valori transepocali di libertà ed eguaglianza che sono la cifra identificante e più immediatamente espressiva delle Carte venute alla luce al fine di restituire all’uomo la dignità che gli era stata brutalmente sottratta prima e durante la seconda grande guerra. La “logica” vincente non è tuttavia quella conflittuale, dell’aut-aut nell’utilizzo di questa o quella Carta con esclusione delle restanti, bensì l’altra, conciliante, della convergenza e della stessa immedesimazione delle Carte nei fatti interpretativi, secondo la felice (ma parziale) formula della sent. del 1999, dietro richiamata. È così, e solo così, che la Costituzione può farsi punto di integrazione fra sistemi di norme posti a garanzia dei diritti, sistema di sistemi insomma.
Lo scenario qui nuovamente prefigurato spinge dunque vigorosamente per l’avvento di un autentico ordine “intercostituzionale”, come lo si è altrove chiamato[40]: ogni Costituzione (in senso materiale) ponendosi infatti quale una “intercostituzione”, per il fatto stesso di racchiudere in sé il principio fondamentale dell’apertura ad altre Carte che parimenti possono offrire il loro fattivo concorso alla piena salvaguardia, in ragione delle condizioni oggettive di contesto, dei valori fondamentali di libertà ed eguaglianza (e, in ultima istanza, dignità), nel loro fare “sistema” coi valori restanti.

 

7.Il ruolo dei giudici in un ordine “intercostituzionale”: a chi spetta la ricognizione di “nuovi” diritti fondamentali? Critica delle opposte opinioni che vorrebbero ora categoricamente esclusi i giudici da siffatta opera definitoria ed ora invece gli artefici in sovrana solitudine della stessa, specie alla luce del presente contesto caratterizzato dal sensibile avvicinamento del ruolo da essi giocato rispetto a quello proprio del legislatore 

In uno scenario siffatto un ruolo di cruciale e crescente rilievo sono chiamati – per diffuso riconoscimento – a giocare i giudici (non solo costituzionali[41]). Molto essi hanno fatto e molto ancora possono (e devono) fare al servizio dei diritti; si tratta, tuttavia, di dare un governo a siffatta complessiva e complessa attività, ad oggi fiorita in modo spontaneo ed espansasi in forme talora non opportunamente vigilate, fissando degli argini al suo libero[42], imparziale ed equo svolgimento.
Ho già accennato poc’anzi alla questione di particolare importanza relativa alla disciplina dei rapporti tra le Corti, una disciplina nondimeno solo in parte demandabile a regole positive, per un’altra, cospicua parte restando piuttosto rimessa all’autodeterminazione delle stesse Corti e perciò, in buona sostanza, a regolarità cui esse danno vita con le pratiche giudiziarie che quotidianamente formano e rinnovano senza sosta.
Dirò ora, con la consueta rapidità imposta a questa riflessione, dell’altro versante, quello dei rapporti col legislatore, essi pure ad oggi profondamente squilibrati e dunque bisognosi di corpose correzioni.
Muovo da una premessa che mi parrebbe sufficientemente salda nelle sue basi metodico-teoriche; ed è che, con riguardo alla questione di fondo riguardante la definizione di “nuovi” diritti fondamentali, debbano scartarsi gli eccessi ricostruttivi di chi vorrebbe categoricamente esclusi da questo compito i giudici (nel presupposto che esso debba essere unicamente assolto dal legislatore) e chi vorrebbe invece che esso fosse in buona sostanza demandato ai giudici stessi, quanto meno per il caso che venga meno la regolazione con legge[43].
La prima tesi è, a dir poco, ingenua, seccamente smentita dalla storia, viziata da palese astrattismo, complessivamente insostenibile insomma. Alla fin fine, essa ripropone l’antico dogma o mito della onnipotenza del legislatore e del giudice bouche de la loi, che ha avuto sì numerose e risolutive confutazioni da non richiedere che se ne debba fare qui ulteriore parola.
La seconda tesi è, invece, assai più difficile da smontare, se non altro perché fotografa abbastanza fedelmente una realtà di cui, da noi come altrove (e da lunga pezza)[44], si ha largo riscontro[45]. Dove v’è un vuoto di potere – è legge antica quanto il mondo[46] – v’è sempre chi è pronto ad occuparlo: il ruolo “sussidiario” dei giudici, dunque, risponde quasi ad una sorta di legge di natura, ad una necessità cui non si saprebbe altrimenti come far fronte (senza tuttavia, con ciò, sottacere le non poche deviazioni riscontrabili nelle pratiche giudiziarie, specie con riguardo ai casi in cui le discipline legislative in realtà vi siano e siano fatte oggetto di corpose, ancorché non sempre immediatamente visibili, manipolazioni). La stessa Corte costituzionale italiana ha più d’una volta ammesso a denti stretti di far luogo, con le sue sentenze “normative”[47], ad una “supplenza” – com’è ormai uso chiamarla – nei riguardi del legislatore “non richiesta e non gradita”[48], ma tant’è… Ciò che conta è, a quanto pare, il fine, pur se il suo raggiungimento possa talora comportare il ricorso a mezzi costituzionalmente non appropriati.
Alcune precisazioni tuttavia subito si impongono.
La prima è che la infungibilità dei ruoli, sia tra organi che tra atti, non è da mettere in discussione: ne verrebbero pregiudicati senza rimedio principi fondamentali della liberaldemocrazia, a partire da quelli della separazione dei poteri, della sovranità democraticamente esercitata, della legalità. Eppure, ciò posto, non può passarsi sotto silenzio che oggi i ruoli stessi ricevano una conformazione assai diversa da quella loro propria secondo antichi, ma ormai inesorabilmente invecchiati, schemi qualificatori. Una delle più probanti conferme di questo stato di cose è dato dalla impossibilità di seguitare a tipizzare i ruoli stessi, segnatamente quello del legislatore e l’altro dei giudici costituzionali (in senso materiale), ricorrendo alla dicotomia astratto-concreto.
V’è, ormai da tempo, in atto un processo di progressivo avvicinamento, in struttura e funzione, dell’attività del legislatore e di quella del giudice (segnatamente, del giudice costituzionale).
L’uno è chiamato a farsi carico dell’“impatto” nell’esperienza – come suole essere chiamato – degli atti che ha in cantiere, lo studio del quale comporta alcune “analisi” – come pure sono qualificate – il cui pratico rilievo tuttavia non sembra all’altezza delle aspettative nutrite al momento della loro introduzione[49]. È anche per ciò (ma, invero, non solo per ciò[50]) che assai di frequente gli atti legislativi, una volta adottati ed anche a ridosso della loro adozione, sono fatti oggetto di complessivi aggiustamenti, al fine di adeguarli come si conviene alle esigenze della pratica giuridica[51]: aggiustamenti che, non di rado, hanno proprio nelle sedi giudiziarie la sollecitazione per la loro messa in atto.
L’altro, poi, manifesta una spiccata vocazione a dotare gli atti dallo stesso emanati della capacità di portarsi oltre il caso, di “universalizzarsi” insomma; quanto meno, ciò sembra valere – e non a caso – per i giudici che, nell’ordinamento di appartenenza, si pongono come giudici “unici”, non avendo altri organi giudicanti a sé omologhi o “concorrenziali” (e il discorso, ancora una volta, riguarda in ispecie i giudici formalmente ovvero materialmente costituzionali)[52].
Il punto richiede un momento di riflessione, tornando a riguardare a queste esperienze non già – come di consueto – da una prospettiva d’ispirazione formale-astratta bensì da una di carattere sostanziale. Non si tratta, cioè, solo di ribadire qui l’attitudine, che è propria delle sentenze di accoglimento del giudice costituzionale[53], a produrre effetti erga omnes; è importante, altresì, dare il giusto rilievo alle numerose regolarità cui la giurisprudenza ha dato e dà luogo e che si ripropongono con costanza di caratteri, stabilizzandosi in vere e proprie consuetudini decisorie.
Per altro verso, con specifico riferimento alle Corti europee, esse pure – come si faceva poc’anzi notare – manifestano la spiccata tendenza alla loro “costituzionalizzazione”, una tendenza cui è stato quindi dato avallo dagli stessi giudici costituzionali, di modo che quella che in origine poteva considerarsi una sorta di convenzione costituzionale, frutto della convergenza su di essa riscontratasi tra giudici europei e giudici nazionali, può forse ormai dirsi essere divenuta una vera e propria consuetudine interordinamentale (perlomeno, fintantoché non sarà rimossa e sostituita da un’altra…[54]). In disparte il peculiare regime che è proprio delle pronunzie della Corte di giustizia, cui – come si sa – è riconosciuta natura di vere e proprie fonti del diritto (di forza “paracostituzionale”)[55], una delle più vistose testimonianze in tal senso è data dalle c.d. sentenze-pilota della Corte di Strasburgo, il cui rilievo è stato, ancora di recente, riconosciuto anche dal nostro giudice delle leggi[56]. Ciò che più conta, poi, è il fatto che alcune tecniche decisorie ormai collaudate nelle esperienze processuali invalse presso i giudici costituzionali sono state quindi riprese, sia pure con sostanziali adattamenti, da parte dei giudici europei: al di là, cioè, degli effetti prodotti dalle decisioni, v’è il dato, forse ancora più meritevole di considerazione, relativo al modo con cui esse vengono a formazione, al modo cioè di essere del processo che porta alla loro adozione e che appare, in molti suoi punti, accostabile a quello che è proprio dei giudizi di costituzionalità.

 

8.La sofferta ricerca del modo migliore col quale preservare la tipicità dei ruoli rispettivamente giocati dal legislatore e dai giudici, i cui problematici rapporti richiedono di essere riequilibrati attraverso misurate discipline normative, essenzialmente per principia, che quindi si rimettano per la loro opportuna attuazione ed integrazione (e non la mera applicazione o esecuzione) alle sedi presso le quali si somministra giustizia, sia ordinaria che costituzionale

Ora, ferma la tendenza, sopra rilevata, al ravvicinamento dell’attività, rispettivamente svolta, dal legislatore e dai giudici, il punto è però che la confusione dei ruoli non sembra, come si diceva, in alcun caso o modo, tollerabile: sia con riguardo ai casi in cui i secondi prendano il posto del primo e sia pure nei casi in cui sia il legislatore ad interferire sulla imparziale amministrazione della giustizia[57].
Cosa fare, allora, per preservare la tipicità dei ruoli stessi? Va subito detto, senza troppi giri di parole, che le maggiori responsabilità circa lo stato di cose per come si è venuto affermando è del legislatore: a questi compete, infatti, farsi carico dell’onere di rimediarvi, forgiando discipline normative – come subito si dirà, per essentialia – riguardanti i diritti, specie i “nuovi”, la cui individuazione e “regolazione” (nei limiti in cui il termine possa essere utilizzato con riguardo alle espressioni della giurisprudenza) sono fin qui state in buona sostanza rimesse in larga parte (e talora per intero) ai giudici.
La estrema varietà dei casi, unitamente alla strutturale complessità degli interessi emergenti in taluni campi di esperienza (e penso ora soprattutto agli sviluppi del biodiritto, anche alla luce degli avanzamenti della ricerca scientifica e tecnologica[58]), ha reso ancora più evidente lo scarto tra le carenze (per talune fattispecie, la vera e propria latitanza[59]) della regolazione legislativa e l’impellente bisogno di appagamento di taluni bisogni elementari dell’uomo. A fronte di questo stato di cose, che è quello che è, i giudici hanno fatto quanto era (ed è) in loro potere (e, forse, però, anche di più…) per porvi rimedio, senza tacere che alcuni loro orientamenti appaiono essere alquanto improvvisati e forzati, come tali problematicamente riconducibili al quadro costituzionale ed alle stesse indicazioni delle Carte dei diritti (e, segnatamente, della CEDU e della Carta di Nizza-Strasburgo).
È ormai provato[60] che il modo migliore per il legislatore di intervenire nei campi suddetti è quello soft, a mezzo di discipline positive strutturalmente duttili, costituite in larga parte da disposizioni di principio, più (o anziché) espressive di regole[61]. Disposizioni che, dunque, aprano spazi considerevoli ai giudici per quelle operazioni di bilanciamento in concreto tra gli interessi meritevoli di tutela cui essi fanno, in ragione dei casi, quotidianamente luogo.
Come si accennava poc’anzi, poi, a mia opinione la disciplina legislativa dovrebbe disporsi in forme e gradi di generalità discendente: alla legge costituzionale dovrebbe spettare la normazione di base, vale a dire il riconoscimento (in senso ristretto e proprio) dei “nuovi” diritti, il loro – per dir così – disvelamento, quale esplicitazione della formula di sintesi di cui all’art. 2 della Carta[62]; l’aggravamento della procedura stabilita per la venuta alla luce degli atti di forma costituzionale, con l’incontro necessario che essa naturalmente incoraggia ed implica tra le forze politiche di opposto schieramento[63], dovrebbe quindi valere a rendere testimonianza della esistenza di quelle vere e proprie consuetudini culturali diffuse nel corpo sociale aventi ad oggetto i “nuovi” diritti, di cui si è venuti dicendo e che poi costituisce la più efficace risorsa circa la loro effettiva osservanza nella pratica giuridica[64]. A rimorchio della disciplina costituzionale dovrebbe quindi porsi quella con legge comune (statale o regionale che sia[65]), cui verrebbe pertanto demandato il compito di apprestare la prima, diretta specificazione-attuazione della disciplina stessa, la sua tutela insomma (sia pure ancora al piano delle previsioni normative), a mezzo di formulazioni normative nondimeno caratterizzate – come si diceva – da ampiezza strutturale di disposti[66]. Ai giudici, infine, il compito di assicurare in concreto la tutela stessa, a mezzo di un’attività che risulti essere non meramente di applicazione[67] bensì di attuazione e persino d’integrazione del dettato legislativo, tra le maglie larghe del tessuto costituzionale immettendosi e svolgendosi un’attività giurisdizionale non meramente esecutiva.
Tra il piano delle previsioni costituzionali (in senso materiale) e quello della pratica giudiziaria si dispone, dunque, come si vede, quello della disciplina legislativa, quale strumento ordinario di svolgimento del dettato costituzionale; ordinario e tuttavia non necessario, diversamente da quanto ritenuto da una pur argomentata e raffinata costruzione teorica, che appunto vorrebbe comunque assicurata la mediazione della legge tra la Costituzione ed altre fonti ed atti giuridici in genere[68].
Non si esclude, infatti, che si diano casi in cui i giudici possano a buon titolo fare applicazione diretta della Costituzione e delle altre Carte (ma, il più delle volte, dovrebbe piuttosto dirsene in termini di attuazione[69]), a presidio dei diritti e, in genere, di interessi costituzionalmente protetti[70]. Non è questa tuttavia, a mia opinione, la regola; e non posso qui tacere che questa mia presa di posizione mi costa molto, consapevole che, per effetto di essa, molti beni della vita di cui è fatta menzione nella Carta costituzionale (o in altre Carte), perdurando la mancanza della mediazione necessaria del legislatore, verrebbero a trovarsi gravemente esposti, praticamente sguarniti di tutela.
La soluzione opposta, tuttavia, come si è venuti dicendo, fa correre rischi ancora più gravi, a conti fatti portando a considerare la legge una sorta di optional, di cui la pratica giuridica parrebbe di poter fare disinvoltamente a meno. Si tratta piuttosto di ricercare e preservare un pur disagevole e sofferto equilibrio di ordine istituzionale, in seno al quale ciascun operatore (legislatore e giudici e, prima ancora, come si è veduto, legislatore costituzionale e legislatore comune) abbia finalmente riconosciuto il proprio giusto posto, la funzione e la vera e propria missione da compiere, al servizio dei diritti dei singoli e degli interessi dell’intera collettività.
Non è facile stabilire in concreto se e fino a che punto questo equilibrio possa dirsi davvero raggiunto, quanto meno in un’apprezzabile misura. È, come sempre, la pratica giuridica, con le sue complessive e varie movenze, a dover da se medesima far luogo a siffatto riscontro, suggerendo quindi gli opportuni, eventuali correttivi.
La giurisprudenza costituzionale costituisce al riguardo un indice altamente attendibile: si pensi solo alle numerose occasioni in cui il giudice delle leggi confessa la propria impotenza a dare soddisfacente, effettiva tutela ad interessi costituzionalmente protetti, non potendo invadere il campo riservato alle opzioni c.d. “discrezionali” del legislatore[71]. Ancora una volta, tuttavia, non spetta ai soli giudici costituzionali bensì a tutti gli operatori (in primo luogo, dunque, ai giudici comuni), con la sensibilità che è loro propria, sollecitare il legislatore ad onorare l’impegno cui è istituzionalmente chiamato, così come, peraltro, a quest’ultimo compete – come s’è veduto – predisporre le più adeguate discipline normative, sì da agevolare l’assolvimento del compito gravante sui giudici a beneficio dei diritti e degli interessi in genere meritevoli di tutela. Ed è fin troppo evidente, perché vi sia qui il bisogno di evidenziarlo ulteriormente, che il “dialogo” intergiurisprudenziale, sia in ambito interno (dei giudici comuni inter se e col giudice costituzionale) che al piano interordinamentale[72], non può che trarre profitto da un’accorta ed incisiva disciplina legislativa, da cui possono venire feconde suggestioni per la crescita e la diffusione di una cultura dei diritti, vecchi o nuovi che siano, al servizio dei più intensamente avvertiti bisogni elementari dell’uomo.
La legislazione è – come si sa – un’arma a doppio taglio: se fatta come si deve, può fare molto bene, così come però, all’inverso, può recare non poco danno, laddove non fatta a misura d’uomo e per le sue più impellenti esigenze. Quei conflitti, aperti o mascherati che siano, tra le Corti, di cui si è detto nel corso della prima parte di questa esposizione, possono dunque ulteriormente inasprirsi ovvero essere stemperati, fino a sostanzialmente dissolversi, per effetto del sopravvenire di discipline legislative che, rispettivamente, si discostino (pur non dando l’apparenza di volervi apertamente contrastare) rispetto agli indirizzi delle Corti europee ovvero si mostrino sensibili e sia pure originali interpreti delle loro più salienti indicazioni a tutela dei diritti. Si tratta, perciò, di far sempre di più diffondere una cultura dei diritti capace di fare breccia nelle resistenze tuttora esistenti in ambienti politici e negli strati più profondi della società e che tenacemente si oppongono al suo saldo radicamento.
Siamo tutti chiamati, ciascuno secondo il proprio ruolo, a questo ambizioso ed impegnativo, ma anche non poco gratificante, compito: uomini di scienza, praticanti di giustizia, autori di leggi. È solo dandosi concretezza a questa “santa alleanza” che può essere offerto il migliore servizio, alle pur difficili (e talora persino proibitive) condizioni oggettive di contesto, all’uomo, ai suoi diritti, alla sua dignità.

* Comunicazione alle Giornate italo-spagnolo-brasiliane su La protección de los derechos en un ordenamiento plural, Barcellona 17-18 ottobre 2013, alla cui data lo scritto è aggiornato.

[1] … e che, però, come si tenterà di mostrare, ancora meglio dovrebbe chiamarsi “interlivello” (acuti rilievi al riguardo in L. D’Andrea, Diritto costituzionale e processi interculturali, in www.forumcostituzionale.it, 29 aprile 2009, spec. l’ult. §, sia pure da una prospettiva e con esiti teorico-ricostruttivi non in tutto coincidenti con quelli di qui). V., inoltre, da ultimo, i contributi di più autori che sono sotto il titolo Diritti e conflitti nel costituzionalismo transnazionale: dal territorio allo spazio. Verso un nuovo (dis)ordine globale policentrico?, in Dir. Pubbl. comp. ed eur., II/2013, a cura di G. D’Ignazio e A.M. Russo,  423 ss.

[2] Adopero per il momento il termine “tutela” et similia in larga accezione; sul finire di questa esposizione tuttavia si svolgeranno alcune precisazioni al riguardo.

[3] Faccio qui specifico riferimento al modello costituzionale italiano, al quale le notazioni che seguono vogliono restare circoscritte. Si vedrà tuttavia che alcune di esse possiedono una più larga valenza, siccome espressive di un modo d’intendere la Costituzione che può essere altresì riferito a Carte diverse da quella italiana.

[4] Se ne può ora vedere un’accurata rassegna in R. Conti, CEDU, Costituzione e diritti fondamentali: una partita da giocare alla pari, in AA.VV., Il diritto europeo nel dialogo delle Corti, a cura di R. Cosio e R. Foglia, Giuffrè, Milano 2013, 166 ss.

[5] Forse, come mi fa notare O. Pollicino, le cose potrebbero andare diversamente per gli accordi in forma semplificata, la cui capacità di vincolo nei riguardi delle leggi di Stato e Regione è stata – come si sa – messa in dubbio da una sensibile dottrina. Sta di fatto che la formula costituzionale, nella sua testuale dizione, parrebbe non porre limite di sorta ai vincoli discendenti dagli obblighi internazionali omnicomprensivamente intesi, quale che sia dunque il modo con cui essi sono contratti. Se poi, alla prima occasione utile, la Corte costituzionale dovesse darci un’interpretazione “sanante” del generico dettato costituzionale, sarei il primo ad esserne contento.

[6] Stranamente, la Corte non s’interroga a riguardo del fatto che, per la materia oggetto di disciplina e per il modo della sua trattazione, la Convenzione possa naturalmente ed esclusivamente confrontarsi con principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, non pure con norme diverse da questi.

[7] Fa, tuttavia, notare E. Lamarque, Las relaciones entre los órdenes nacional, supranacional e internacional en la tutela de los derechos, relazione alle nostre Giornate, in paper, § 2, come a tutt’oggi i giudici non abbiano azionato il giudizio di costituzionalità ex art. 117, I c., per la supposta violazione di trattati diversi dalle Carte dei diritti (e, segnatamente, della CEDU), preferendo far utilizzo del canone della specialità allo scopo di assicurare la prevalenza dei trattati stessi.

[8] … e viene di pensare, però, allo stesso giudice costituzionale.

[9] … per il tramite della legge che ha dato esecuzione alla Convenzione “nella parte in cui…”.

[10] Questa soluzione è stata da me teorizzata in più scritti, a partire da Corte costituzionale e Corti europee: il modello, le esperienze, le prospettive, in AA.VV., Corte costituzionale e sistema istituzionale, a cura di F. Dal Canto e E. Rossi, Giappichelli, Torino 2011, 149 ss., spec. 168 ss.

[11] Il canone della tutela più intensa – rileva E. Lamarque, op. ult. cit., § 3 – è da considerare valevole anche al piano dei rapporti tra l’ordinamento interno e l’ordinamento dell’Unione, pur nella diversità delle tecniche a mezzo delle quali sono ripianate le antinomie tra di essi riscontrabili rispetto a quelle esistenti tra l’uno ordinamento e la CEDU. È, in fondo, quanto io stesso vado dicendo da tempo a riguardo della non opponibilità per sistema dei “controlimiti” all’ingresso in ambito interno del diritto dell’Unione, gli stessi principi fondamentali (o, meglio, alcuni di essi) potendosi trovare costretti a farsi da canto davanti a norme “eurounitarie” – come a me piace chiamarle – che si dimostrino ancora più adeguate ad offrire l’ottimale servizio, alle condizioni oggettive di contesto, ai valori di libertà ed eguaglianza (e, in ultima istanza, dignità della persona umana) per come fanno “sistema” in relazione alle esigenze di un caso dato.

[12] … in Prospettiva prescrittiva e prospettiva descrittiva nello studio dei rapporti tra Corte costituzionale e Corte EDU (oscillazioni e aporie di una costruzione giurisprudenziale e modi del suo possibile rifacimento, al servizio dei diritti fondamentali), in www.rivistaaic.it, 3/2012, § 3.

[13] Tornando a trattare di siffatta, spinosa (e, a mia opinione, non definitivamente chiusa) questione, E. Lamarque, op. ult. cit., § 2, giudica “molto saggia” l’opzione fatta dalla Consulta con l’avocare a sé tutti i casi di possibile contrasto tra norme convenzionali e norme interne di grado primario.

[14] Non dispongo di dati certi al riguardo ma ho l’impressione che la giurisprudenza comune tardi ancora oggi a prendere consapevolezza delle straordinarie opportunità che le sono offerte facendo un uso “forte” della Carta di Nizza-Strasburgo nella quotidiana amministrazione della giustizia cui è chiamata (così pure E. Lamarque, op. et loc. ult. cit., ma con diversa valutazione del fenomeno).

[15] Indicazioni di giurisprudenza, da ultimo, in M. Pacini, Lussemburgo e Karlsruhe a duello sull’applicabilità della Carta UE, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, Osservatorio, settembre 2013.

[16] … se  non altro a motivo del carattere ormai risalente della legge di esecuzione della Convenzione. È appena il caso, nondimeno, di osservare che questa circostanza non si ha per altre Carte di fresca formazione.

[17] Una eventualità, questa, invero non di frequente riscontro e, ciò nondimeno, non scartabile a priori.

[18] Che le antinomie risolte a mezzo dello schema dell’abrogazione, diversamente da quelle che danno luogo ad annullamento, siano meramente apparenti è argomentato nel mio Fonti, norme, criteri ordinatori. Lezioni5, Giappichelli, Torino 2009, 25 ss.

[19] Segnalo, a questo riguardo, una recente, interessante pronunzia del Tribunale di Roma, I Sezione Civile, del 23 settembre 2013, con la quale è stato accolto il ricorso presentato dai coniugi Costa e Pavan ex art. 700 c.p.c. volto a dar seguito immediato alla pronunzia della Corte di Strasburgo, II Sez., del 28 agosto 2012, confermata dalla Grande Camera l’11 febbraio  2013, che dà loro ragione per ciò che concerne la sottoposizione della donna alle procedure di fecondazione in vitro con impianto dei soli embrioni sani, in deroga a quanto al riguardo previsto dalla legge n. 40 del 2004 [in argomento, può, volendo, vedersi la mia nota, dal titolo Spunti di riflessione in tema di applicazione diretta della CEDU e di efficacia delle decisioni della Corte di Strasburgo (a margine di una pronunzia del Trib. di Roma, I Sez. Civ., che dà “seguito” a Corte EDU Costa e Pavan), in www.diritticomparati.it, 8 ottobre 2013 e in Consulta Online; quanto, poi, al divieto di fecondazione eterologa, che – come si sa – ha animato un fitto dibattito, per tutti, v. S. Agosta, Bioetica e Costituzione, I, Le scelte esistenziali di inizio-vita, Giuffrè, Milano 2012, e, ora, AA.VV., La fecondazione vietata. Sul divieto legislativo di fecondazione eterologa, a cura di A. Cossiri e G. Di Cosimo, Aracne, Roma 2013, e G. Repetto, Non di sola CEDU ...”. La fecondazione assistita e il diritto alla salute in Italia e in Europa, in corso di stampa in Dir. pubbl.].

[20] … per le ragioni che mi sono sforzato di argomentare nel mio scritto da ultimo cit.

[21] … persino, come si rileva ancora nel mio scritto ora richiamato, nel caso che la norma convenzionale non appaia dotata dell’attitudine ad essere portata ad immediata applicazione, presentandosi la “direttiva” impartita dal giudice europeo a mo’ di “additiva di principio” che chiama, a un tempo, il legislatore a darvi l’opportuno svolgimento normativo e il giudice, per l’intanto, a desumere dal “principio” la regola buona per il caso.

[22] Fa, da ultimo, richiamo alla tecnica in parola anche E. Lamarque, Las relaciones entre los órdenes nacional, supranacional e internacional en la tutela de los derechos, cit., § 3. Una recente messa a punto del rilievo assunto dal diritto convenzionale nell’esperienza giudiziale è in AA.VV., The Constitutional Relevance of the ECHR in Domestic and European Law. An Italian Perspective, a cura di G. Repetto, Intersentia, Cambridge-Antwerp-Portland 2013. Fa, nondimeno, ad oggi difetto un organico, sistematico monitoraggio della giurisprudenza di diritto interno – impresa, peraltro, si conviene, improba – al fine di stabilire il grado effettivo di penetrazione del diritto convenzionale vivente in ambito interno, anche per effetto della tecnica decisoria di cui si fa ora parola nel testo.

[23] Così nel mio CEDU, diritto “eurounitario” e diritto interno: alla ricerca del “sistema dei sistemi”, in Consulta Online, 19 aprile 2013, § 4.

[24] Da ultimo, anche E. Lamarque, op. ult. cit., § 2, rammenta che il riferimento ai diritti delle Carte di origine esterna “è poco più di un artificio retorico per rendere più ricca e convincente la motivazione della decisione” del giudice nazionale.

[25] Sulle mutue implicazioni che tra i due principi fondamentali in parola si riscontrano, v., sopra tutti, G. Silvestri, Dal potere ai princìpi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Laterza, Roma-Bari 2009; v., inoltre, utilmente, C. Salazar, I princìpi in materia di libertà, in AA.VV., Principi costituzionali, a cura di L. Ventura, in corso di stampa, spec. ai §§ 10 e 11, e, in prospettiva giusfilosofica, M. Zanichelli, Il valore dell’uguaglianza nella prospettiva del diritto, in La società degli individui, 3/2011, 33 ss.

[26] L’uno, pur riferendosi nel suo primo comma alle norme internazionali consuetudinarie, cui è assicurato rango “paracostituzionale”, può infatti parimenti valere – ne ha convenuto la stessa giurisprudenza costituzionale – anche per le norme pattizie, laddove si dimostri la loro sostanziale coincidenza (ciò che, in materia di riconoscimenti di diritti fondamentali, può affermarsi per più di un caso), mentre, quanto al secondo comma, nel quale è data protezione alle norme internazionali specificamente riguardanti la condizione dello straniero in Italia, può esso pure essere in più d’una circostanza evocato in campo a tutela dei diritti fondamentali del non cittadino. Quanto poi all’art. 11, nel quale la giurisprudenza ha – come si sa – rinvenuto la garanzia della osservanza del diritto dell’Unione europea, si è escluso (con le sentenze “gemelle” del 2007 e successive) che esso possa offrire altresì “copertura” alla CEDU. Una presa di posizione, questa, apparsa però a molti autori troppo rigida e piuttosto meritevole di complessivo ripensamento.

[27] Della dignità come valore “supercostituzionale” si è iniziati a discorrere a partire da A. Ruggeri - A. Spadaro, Dignità dell’uomo e giurisprudenza costituzionale (prime notazioni), in Pol. dir., 1991, 343 ss., cui si è dato svolgimento in altri scritti. Si è, da ultimo, discostato da questa indicazione S. Rossi, Salute mentale e dignità della persona: profili di un dialogo costituzionale, relaz. al Seminario su Lo studio delle fonti del diritto e dei diritti fondamentali in alcune ricerche dottorali, Università di Roma Tre 20 settembre 2013, in www.gruppodipisa.it, spec. al § 5, muovendo dall’assunto secondo cui la dignità sarebbe per intero rimessa, in ordine alla sua definizione ed al complessivo apprezzamento, all’autodeterminazione di ciascun soggetto; un’idea avverso la quale, tuttavia, possono, volendo, vedersi i rilievi che sono nel mio Dignità versus vita?, in www.rivistaaic.it, 1/2011.

[28] In prospettiva di riforma, potrebbe al riguardo tornare utile la previa consultazione del giudice europeo da parte del giudice nazionale, così come prevista dal protocollo 16 di fresca approvazione e che – come si sa – potrebbe a breve entrare in vigore (diciamo, una sorta di rinvio pregiudiziale, ad imitazione di quanto si ha nei rapporti col giudice dell’Unione, ma di grado minore, siccome privo di effetti vincolanti). Staremo ad ogni buon conto a vedere quali forme l’istituto potrà in concreto assumere (in argomento, ora, R. Conti, Le scelte morali e i diritti delle persone: il ruolo del giudice e del legislatore, relaz. all’incontro su La giustizia davanti ai temi eticamente sensibili, organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura, Roma 25-27 settembre, in paper, § 5.1, a cui opinione lo strumento in parola aprirebbe una prospettiva affascinante ma allo stesso tempo inquietante per la Cassazione, e F. Vecchio, Le prospettive di riforma della Convenzione europea dei diritti dell’uomo tra limiti tecnici e ‘cortocircuiti’ ideologici, in paper, che esprime talune riserve a riguardo della previsione in parola, nel timore delle negative ricadute che se ne potrebbero avere per la funzionalità della Corte, già notevolmente gravata di una mole di lavoro crescente. Dal lato opposto, vanno tuttavia tenuti in conto i non pochi vantaggi che potrebbero aversene al fine della maturazione e diffusione presso le sedi in cui si somministra giustizia di una “cultura dei diritti” connotata da un’ancòra più spiccata, sensibile attenzione nei riguardi della giurisprudenza europea).

[29] La penultima delle pronunzie ora richiamate è parsa a taluno segnare “una tregua nel conflitto” tra la Corte di Strasburgo e il nostro giudice delle leggi, a motivo del sostanziale allineamento giurisprudenziale del secondo rispetto alla prima (così E. Lamarque, Las relaciones entre los órdenes nacional, supranacional e internacional en la tutela de los derechos, cit., § 2, di cui è l’espressione testualmente riprodotta); una non coincidente lettura ne dà, però, C. Salazar, Crisi economica e diritti fondamentali, relaz. al Convegno AIC su Spazio costituzionale e crisi economica, Padova 18 e 19 ottobre 2013, in www.rivistaaic.it, 4/2013, § 6.

[30] Il punto è stato già messo in chiaro da una sensibile dottrina (v., part., E. Lamarque, Gli effetti delle sentenze della Corte di Strasburgo secondo la Corte costituzionale italiana, in Corr. giur., 7/2010, 955 ss., spec. 961).

[31] È quanto è, ad es., avvenuto con riferimento alla nota vicenda delle leggi d’interpretazione autentica, giudicate a Strasburgo, in via di principio, inammissibili laddove interferenti con l’amministrazione della giustizia, salvo che non abbiano fondamento in “preminenti ragioni d’interesse pubblico”, ed invece considerate dal nostro giudice costituzionale giustificate nella certezza del diritto (riferimenti, da ultimo e per tutti, in E. Lamarque, Las relaciones entre los órdenes nacional, supranacional e internacional en la tutela de los derechos, cit., § 3; R. Conti, CEDU, Costituzione e diritti fondamentali, cit., 216 ss.; A. Valentino, Ancora sulle leggi d’interpretazione autentica: il contrasto tra Corte di Strasburgo e Corte costituzionale sulle cc.dd. “pensioni svizzere”, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, Osservatorio, settembre 2013; C. Salazar, Crisi economica e diritti fondamentali, cit., § 6).

[32] Ad es., si è soliti dire, la sicurezza della collettività o il bisogno di far quadrare i conti pubblici, in conformità ai vincoli di bilancio imposti dall’Unione europea (a riguardo dei quali, tra i molti altri e di recente, M. Luciani, Costituzione, bilancio, diritti e doveri dei cittadini, in www.astrid-online.it, 3/2013; F. Donati, Crisi dell’euro, governance economica e democrazia nell’Unione europea, in www.rivistaaic.it, 2/2013; A. Cerruti, I poteri pubblici alla prova della governance economico-finanziaria: bilancio e vincoli costituzionali, relaz. al Seminario su Lo studio delle fonti del diritto e dei diritti fondamentali in alcune ricerche dottorali, cit., nonché i contributi al Convegno su Decisione di bilancio e sistemi di governo. Vincoli europei e processi nazionali, Genova 11 e 12 ottobre 2013, e C. Salazar, Crisi economica e diritti fondamentali, cit. Infine, in prospettiva comparatistica, AA.VV., Constitutions in the Global Financial Crisis, A Comparative Analysis, a cura di X. Contiades, Ashgate, Farnham 2013). È stato tuttavia osservato da un’accorta dottrina che dietro l’interesse dell’intera collettività stanno pur sempre i diritti fondamentali dei singoli che la compongono (così, ora, G. Silvestri, I diritti fondamentali nella giurisprudenza costituzionale italiana: bilanciamenti, conflitti e integrazioni delle tutele, in AA.VV., Principi costituzionali, cit.). Ciò che più rileva, ad ogni buon conto, è che nessun interesse costituzionalmente protetto può, in alcun caso o modo, giustificare il sacrificio della dignità della persona umana. Un bene primario, questo, molte volte (ma – ahimè – non sempre) fatto scrupolosamente valere dalla giurisprudenza costituzionale (così, ad es., per ciò che concerne l’eventuale superamento del riparto costituzionale delle competenze tra Stato e Regioni, talora ammesso a beneficio delle leggi statali, in ragione appunto della salvaguardia di diritti fondamentali e, in ultima istanza, della dignità, e, di contro, decisamente negato per ciò che concerne leggi regionali che a titolo precario assumano di volersi immettere nei campi materiali riservati allo Stato, pur facendo difetto l’esercizio dei poteri di normazione da parte di quest’ultimo: v., nel primo senso, sentt. nn. 10 del 2010 e 62 del 2013 e, nel secondo, sentt. nn. 373 del 2010 e 325 del 2011).

[33] Il posto, ovviamente, a conti fatti, glielo danno gli operatori (e, segnatamente, i giudici). La qual cosa la dice lunga a riguardo di quell’equilibrio (o squilibrio), di cui tra breve si dirà, al piano dei rapporti tra legislatore e giudici, impegnando nella ricerca delle soluzioni più adeguate a preservarlo (ovvero a porvi rimedio).

[34] Sulla nota, vessata distinzione tra principi e valori, tra i molti altri, v. A. Longo, I valori costituzionali come categoria dogmatica. Problemi e ipotesi, Jovene, Napoli 2007, spec. 136 ss. e 357 ss., ma passim; A. Morrone, Bilanciamento (giustizia costituzionale), in Enc. dir., Ann., II, t. 2 (2008), 198 ss.; G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Il Mulino, Bologna 2008, spec. 205 ss.; G. Silvestri, Dal potere ai princìpi, cit., spec. 35 ss., ma passim; G. Pino, Diritti e interpretazione. Il ragionamento giuridico nello Stato costituzionale, Il Mulino, Bologna 2010, e, dello stesso A., Principi, ponderazione e la separazione tra diritto e morale. Sul neocostituzionalismo e i suoi critici, in Giur. cost., 1/2011, 965 ss.; L. Mezzetti, Valori, principî, regole, in AA.VV., Principî costituzionali, a cura dello stesso M., Giappichelli, Torino 2011, 1 ss.

[35] … e, tra questi, nei miei Dal caos delle fonti, secondo forma, all’ordine delle norme, secondo valore: note dolenti su un’annosa e spinosa questione, in AA.VV., Gli atti normativi del Governo tra Corte costituzionale e giudici, a cura di M. Cartabia, E. Lamarque e P. Tanzarella, Giappichelli, Torino 2011, 467 ss., e Sistema di fonti o sistema di norme? Le altalenanti risposte della giurisprudenza costituzionale, in Consulta Online, 22 novembre 2012.

[36] Le stesse Corti europee, pur operando in contesti positivi nei quali è espressamente stabilito il rispetto dei principi fondamentali degli ordinamenti nazionali ed il carattere sussidiario delle Carte di cui esse sono garanti rispetto alla tutela offerta dalle Carte costituzionali (v., in particolare, gli artt. 4 del trattato di Lisbona e 53 della Carta dell’Unione, nonché 53 della CEDU, dietro citt.), tardano a dare concretezza a siffatte previsioni. Se n’è avuta una particolarmente eloquente testimonianza nel noto caso Melloni, nel quale la Corte di giustizia si è dichiarata nel senso dell’incondizionato primato del diritto dell’Unione, a dispetto del principio della più “intensa” tutela che, perlomeno in taluni casi, potrebbe portare alla prevalenza del diritto interno (in realtà, nella circostanza, la soluzione non parrebbe essere scorretta nel merito; ma è, appunto, la dichiarazione di principio che ora importa, col carattere perentorio che la connota a favore del primato del diritto sovranazionale).

[37] Alquanto restìo appare tuttavia al riguardo essere il nostro giudice costituzionale, che nondimeno ha, ancora di recente, fatto utilizzo dello strumento in parola (ord. n. 207 del 2013 e, su di essa, tra gli altri, i commenti di U. Adamo, Nel dialogo con la Corte di giustizia la Corte costituzionale è un organo giurisdizionale nazionale anche nel giudicio in via incidentale. Note a caldo sull’ord. n. 207/2013, in www.forumcostituzionale.it, 24 luglio 2013; V. De Michele, L’ordinanza “Napolitano” di rinvio pregiudiziale Ue della Corte costituzionale sui precari della scuola: la rivoluzione copernicana del dialogo diretto tra i Giudici delle leggi nazionali ed europee, in www.europeanrights.eu, e, ora, C. Salazar, Crisi economica e diritti fondamentali, cit., § 8 e 9).

[38] Intendo qui il termine “Costituzione” in senso materiale e lo faccio dunque valere altresì per le Carte dei diritti che, per il fatto stesso di dare appunto riconoscimento a questi ultimi, sono da intendere quali Costituzioni in senso materiale, della Costituzione stessa riproducendo l’essenza, secondo il mirabile, ad oggi attualissimo, insegnamento consacrato nell’art. 16 della Dichiarazione del 1789. Le stesse Corti europee, d’altro canto, vanno sempre di più conformandosi quali Corti costituzionali, senza nondimeno abdicare alla loro originaria natura e peculiare funzione, avvalorate dalla loro stessa composizione (in senso proprio) “internazionale” (su questa tendenza, per tutti, O. Pollicino, che ne ha trattato a più riprese e con fini svolgimenti teorici: tra gli altri suoi scritti, v., part., Allargamento ad est dello spazio giuridico europeo e rapporto tra Corti costituzionali e Corti europee. Verso una teoria generale dell’impatto interordinamentale del diritto sovranazionale?, Giuffrè, Milano 2010, e O. Pollicino - V. Sciarabba, Tratti costituzionali e sovranazionali delle Corti europee: spunti ricostruttivi, in AA.VV., L’integrazione attraverso i diritti. L’Europa dopo Lisbona, a cura di E. Faletti - V. Piccone, Aracne, Roma 2010, 125 ss.).

[39] Si pone, a questo riguardo, la questione, altrove discussa e sulla quale pure si tornerà sul finire di questa esposizione, relativa alla opportunità di dare esecuzione alle Carte dei diritti non già con legge comune bensì con legge costituzionale: non tanto – si badi – allo scopo di garantire ancora meglio l’osservanza delle previsioni in esse contenute, già sufficientemente assicurata dall’art. 117, I c., e, più (e prima) ancora, dagli artt. 2 e 3; piuttosto, si tratta di far luogo ad un vaglio ancora più ponderato ed approfondito al momento di immettere tali documenti normativi in ambito interno, quale si ha per effetto della procedura aggravata stabilita per la venuta alla luce degli atti di forma costituzionale.

[40] Ho iniziato a discorrerne nel mio Sovranità dello Stato e sovranità sovranazionale, attraverso i diritti umani, e le prospettive di un diritto europeo “intercostituzionale”, in Dir. Pubbl. comp. ed eur., 2/2001, 544 ss. e ne ho precisato i tratti maggiormente salienti ed espressivi in altri luoghi di riflessione scientifica.

[41] Non si perda di vista la circostanza per cui gli stessi giudici costituzionali entrano in campo solo in seconda battuta, laddove aditi, e per il modo con cui lo sono, dai giudici comuni (non poche volte – come si sa – questioni di costituzionalità “giuste” non ricevono il loro coerente seguito presso i giudici costituzionali a motivo del fatto che esse sono mal poste, obbligando pertanto questi ultimi a far luogo alla loro reiezione). Dal loro canto, poi, le Corti europee, per un verso, sono esse pure sollecitate dai giudici comuni a pronunziarsi (e mi riferisco adesso specificamente ai rinvii pregiudiziali alla Corte dell’Unione), mentre, per un altro verso, possono trovarsi a dover rimediare a lacune e carenze complessive della tutela offerta ai diritti da parte dei giudici nazionali (e questo vale soprattutto per la Corte di Strasburgo). Sono, insomma, sempre questi ultimi, nel bene e nel male, a determinare l’esito delle questioni cui danno vita. Con riguardo al ruolo giocato dai giudici comuni, specie nei loro rapporti col giudice costituzionale, v., per tutti, E. Lamarque, Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana, Laterza, Roma-Bari, 2012. Utili indicazioni possono poi trarsi da AA.VV., Il ruolo del giudice nel rapporto tra i poteri, a cura di G. Chiodi e D. Pulitanò, Giuffrè, Milano 2013. Con specifico riferimento al piano dei rapporti tra diritto interno e CEDU, v. ancora E. Lamarque, Las relaciones entre los órdenes nacional, supranacional e internacional en la tutela de los derechos, cit., spec. al § 4, che discorre di un “clima di fraterna condivisione dei compiti e delle responsabilità” tra giudici comuni e giudice costituzionale (affermazione che trovo francamente un po’ forzata sol che si considerino i non sporadici casi di “ribellione” di alcuni giudici alle indicazioni date dalla Corte costituzionale, specificamente per ciò che concerne la “non applicazione” delle leggi contrarie alla CEDU operata ora alla luce del sole ed ora abilmente mascherata per via interpretativa, a mezzo di forzate riletture dei testi di legge o della stessa Convenzione). Per una vigorosa sottolineatura del ruolo dei giudici al piano suddetto, v., poi, sopra tutti, R. Conti, che vi ha dedicato studi numerosi ed approfonditi, tra i quali rammento qui La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo del giudice, Aracne, Roma 2011; CEDU, Costituzione e diritti fondamentali, cit., e Le scelte morali e i diritti delle persone, cit. In prospettiva comparatistica, infine, E. Ceccherini, L’integrazione fra ordinamenti e il ruolo del giudice, in Dir. Pubbl. comp. ed eur., II/2013, 467 ss.

[42] … “soggetto soltanto alla legge”, secondo la lapidaria, particolarmente espressiva, formula della nostra Carta costituzionale, nondimeno bisognosa di essere riletta in considerazione del presente contesto nel quale la legge non è ormai più la fonte delle fonti né – come si è venuti dicendo – tale è, invero, sempre e comunque, la stessa Costituzione, con la quale fanno “sistema” le Carte dei diritti e le altre fonti di origine esterna che, in modo sempre più consistente ed incisivo, si immettono in ambito interno ed ivi spiegano i loro effetti al servizio dei più pressanti bisogni dell’uomo.

[43] Va sempre di più diffondendosi oggi il convincimento che la vera posta in palio non sia questa o quella regolazione ma, soprattutto, a chi spetti farvi luogo, vale a dire appunto quale assetto si voglia in merito al rapporto tra potere politico e potere giudiziario [notazioni di vario segno al riguardo, ora, in AA.VV., La tutela dei diritti fondamentali tra diritto politico e diritto giurisprudenziale: “casi difficili” alla prova, a cura di M. Cavino e C. Tripodina, Giuffrè, Milano 2012; utili indicazioni possono poi aversi, sia pure in un contesto teorico-ricostruttivo non coincidente con quello di qui, da R. Romboli, I diritti fondamentali tra “diritto politico” e “diritto giurisprudenziale”: qualche osservazione in margine alla vicenda Englaro, in Studi in onore di L. Arcidiacono, VI, Giappichelli, Torino 2010, 2831 ss.; M. Luciani, Funzioni e responsabilità della giurisdizione. Una vicenda italiana (e non solo), in www.rivistaaic.it, 3/2012; v., poi, i contributi alle nostre Giornate, spec. alla terza sessione dedicata a Las relaciones juez-legislador en la garantía de los derechos fundamentales (con rell. di M. Luciani, L.A.D. Araujo e M. Revenga, relaz. di sintesi di P. Caretti ed interventi di G.V. Marcílio Pompeu-C. Fonseca Maia, R. Romboli, G. Azzariti e di altri ancora); v., inoltre, AA.VV., Il diritto europeo nel dialogo delle Corti, cit., e, con specifico riferimento alla vessata questione del matrimonio tra persone dello stesso sesso, I. Massa Pinto, Il potere di definire la sostanza veicolata dalla parola «matrimonio» tra politica e giurisdizione: note in margine alla recenti sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti, in www.costituzionalismo.it, 2/2013, 22 luglio 2013. Infine, F. Colombi, Gli strumenti di garanzia dei diritti fondamentali fra Costituzione e CEDU: riserva di legge e base legale. Riflessioni a margine di un obiter dictum di Corte cost. sent. 8 ottobre 2012, n. 230, in www.rivistaaic.it, 3/2013, e D. Falcinelli, “In nome della legge penale italiana”. Giudici d’Europa, custodi del diritto penale (appunti sulla sentenza della Corte costituzionale n. 230/2012), in www.federalismi.it, Focus Human Rights, 3/2013].

La tesi che qui si tenterà di argomentare è che tutti sono chiamati, nella tipicità del ruolo proprio di ciascuno, a spendersi al servizio dei diritti.

[44] Faccio al riguardo richiamo al solo M. Cappelletti, Giudici legislatori?, Giuffrè, Milano 1984.

[45] È appena il caso di precisare che le notazioni che si vanno ora facendo restano circoscritte al solo campo qui specificamente rilevante, quello della tutela, normativa e giudiziaria, dei diritti fondamentali, laddove ritardi e complessive carenze della legislazione si avvertono in una sensibile misura (forse perché, o anche perchè, come fa ora notare M. Luciani, Legislatore e giudici nella protezione dei diritti fondamentali, relaz. alle nostre Giornate, cit., § 2, il legislatore è naturalmente portato a sfuggire alle proprie responsabilità “quando gli è troppo scomodo affrontarle”); in altri campi di esperienza, di contro, la legislazione interviene (alle volte, in modo massiccio), in forme tuttavia tali da portare non di rado al medesimo esito che assai spesso si ha in presenza di un numero eccessivo di disposizioni di legge che confusamente e senza costrutto si accavallino, disorientando gli operatori e, però, allo stesso tempo, sovraccaricandoli di responsabilità che non dovrebbero competergli (ancora M. Luciani, ivi, in nt. 12, opportunamente rammenta che “paradossalmente, normare troppo può avere effetti equivalenti a non normare affatto, perché l’eccesso di confusione normativa mette nelle mani dei giudici, comunque, un enorme margine di discrezionalità”).

[46] Ci rammenta, ancora di recente, un sensibile studioso, G. Azzariti, Assetti di potere nella trasformazione della nostra forma di governo: le istituzioni di garanzia nel vuoto della politica, in www.costituzionalismo.it, 22 luglio 2013, essere “regola eterna” quella per cui “nel vuoto della politica le istituzioni di garanzia tendano ad assumere poteri governanti, supplendo alle mancanze dei soggetti titolari”.

[47] Riprendo qui una nota espressione di G. Silvestri, coniata con riferimento alle decisioni più di frequente chiamate “manipolative” del giudice costituzionale: v., dunque, il suo Le sentenze normative della Corte costituzionale, in Scritti su la giustizia costituzionale in onore di V. Crisafulli, I, Cedam, Padova 1985, 755 ss.

[48] … qual è quella che, ad es., ha fatto (e fa) nella materia penale e processuale (indicazioni, da ultimo, in G. Romeo, Giudicato penale e resistenza alla lex mitior sopravvenuta: note sparse a margine di Corte cost. n. 210 del 2013, in www.penalecontemporaneo.it, 1 ottobre 2013).

[49] In una certa misura (e per un certo verso), è inevitabile che così sia, dal momento che anche le “analisi” in parola si svolgono pur sempre ad un piano generale-astratto, che è ben diverso da quello, concreto per antonomasia, nel quale prendono corpo le pronunzie dei giudici, varie così come varî sono i casi della vita, con le sofferenze umane che non di rado in essi si rendono palesi e che si sottopongono ai giudici stessi perché su di esse esercitino il loro ufficio ispirato ad equità e giustizia. Questo rilievo sembra poter valere anche per la c.d. “valutazione delle politiche pubbliche” che, secondo una proposta avanzata dalla Commissione per le riforme costituzionali (v. il punto 17, cap. II, della relazione finale, esitata il 17 settembre 2013), dovrebbe rientrare tra i nuovi compiti delle assemblee parlamentari (e, in ispecie, del Senato), quale forma peculiare del controllo parlamentare ed anche in vista dell’ulteriore produzione legislativa.

[50] Rilevano, a tal proposito, anche talune spinte che vengono dalle forze politiche, alla perenne ricerca di reciproci equilibri maggiormente soddisfacenti rispetto al passato.

[51] Una speciale menzione va al riguardo fatta ai decreti legislativi c.d. “integrativi e correttivi”, prefigurati già al momento della concessione della delega da parte delle Camere e dei quali si è avuto (e si ha) – come si sa – largo utilizzo (sulle più salienti esperienze delle deleghe, da tempo fatte oggetto di monitoraggio da parte di molti autori, v., da ultimo, A. Alberti, La delegazione legislativa tra modelli ed esperienze costituzionali, relaz. al Seminario su Lo studio delle fonti del diritto e dei diritti fondamentali in alcune ricerche dottorali, cit.).

[52] Non vale, dunque, per i giudici di merito, salvo che l’attitudine alla “universalizzazione” non la s’intenda in assai larga (e però impropria) accezione e ci si riferisca, pertanto, alla forza di trascinamento di cui sono provviste le più argomentate ed innovative decisioni, che sollecitano alla loro diffusa imitazione, sì da convertirsi, in un lasso temporale più o meno ridotto, in un vero e proprio “diritto vivente”.

Per altro verso, va nondimeno avvertito che le stesse decisioni del giudice della legittimità sono non di rado espressive di orientamenti nel segno della discontinuità, anche rispetto ad un non remoto passato; ed è proprio su siffatto loro modo di essere (anche se non solo su di esso) che si fa leva per tenere nettamente distinta la vis prescrittiva espressa dalla giurisprudenza in genere rispetto a quella che è propria della legge, secondo quanto trovasi, ancora di recente, affermato in Corte cost. n. 230 del 2012 (dov’è un apparato di concetti, tralaticiamente ripetuto, per più d’un verso meritevole di critico ripensamento). Ciò che, ad ogni buon conto, importa è il ben diverso carattere servente, a un tempo, la certezza e la uniforme applicazione del diritto che è proprio, rispettivamente, delle pronunzie di un giudice “unico” e di quelle di un giudice non “unico”.

[53] Non discuto qui della tesi, altrove argomentata, favorevole a riconoscere generale efficacia, sia pure per una sua peculiare accezione, altresì alle decisioni di rigetto del giudice delle leggi; mi limito, dunque, a riproporre la comune opinione e, però, allo stesso tempo, a fermare l’accento sulle regolarità, sia processuali che di merito, riscontrabili nella giurisprudenza. Regolarità alle quali, proprio con riferimento a quelle cui dà vita il giudice costituzionale, va assegnato uno speciale rilievo, sol che si pensi al compito, specificamente (pur se non esclusivamente) su di esso gravante, di somministrare con le sue pronunzie certezze di diritto costituzionale, le quali presuppongono una sia pur relativa ma tendenziale stabilità degli indirizzi dal giudice stesso formati. Un giudice costituzionale che, in presenza del medesimo caso (nell’insieme degli elementi oggettivi, fattuali e normativi, che lo contrassegnano), dovesse emettere verdetti reciprocamente divaricati, persino di segno opposto, a un tempo tradirebbe la “giurisdizionalità” (sia pure nella originale e peculiare accezione sua propria) della funzione esercitata e mostrerebbe il suo vero volto, grintoso, di un potere costituente permanente, Constitutioni solutus, per il fatto di offrire ogni volta letture talmente diverse della Costituzione stessa da renderla, a conti fatti, inconoscibile, inservibile nella sua tipica funzione prescrittiva, idonea a valere in primo luogo proprio nei riguardi del suo massimo garante [maggiori ragguagli sul punto, di cruciale rilievo, possono, volendo, aversi dal mio Il processo costituzionale come processo, dal punto di vista della teoria della Costituzione e nella prospettiva delle relazioni interordinamentali, in Rivista di diritto costituzionale, 2009, 125 ss., nonché in www.gruppodipisa.it, 28 dicembre 2010; cfr. al mio punto di vista, in particolare, quello di R. Romboli, quale manifestato, con dovizia di argomenti, in molti scritti, e tra questi Il diritto processuale costituzionale: una riflessione sul significato e sul valore delle regole processuali nel modello di giustizia costituzionale previsto e realizzato in Italia, in Studi in onore di F. Modugno, IV, Editoriale Scientifica, Napoli 2011, 2995 ss. Notazioni di vario segno, in prospettiva comparata, in AA.VV., Diritto processuale costituzionale. Omaggio italiano a H. Fix-Zamudio per i suoi 50 anni di ricercatore di diritto, a cura di L. Mezzetti e E. Ferrer Mac-Gregor, Cedam, Padova 2010; AA.VV., Derecho Procesal Constitucional Americano y Europeo, I e II, a cura di V. Bazán, AbeledoPerrot, Buenos Aires 2010, e AA.VV., En torno al derecho procesal constitucional (un debate abierto y no concluido), a cura di D. García Belaunde, Editorial Porrúa, México 2011].

[54] Non posso qui indugiare, come pure vorrei, sulla questione, teoricamente assai complessa, relativa, per un verso, al modo con cui distinguere una consuetudine da una convenzione (specificamente per il caso che la prima, dopo essere stata lungamente osservata, sia quindi abbandonata) e, per un altro verso, a come apprezzare le vicende nel tempo delle consuetudini, specie per l’aspetto delle loro positive innovazioni.

[55] Quali fonti del diritto (se non pure nella natura giuridica, negli effetti) sono poi state di recente trattate, sia pure sotto un peculiare aspetto, anche le decisioni della Corte di Strasburgo, assimilate dal nostro giudice costituzionale allo ius superveniens. Si è, pertanto, giustificata, a seguito della loro adozione, la restituzione alle autorità remittenti delle questioni di costituzionalità che abbiano fatto riferimento alla CEDU per una riconsiderazione della loro rilevanza [ord. n. 150 del 2012, e, su di essa, tra i molti commenti, E. Malfatti, Un nuovo (incerto?) passo nel cammino “convenzionale” della Corte, e A. Morrone, Shopping di norme convenzionali? A prima lettura dell’ordinanza n. 150/2012 della Corte costituzionale, entrambi in www.forumcostituzionale.it, rispettivamente, 29 giugno e 19 luglio 2012; G. Repetto, Corte costituzionale, fecondazione eterologa e precedente CEDU “superveniens”: i rischi dell’iperconcretezza della questione di legittimità costituzionale, in Giur. cost., 3/2012, 2069 ss.; V. Magrini, La scelta della restituzione degli atti nell’ordinanza della Corte costituzionale n. 150/2012; B. Liberali, La procreazione medicalmente assistita con donazione di gameti esterni alla coppia fra legislatore, giudici comuni, Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo; I. Pellizzone, Sentenza della Corte europea sopravvenuta e giudizio di legittimità costituzionale: perché la restituzione degli atti non convince. Considerazioni a margine dell’ord. n. 150 del 2012 della Corte costituzionale, tutti in www.rivistaaic.it, 3/2012; U. Salanitro, Il dialogo tra Corte di Strasburgo e Corte costituzionale in materia di fecondazione eterologa, in Nuova giur. civ. comm., 2012, II, 636 ss.; R. Romboli, Lo strumento della restituzione degli atti e l’ordinanza 150/2012: il mutamento di giurisprudenza della Corte Edu come ius superveniens e la sua incidenza per la riproposizione delle questioni di costituzionalità sul divieto di inseminazione eterologa, in Consulta Online, 26 febbraio 2013, e pure ivi, S. Agosta, La Consulta nel gioco di specchi riflessi tra Corti sopranazionali e giudici comuni (in tema di protezione giuridica della vita nascente), 23 luglio 2012, nonché, volendo, anche il mio La Corte costituzionale, i parametri “conseguenziali” e la tecnica dell’assorbimento dei vizi rovesciata (a margine di Corte cost. n. 150 del 2012 e dell’anomala restituzione degli atti da essa operata con riguardo alle questioni di costituzionalità relative alla legge sulla procreazione medicalmente assistita), 12 giugno 2012. Infine, R. Conti, CEDU, Costituzione e diritti fondamentali, cit., 253 ss.].

[56] V., spec., sent. n. 210 e ord. n. 235 del 2013 (e, su di esse, per un primo commento, F. Viganò, La Corte costituzionale sulle ricadute interne della sentenza Scoppola della Corte EDU, e Prosegue la ‘saga Scoppola’: una discutibile ordinanza di manifesta inammissibilità della Corte costituzionale, entrambe in www.penalecontemporaneo.it, rispettivamente 19 e 26 luglio 2013, e, pure ivi, G. Romeo, Giudicato penale e resistenza alla lex mitior sopravvenuta, cit.).

[57] Una opportuna sottolineatura di quest’ultimo punto, stranamente dimenticato dai critici ad oltranza dello “Stato giurisdizionale”, è ora in R. Conti, Le scelte morali e i diritti delle persone, cit., spec. al § 4.1.

[58] Sui tormentati rapporti tra bioetica e diritto costituzionale, fatti oggetto di una ormai imponente produzione di scritti e nondimeno bisognosi ancora di essere opportunamente chiarificati, richiamo qui solo, in aggiunta alla corposa relaz. da ultimo cit. di R. Conti, tra gli studi monografici più di recente apparsi, quelli di S. Agosta, Bioetica e Costituzione, I, Le scelte esistenziali di inizio-vita, cit., e II, Le scelte esistenziali di fine-vita, Giuffrè, Milano 2012, e A. Falcone, La tutela del patrimonio genetico umano fra Costituzione e diritti. Verso la formazione di un corpus iuris sul menoma umano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012. Infine, P. Veronesi, Costituzione e bioetica, in AA.VV., Per una consapevole cultura costituzionale. Lezioni magistrali, a cura di A. Pugiotto, Jovene, Napoli 2013, 67 ss.

[59] Si pensi, per tutte, alle questioni di fine-vita, attorno alle quali si è, da noi come altrove, assistito ad animate e tuttora non sopite discussioni che hanno coinvolto, unitamente alla cultura giuridica in tutte le sue espressioni, le forze politiche e la pubblica opinione (su di che, v., nuovamente, il II vol. dell’opera sopra cit. di S. Agosta).

[60] Ancora una volta, un banco di prova particolarmente attendibile è dato dalla giurisprudenza, che si è non di rado trovata costretta a rendere flessibili, riscrivendole, discipline legislative connotate da eccessiva rigidità.

[61] Non indugio ora sul carattere assai incerto e labile della linea divisoria tra siffatti tipi di norme, da tempo – come si sa – rilevato dalla più accorta dottrina, una linea la cui esistenza è tuttavia, perlomeno in alcuni suoi tratti maggiormente salienti, ictu oculi confermata.

[62] Nulla, naturalmente, esclude che siffatta opera di interpretazione “quasi-autentica” del dettato costituzionale possa risultare infedele, le leggi costituzionali non sottraendosi – come si sa – in astratto alla verifica della loro conformità rispetto ai principi fondamentali dell’ordinamento.

Di qui due conclusioni, alle quali a mio modo di vedere dovrebbe prestarsi la dovuta attenzione.

La prima è che nessun atto giuridico, foss’anche una legge costituzionale, può qualificarsi in senso proprio come interpretativo in modo autentico dei principi fondamentali. Come si è tentato di mostrare in altri luoghi, se è vero, infatti, che l’interpretazione autentica compete all’atto che, potendo astrattamente innovare all’atto interpretato, ne può altresì fissare autoritativamente il senso, se ne ha che nessun atto espressivo di potere costituito può dare la giusta, indiscutibile, interpretazione dei principi fondamentali, giusta la tesi secondo cui questi ultimi resistono a qualsivoglia innovazione normativa, quanto meno a quelle volte a ridurne la portata ed a determinarne il complessivo impoverimento.

La seconda è che l’ipotesi di un eventuale annullamento di legge costituzionale, già di per sé alquanto remota, appare viepiù difficilmente prospettabile con riferimento alle leggi di cui si fa ora parola nel testo che, a motivo dell’ampiezza strutturale dell’enunciato costituzionale cui si riferiscono, dispongono di ambiti materiali essi pure assai ampî entro i quali potersi dispiegare. Le leggi costituzionali, poi, proprio in ragione della procedura stabilita per la loro formazione, sembrano essere sorrette da una presunzione “rafforzata” di compatibilità rispetto ai principi, al cospetto di quella di cui pure godono le leggi comuni; e, soprattutto nel caso che esse dovessero essere approvate a larga o larghissima maggioranza ovvero confermate dall’eventuale consultazione popolare, sembra invero assai improbabile che il giudice costituzionale trovi in sé la forza per caducarle.

[63] Per vero, l’incontro in parola non è espressamente prescritto né può, dunque, escludersi che si diano, in una particolare congiuntura, rapporti tra le forze politiche rappresentate in Parlamento tali che le sole forze di maggioranza possano portare all’adozione di una legge costituzionale. Un largo consenso, tuttavia, si riscontra da noi in dottrina a riguardo del fatto che l’intesa raggiunta alla Costituente in sede di confezione della Carta debba altresì rinnovarsi per la sua modifica e, in genere, per l’avvento di una nuova disciplina di forma costituzionale. E, seppure ciò possa non aversi, così come invero non si è avuto, per talune, importanti innovazioni costituzionali (sopra tutte, quella che ha determinato nel 2001 la riscrittura dell’intero Titolo V della Parte II), non sembra immaginabile per la definizione dei diritti fondamentali, vecchi o nuovi che siano.

[64] Naturalmente può darsi il caso che l’incontro tra le forze politiche non si riesca a raggiungere, proprio per il difetto delle consuetudini culturali suddette. Considero tuttavia assai meno grave questo inconveniente rispetto all’altro, di segno opposto, che potrebbe aversi a seguire la tesi, come si sa largamente accreditata, favorevole ad una disciplina dei nuovi diritti in via diretta ed esclusiva tramite legge comune. Trovo francamente inquietante che su questioni – è proprio il caso di dire (e mi scuso per il bisticcio di parole) – di vitale rilievo, quali quelle relative all’inizio o alla fine della vita, possa venire alla luce una regolazione a colpi di maggioranza, magari dalla stessa maggioranza subito appresso ulteriormente innovata, secondo occasionali convenienze, legate agli equilibri che si fanno e rifanno senza sosta in ambiente politico.

[65] Particolarmente sottolineato da una sensibile dottrina l’apporto che le Regioni (e le autonomie territoriali in genere) possono offrire alla tutela dei diritti fondamentali. Le considerazioni svolte nel testo, con la distinzione in esse rimarcata dei ruoli rispettivamente giocati dalla legge costituzionale e dalle leggi comuni, dovrebbero tranquillizzare quegli autori che si sono dichiarati risolutamente contrari ad ammettere che possa darsi una disciplina regionale (statutaria o legislativa) a salvaguardia dei diritti stessi.

[66] Maggiori ragguagli a riguardo della distinzione, ora ripresa nel testo, tra riconoscimento e tutela normativa dei diritti fondamentali possono, volendo, aversi dal mio La tutela “multilivello” dei diritti fondamentali, tra esperienze di normazione e teorie costituzionali, in Pol. dir., 3/2007, 317 ss.

[67] Così, invece, ancora di recente, M. Luciani, Funzioni e responsabilità della giurisdizione, cit., spec. al § 4, ma passim, e, dello stesso, Dottrina del moto delle costituzioni e vicende della Costituzione repubblicana, in www.rivistaaic.it, 1/2013, e Legislatore e giudici nella protezione dei diritti fondamentali, cit., spec. al § 4; diversamente, A. Gusmai, Ermeneutica e interpretazione costituzionale nell’effettività del diritto, relaz. al Seminario su Lo studio delle fonti del diritto e dei diritti fondamentali in alcune ricerche dottorali, cit.

[68] Il riferimento è, com’è chiaro, a F. Modugno, L’invalidità della legge, I e II, Giuffrè, Milano 1970, nonché in altri scritti.

[69] … e, perciò, di un’attività che è, in nuce, normativa, ancorché con effetti circoscritti al caso, quale in buona sostanza si ha, ad es., con riguardo alle additive di principio che, in attesa dell’intervento riparatore del legislatore, sollecitato a varare le regole idonee a dare svolgimento al principio somministrato dal giudice costituzionale, vengono per l’intanto “attuate” dai giudici.

[70] Sulla questione, come si sa ampiamente discussa, di recente e per tutti, v. F. Mannella, Giudici comuni e applicazione della Costituzione, Editoriale Scientifica, Napoli 2011; R. Conti, CEDU, Costituzione e diritti fondamentali, cit., spec. 241 ss. Da una prospettiva di più ampio respiro, su L’autoapplicabilità delle norme. Un percorso costituzionale, v. lo studio monografico di A. Guazzarotti, Jovene, Napoli 2011.

[71] Molto invero potrebbe discutersi (ma in altro luogo a ciò specificamente dedicato) circa la correttezza di siffatta qualifica, che evoca talune formidabili questioni della teoria costituzionale che investono in nuce la funzione legislativa e gli atti che ne costituiscono esercizio. Per ciò che, in modo appena accennato, se ne può qui dire, a me pare che, avuto riguardo non già alla forma bensì alla sostanza delle leggi, occorra in realtà distinguere in base a ciò che esse contengono e soprattutto al modo con cui è forgiata la struttura nomologica dei singoli atti (a mezzo di statuizioni fatte a maglie ora più ed ora meno larghe), solo per alcuni atti dunque potendo valere la categoria della “discrezionalità”, fatta nondimeno oggetto di corpose precisazioni teoriche rispetto all’uso che se ne fa al piano dell’amministrazione, al quale – come si sa – essa ha rinvenuto il terreno elettivo per la propria affermazione. D’altro canto, anche gli enunciati costituzionali non sono fatti tutti allo stesso modo e possono dunque esprimere vincoli nei riguardi del legislatore ora solo negativi, ora invece positivi, secondo una scala di ampiezza e d’intensità internamente assai varia.

[72] … senza, peraltro, escludere a quest’ultimo riguardo i benefici effetti che possono sortire dall’estensione del “dialogo” stesso a Corti non europee (su di che, da ultimo, T. Groppi - A.M. Lecis Cocco-Ortu, Le citazioni reciproche tra la Corte europea e la Corte interamericana dei diritti dell’uomo: dall’influenza al dialogo?, in www.federalismi.it, 19/2013).


Spunti di riflessione in tema di applicazione diretta della CEDU e di efficacia delle decisioni della Corte di Strasburgo (a margine di una pronunzia del Trib. di Roma, I Sez. Civ., che dà “seguito” a Corte EDU Costa e Pavan)

Sommario: 1. Il caso e la questione cruciale in esso riproposta, relativa alla possibile (e, però, per ciò stesso, doverosa) applicazione diretta della Convenzione. – 2. Critica della singolare argomentazione addotta dal tribunale romano a sostegno del doppio regime valevole in presenza di antinomie tra leggi nazionali e Convenzione, dovendosi – a suo dire – far luogo ora all’applicazione immediata della seconda, laddove contenga una disciplina puntuale, ed ora all’esperimento di una questione di legittimità costituzionale nel caso che, pur essendo la Convenzione stessa autoapplicativa, si ponga in contrasto coi principi supremi dell’ordinamento costituzionale. – 3. La soluzione qui patrocinata: il giudice comune, che non sospetti la violazione della Costituzione da parte di norma CEDU, non può in alcun caso rivolgersi al giudice delle leggi, sia che la norma convenzionale cui è chiamato a dare esecuzione gli appaia autoapplicativa e sia pure che tale non sia, nel qual ultimo caso dovendosi comportare così come è solito fare in presenza di pronunzie della Corte costituzionale additive di principio. – 4. Se la soluzione qui accolta possa (e debba) valere in ogni altra sede giudiziaria in cui si ritrovi con identità di caratteri oggettivi il medesimo caso demandato al giudice dell’esecuzione: argomenti a favore di siffatta estensione, in prospettiva assiologicamente orientata (e, segnatamente, alla luce del principio di eguaglianza). – 5. Concretezza dei giudizi e vocazione dei casi, nella loro oggettiva connotazione, alla loro “universalizzazione”: i verdetti dei giudici comuni “conseguenziali” a pronunzie della Corte EDU e il bisogno che in essi sia fatto integralmente salvo il principio di eguaglianza. – 6. Conferme della estensione del vincolo discendente dalle pronunzie della Corte EDU che si hanno per effetto della tendenza crescente del giudice europeo alla propria “costituzionalizzazione”, in un contesto segnato da un’integrazione sovranazionale ormai avanzata e dal bisogno, viepiù avvertito, di una costante, mutua alimentazione semantica delle Carte e di un parimenti costante “dialogo” tra le Corti, che per la sua parte, lungi dallo svilire, ancora di più sottolinea il ruolo di centrale rilievo svolto dai giudici comuni in vista di un’ottimale salvaguardia dei diritti. – 7. Una previsione ed un auspicio finali.

 

1.Il caso e la questione cruciale in esso riproposta, relativa alla possibile (e, però, per ciò stesso, doverosa) applicazione diretta della Convenzione

La pronunzia cui si dirigono queste annotazioni, fatte a prima lettura, è stata emessa il 23 settembre 2013 dietro ricorso ex art. 700 c.p.c. presentato dai coniugi Costa e Pavan avverso l’ASL di Roma A e il centro di Tutela della Salute della Donna e del Bambino S. Anna, rifiutatisi di dar modo alla sig.ra Costa di accedere al trattamento di procreazione assistita con diagnosi genetica pre-impianto, a motivo del fatto che la coppia non risulta affetta da sterilità e ricade pertanto nel divieto al riguardo stabilito dalla legge n. 40 del 2004. In particolare, l’ASL ha eccepito che, in difetto dell’intervento riparatore posto in essere dal legislatore al fine di rendere in tutto conforme il dettato legislativo ai precetti della Convenzione, così come intesi e fatti valere dalla Corte di Strasburgo nella sua pronunzia dell’agosto 2013 (divenuta definitiva nel febbraio 2013), resta precluso alle coppie fertili ancorché portatrici di malattie genetiche trasmissibili di accedere alle tecniche di PMA, restando consentiti i soli interventi sull’embrione a finalità diagnostica e terapeutica[1].

La decisione qui annotata esibisce un’argomentazione assai articolata, che meriterebbe di essere presa in considerazione in modo parimenti articolato e approfondito. Qui tuttavia si fermerà l’attenzione unicamente su un punto, peraltro di cruciale rilievo, avuto riguardo alle forme del rilievo interno delle pronunzie della Corte EDU, laddove specificamente investano – come nel caso odierno – norme legislative non conformi a Convenzione e non ancora rimosse dal suo autore né fatte oggetto di intervento caducatorio da parte del giudice costituzionale[2].

Il Tribunale di Roma pone la questione nei giusti termini e, sotto un certo profilo che subito si dirà, la risolve, a mia opinione, correttamente nel merito; lascia, di contro, perplessi la motivazione addotta, anche (e soprattutto) in vista di ulteriori applicazioni del “giudicato” convenzionale a casi analoghi.

Si tratta, infatti, di stabilire – dice il giudice romano – se l’efficacia immediata e diretta della pronunzia emessa a Strasburgo resti circoscritta all’aspetto risarcitorio a carico dello Stato, a motivo della violazione patita dalle parti del diritto riconosciuto dalla Convenzione, ovvero se l’accertamento della violazione stessa “sia destinato a ripercuotersi sul diritto interno”.

Il Tribunale non esita a schierarsi per il secondo corno dell’alternativa, giudicando possibile (e, anzi, doverosa) la disapplicazione della legge “anticonvenzionale” con riferimento alle parti vittoriose a Strasburgo, dal momento che al verdetto della Corte EDU è da assegnare “valore assimilabile al giudicato formale” per il procedimento in corso, mentre riconosce essere “di più incerta soluzione” la questione della immediata applicazione della norma convenzionale a casi analoghi[3]. E si appoggia al riguardo a precedenti indicazioni in tal senso date dalle Sezioni Unite della Cassazione (in una pronunzia, però, la n. 28507 del 23 dicembre 2005, anteriore alle sentenze “gemelle” del 2007 della Consulta).

 

2.Critica della singolare argomentazione addotta dal tribunale romano a sostegno del doppio regime valevole in presenza di antinomie tra leggi nazionali e Convenzione, dovendosi – a suo dire – far luogo ora all’applicazione immediata della seconda, laddove contenga una disciplina puntuale, ed ora all’esperimento di una questione di legittimità costituzionale nel caso che, pur essendo la Convenzione stessa autoapplicativa, si ponga in contrasto coi principi supremi dell’ordinamento costituzionale

L’argomento “forte” addotto dal giudice romano fa riferimento alla struttura della sentenza del giudice europeo: una volta, infatti, che da essa si ricavi – come nella specie – una regola “sufficientemente precisa ed incondizionata”, che si dimostri idonea a prendere subito il posto della disciplina legislativa incompatibile con la Convenzione, se ne ha che della prima può (e deve) farsi immediata applicazione in vece della seconda. Di contro, aggiunge il Tribunale, la rimessione degli atti alla Consulta si giustificherebbe, “pur in presenza di una regola CEDU autoapplicativa”, laddove si evidenzi un contrasto tra quest’ultima e i principi supremi dell’ordinamento costituzionale.

Qui, si rende subito palese, a mia opinione, uno slittamento di piano dell’argomentazione. Il doppio regime, che vede una questione di “convenzionalità” ora definita dal giudice comune con la immediata disapplicazione della fonte interna incompatibile con la CEDU (accompagnata dall’applicazione di quest’ultima) ed ora sottoposta alla cognizione del giudice costituzionale, richiama subito alla mente il parimenti doppio regime, come si sa, valevole per i casi di antinomia tra leggi e diritto dell’Unione. Solo che con riguardo a questi ultimi, esso si giustifica non tanto in ragione del diverso parametro costituzionale di volta in volta evocato in campo, siccome passibile di violazione da parte delle norme ad esso subordinate, bensì (ed esclusivamente) in considerazione della struttura nomologica degli atti “eurounitari” – come a me piace chiamarli – cui non sia prestato ossequio da parte delle fonti di diritto interno, a seconda cioè che essi siano o no self-executing. Poi, è pur vero che – per l’indirizzo giurisprudenziale ormai invalso alla Consulta[4] – le norme dell’Unione in genere (siano, o no, autoapplicative) vanno incontro, al momento del loro ingresso in ambito interno, al solo limite dei principi di base dell’ordinamento (i c.d. “controlimiti”); ma questo vale appunto sempre, sia che si faccia questione della loro eventuale, immediata applicazione nelle sedi della giustizia comune e sia pure che, a motivo della loro struttura, si debba invece andare al giudizio della Corte costituzionale.

Nel caso nostro, non si capisce perché mai la Corte stessa debba essere chiamata in campo unicamente nel caso che si dubiti della osservanza dei principi suddetti da parte delle norme convenzionali, ove si ammetta – in forza della direttiva d’azione al riguardo impartita dalla Consulta ai giudici comuni a partire dal 2007 – che la CEDU è fonte “subcostituzionale”, come tale in tutto e per tutto soggetta all’osservanza di qualsivoglia norma costituzionale[5]. Su siffatta qualifica, per ragioni che sono state enunciate altrove, personalmente non convengo; ma non è di ciò che dobbiamo ora nuovamente trattare. Il punto è che, sospettando la incompatibilità tra la Convenzione e la Carta costituzionale – siano, o no, in ballo norme di questa espressive di principi fondamentali –, il giudice non potrebbe, a stare all’orientamento della Consulta ormai affermatosi, sottrarsi all’obbligo di rimettere gli atti alla Consulta stessa. Se, di contro, si reputa – come, appunto, ha reputato il Tribunale nella circostanza odierna, sia pure in un quadro concettuale non nitido in ogni sua parte e linearmente rappresentato – che un problema di incompatibilità tra le Carte suddette non si ponga, l’unico accertamento cui parrebbe doversi far luogo è quello relativo all’attitudine della norma convenzionale ad essere portata ad immediata applicazione. Così, perlomeno, è da dire a stare all’ordine di idee, fatto proprio dal giudice romano, della possibile applicazione diretta della Convenzione.

Siamo sicuri, però, che le cose stanno davvero così?

 

3.La soluzione qui patrocinata: il giudice comune, che non sospetti la violazione della Costituzione da parte di norma CEDU, non può in alcun caso rivolgersi al giudice delle leggi, sia che la norma convenzionale cui è chiamato a dare esecuzione gli appaia autoapplicativa e sia pure che tale non sia, nel qual ultimo caso dovendosi comportare così come è solito fare in presenza di pronunzie della Corte costituzionale additive di principio

In realtà, l’accostamento tra il doppio regime che governa le antinomie tra diritto interno e diritto “eurounitario” in dipendenza del carattere strutturale delle norme di quest’ultimo e il parimenti doppio regime che starebbe a base delle antinomie con la Convenzione non regge per una ragione di fondo, che va oltre le previsioni che al riguardo sono contenute nel trattato di Lisbona, con la “copertura” ad esse offerta dall’art. 11 Cost. Ed è che, in casi come quello che ha dato lo spunto per queste notazioni, si tratta di dare esecuzione in ambito interno ad un verdetto della Corte di Strasburgo, a norma dell’art. 46 della CEDU[6]. Il giudice nazionale è, dunque, il terminale di una vicenda processuale che parte dall’ordine interno, dove si è consumata una violazione della Convenzione, e, dopo il passaggio da Strasburgo, a quest’ultimo torna, per quindi in esso trovare finalmente ricetto.

Ora, se il giudice comune, al quale si fa richiesta di portare ad effetto il giudicato convenzionale, dovesse a questo fine rivolgersi ad altro giudice (foss’anche quello costituzionale…), non sarebbe più appropriato discorrere di una “esecuzione” del giudicato stesso e la vicenda tornerebbe innaturalmente a riaprirsi, contraddicendo lo stesso giudizio emesso a Strasburgo che, per il solo fatto di essersi avuto, attesta l’esaurimento dei rimedi processuali di diritto interno. Resta ovviamente salvo il caso che il giudice sospetti la violazione da parte della Convenzione, per come fattasi “diritto vivente”, nei riguardi della Costituzione; ciò che potrebbe portare a sollevare una questione di costituzionalità della norma convenzionale, per il tramite della legge che vi dà esecuzione[7], non già però della norma interna che si assuma incompatibile con la disciplina convenzionale[8]. Questo non era però il caso che ha portato alla pronunzia del tribunale romano.

Insomma, il giudice cui la parte si rivolge affinché sia data esecuzione alla decisione del giudice europeo non può, a sua volta, rivolgersi alla Consulta, neppure dunque laddove la norma convenzionale gli appaia priva dell’attitudine ad essere portata ad immediata applicazione. In realtà, molte volte si tratta appunto di una mera apparenza; ammettiamo pure, però, che, in una circostanza data, la Convenzione gli sembri non autoapplicativa. Cosa potrebbe fare per dare, com’è giusto che sia, finalmente appagamento alla domanda di giustizia postagli dalle parti offese da legge “anticonvenzionale”?

Mi pare che il caso possa assimilarsi a quello che – come si sa – si ha in presenza di pronunzia additiva di principio della Corte costituzionale. Il fatto che quest’ultima non sia self-executing, mentre per un verso attiva l’obbligo del legislatore di darvi l’opportuno svolgimento normativo (a valenza erga omnes), per un altro non esclude (ed anzi implica) nel frattempo il doveroso intervento del giudice, chiamato ad estrarre dal principio aggiunto dalla Corte la regola buona per il caso[9].

Non torno ora a discutere della linearità della costruzione giurisprudenziale ormai invalsa, che solleva plurimi e – a me pare – ad oggi irrisolti interrogativi. Sta di fatto che il giudice comune è qui sollecitato a porre in essere un’attività – va detto con chiarezza – che è, in nuce, di produzione normativa, trattandosi non di una mera applicazione bensì di una vera e propria attuazione del principio, ancorché la regola desunta dal principio stesso risulti – com’è ovvio – priva dell’attitudine a portarsi oltre il caso (e le parti). Ed è un’attività che lo stesso giudice costituzionale ha riconosciuto essergli preclusa, ad essa opponendosi il rispetto della discrezionalità del legislatore (limite, questo, non valevole per il giudice comune, sia per il fatto che quest’ultimo non dà vita ad atti aventi efficacia generale e sia perché, ove non facesse luogo alla produzione della regola buona per il caso, si renderebbe responsabile di denegata giustizia). Un’attività, infine, che è essa pure di “giustizia costituzionale”, offrendo il giudice comune il proprio concorso al perfezionamento di un’operazione di bonifica costituzionale dimostratasi impossibile ad aversi in modo pieno nella sede sua propria.

Al pari, poi, di ciò che si ha in presenza delle pronunzie della Corte costituzionale cui è ora fatto riferimento, resta fermo, anche sul versante dei rapporti con la Convenzione (nel suo farsi “diritto vivente”), l’obbligo del legislatore di rimuovere con effetti generali la causa della violazione della Convenzione, abrogando o variamente modificando la disciplina interna con essa incompatibile.

 

4.Se la soluzione qui accolta possa (e debba) valere in ogni altra sede giudiziaria in cui si ritrovi con identità di caratteri oggettivi il medesimo caso demandato al giudice dell’esecuzione: argomenti a favore di siffatta estensione, in prospettiva assiologicamente orientata (e, segnatamente, alla luce del principio di eguaglianza)

Rimane da chiedersi se la soluzione qui patrocinata valga per il solo giudice cui si siano rivolte le parti vittoriose a Strasburgo ovvero possa (o debba) estendersi altresì ad ogni altro giudizio attivato in ambito interno e che si presenti in tutto e per tutto identico a quello in cui è data esecuzione al verdetto della Corte EDU.

La questione è – come si sa – agitata da tempo ed ha avuto modo di riproporsi specie col caso Scoppola. In nuce, si tratta di stabilire se l’accostamento tra le pronunzie del giudice europeo e quelle del giudice costituzionale possa spingersi fino al punto di considerare anche le prime provviste di quella efficacia “normativa” che è ormai riconosciuta alle seconde (con specifico riguardo a quelle “manipolative”)[10].

La risposta che usualmente si dà è – com’è noto – negativa; e tale è stata, ancora di recente, quella data dalla Consulta con sent. n. 210 del 2013, sopra già richiamata, con riguardo ad un caso in tutto identico a quello di Scoppola. Eppure, lo stesso giudice delle leggi, in una sua parimenti recente e nota decisione, essa pure in materia di accesso alla procreazione medicalmente assistita, la n. 150 del 2012[11], ha trattato una novità giurisprudenziale venuta alla luce a Strasburgo al pari di ciò che si ha in presenza di uno ius superveniens per effetto del quale si giustifichi una nuova valutazione, da parte dei giudici remittenti, della rilevanza di questioni di costituzionalità dapprima sollevate. È vero che lo stesso giudice costituzionale dà, in via generale, mostra di voler tenere nettamente distinto il diritto giurisprudenziale dal c.d. “diritto politico” (o, per dir meglio, dal “diritto legislativo”[12]), secondo quanto si precisa in Corte cost. n. 230 del 2012, laddove si esclude che il mutamento giurisprudenziale (segnatamente, della Cassazione) possa, in alcun caso o modo, produrre i medesimi effetti di vincolo che sono propri delle norme di legge. Non è chi non veda, però, come ciò che si reputa valere per i verdetti dei giudici comuni[13] non è detto che valga altresì per il giudice europeo, così come, per altro verso, di sicuro non vale per il giudice costituzionale, alle cui decisioni (quanto meno a quelle caducatorie, specie se manipolative) usualmente – come si diceva – si assegna valore “normativo”.

Il profilo della eguaglianza, poi, come più d’uno ha fatto notare in relazione al caso Scoppola e ad altre vicende che hanno fatto particolarmente discutere, obbliga a riconsiderare, senza alcun preorientamento ideologico o di dottrina, la questione relativa alla estensione oltre la cerchia delle parti degli effetti prodotti dal decisum convenzionale, affinché non abbiano ad aversi più – com’è stato felicemente detto[14] – “figli di un Dio minore”.

Il punto non può essere ora convenientemente trattato, evocando in campo talune generali questioni di particolare impegno teorico, come tali bisognose di uno spazio qui non disponibile. Riservandomi di tornare a dirne in altra e più acconcia sede, mi limito al momento unicamente ad osservare che al fondo della questione ora accennata sta una scelta di campo, che è a un tempo di teoria della Costituzione e di metodo nello studio del diritto costituzionale. Perché, a conti fatti, si tratta di stabilire se la prospettiva dalla quale vanno riguardate le esperienze costituzionalmente rilevanti (e, segnatamente, per ciò che ora interessa, quelle che maturano al piano delle relazioni interordinamentali) debba connotarsi come formale-astratta ovvero se – come a me pare – debba piuttosto essere d’ispirazione assiologico-sostanziale, avendo come suo primario ed indeclinabile obiettivo la valorizzazione dei valori fondamentali (e, in ispecie, della coppia di libertà ed eguaglianza, nelle loro mutue ed inscindibili implicazioni[15]), la integrale ed effettiva salvaguardia della loro congenita vocazione a permeare l’intero ordinamento, lasciando in ogni sua parte un segno marcato della loro perdurante vigenza.

Numerose testimonianze si hanno nella giurisprudenza costituzionale, specie la più recente, dell’orientamento a riconsiderare le relazioni interordinamentali[16], specie nelle loro proiezioni processuali, dalla prospettiva che ha nei valori fondamentali la stella polare che illumina il cammino degli operatori fino alla meta in cui la giustizia può rivelarsi, conformemente alla propria indeclinabile vocazione, autenticamente giusta, siccome effettivamente idonea, alle condizioni complessive di contesto, ad offrire un servizio ai bisogni elementari e più intensamente avvertiti dell’uomo.

Mi limito solo ad enunciare i principali di essi, senza alcun commento.

E così – tralasciando ora di battere il versante dei rapporti tra diritto interno e diritto “eurounitario”, il cui assetto poggia sui valori di pace e giustizia tra le Nazioni, alla cui luce si è, come si sa, riconosciuta dignità “paracostituzionale” al secondo nelle sue espressioni positive rilevanti in ambito interno – si pensi solo al canone della tutela più “intensa” (part., sent. n. 317 del 2009 e succ.)[17], in nome della quale può farsi ugualmente applicazione di leggi ancorché incompatibili con la Convenzione, allo stesso modo con cui però, a mia opinione, può darsi la precedenza a quest’ultima pur se contraria a singole norme costituzionali, sempre che idonea a servire al meglio la Costituzione medesima come “sistema” (spec. sentt. nn. 236 del 2011 e 264 del 2012 e, più di recente, 170 e 202 del 2013), quale risultante cioè all’esito di operazioni di bilanciamento (appunto, secondo valore) tra gli interessi in campo[18]. Un bilanciamento che – a dire della Consulta – può persino comportare la messa da canto di norme costituzionali sulla normazione (ad es., dell’art. 117, I c.) per far posto a norme sostantive bisognose di prioritaria considerazione, proprio alla luce dei valori in gioco e delle loro mobili combinazioni in ragione dei casi[19].

Ancora, è in nome dei valori (e, segnatamente, del valore personalista quale perno dell’intero sistema costituzionale, anche nel suo porsi in rapporto con altri sistemi[20]) che lo stesso giudicato interno può trovarsi a recedere davanti al giudicato convenzionale, laddove il secondo si dimostri idoneo ad offrire una salvaguardia ai diritti fondamentali della persona maggiormente accresciuta di quella offerta dal primo (sent. n. 113 del 2011)[21].

In fondo, poi, se ci si pensa, è sempre in nome dei valori (e, segnatamente della coppia costituita da libertà ed eguaglianza) che, nell’ultima giurisprudenza costituzionale[22], si è dato particolare risalto alle c.d. sentenze-pilota del giudice europeo, con ciò naturalmente portando all’esito della estensione degli effetti da esse prodotte oltre l’hortus conclusus delle singole vicende processuali che ne determina la emanazione. Certo, si potrà pur fare al riguardo richiamo al bisogno di una maggiore economicità ed efficienza nell’esercizio della giurisdizione; in disparte tuttavia la circostanza per cui anche siffatti connotati sono pur sempre pensati al servizio, oltre che della collettività, di quanti specificamente avanzano domande di giustizia[23], il vero è che a base del rilievo oggi dato alle pronunzie in parola c’è il bisogno, ancora più intensamente avvertito e meritevole di considerazione, di apprestare una giustizia giusta, eguale per tutti coloro che versano nella identica situazione di fatto e di diritto.

 

5.Concretezza dei giudizi e vocazione dei casi, nella loro oggettiva connotazione, alla loro “universalizzazione”: i verdetti dei giudici comuni “conseguenziali” a pronunzie della Corte EDU e il bisogno che in essi sia fatto integralmente salvo il principio di eguaglianza

Qui è il cuore della questione ora sommariamente discussa.

Commettono un grave errore di prospettiva (e, di conseguenza, di ricostruzione) quanti – e, come si sa, sono tanti – ritengono che gli effetti delle pronunzie della Corte EDU non possano che restare circoscritti al caso, poiché al caso stesso rimane strettamente ed inscindibilmente legato il verdetto emesso a Strasburgo, nel dispositivo così come (e soprattutto) nella parte motiva. Il punto è, però, che il caso va pur sempre visto nella sua complessiva connotazione oggettiva, quale risulta dai materiali normativi e fattuali assieme che compongono l’oggetto del giudizio. Al di là dei soggetti, ciò che rileva è il caso in sé, la singola vicenda processuale vista però nella sua capacità di “universalizzarsi”, di tornare a ripetersi coi medesimi caratteri oggettivi in vicende processuali a parti diverse[24].

La concretezza del giudizio non si discute; è – come si sa – una risorsa preziosa che dà modo al giudice, che sappia coglierla e sfruttarla appieno, di pervenire a quella giustizia giusta, di cui un momento fa si diceva, che resterebbe altrimenti non realizzata qualora il giudice, tradendo la funzione (ed anzi la vera e propria missione) al cui esercizio è chiamato, non si piegasse sull’umana vicenda portata alla sua cognizione, sui bisogni delle persone che fiduciose gli si rivolgono, vagliandoli alla luce, sì, delle norme in vigore ma riguardate per ciò che esse hanno da dare al servizio dei valori e dell’uomo[25]. Tutto ciò non soltanto non si avrebbe ma, verosimilmente, si avrebbe in modo distorto (con le prevedibili conseguenze a discapito della giustizia e di coloro che ad essa si affidano) ove il giudice si rinchiudesse in se stesso ed assumesse di poter giudicare in vitro (ed in prospettiva formale-astratta), anziché – come, a mia opinione, deve – in vivo (ed in prospettiva assiologico-sostanziale).

Lo stesso giudice costituzionale, che pure parrebbe per tabulas abilitato ad emettere verdetti connotati da generalità e, almeno in alcuni casi, da astrattezza[26], al pari delle leggi che essi assumono ad oggetto[27], formula – è ormai provato – giudizi dotati di un “tasso” assai elevato di concretezza[28], segnatamente nei giudizi in via incidentale (ma, a mia opinione, anche al di fuori di questi[29]).

La concretezza del giudizio è, dunque, una cosa; l’attitudine del giudizio stesso a portarsi oltre la singola vicenda giudiziaria un’altra. Perché, al tirar delle somme, è il caso stesso, nella sua oggettiva conformazione, ad esprimere una irresistibile vocazione in tal senso, ad “universalizzarsi” appunto, dal momento che è insita nell’idea stessa di giustizia, per il modo con cui è venuta a maturazione a seguito di una sofferta e lunga vicenda storica di carattere istituzionale, la sua aspirazione ad essere somministrata in modo eguale a quanti versano in situazioni parimenti eguali, così come in modo diverso per situazioni diverse.

Ora, non è di qui stabilire come tutto ciò si concilii con la (supposta) mancanza di vincolo della osservanza del precedente, che si reputa essere propria dei sistemi di civil law, e, prima, ancora con l’autonomia ed indipendenza riconosciuta al singolo giudice ed all’intero ordine cui esso appartiene[30]. Ciò che solo qui importa è se del vincolo in parola si abbia (e debba aversi[31]) traccia nelle pratiche di giustizia comune “conseguenziali” – per dir così – a pronunzie della Corte EDU e, prima ancora, nelle stesse pronunzie della Corte medesima, esse pure chiamate a comporsi in “indirizzi”, nel senso appena chiarito.

 

6.Conferme della estensione del vincolo discendente dalle pronunzie della Corte EDU che si hanno per effetto della tendenza crescente del giudice europeo alla propria “costituzionalizzazione”, in un contesto segnato da un’integrazione sovranazionale ormai avanzata e dal bisogno, viepiù avvertito, di una costante, mutua alimentazione semantica delle Carte e di un parimenti costante “dialogo” tra le Corti, che per la sua parte, lungi dallo svilire, ancora di più sottolinea il ruolo di centrale rilievo svolto dai giudici comuni in vista di un’ottimale salvaguardia dei diritti

Dopo le cose dette, credo che la risposta al quesito dianzi posto a riguardo della estensione del vincolo discendente dalle pronunzie della Corte EDU, ancorché bisognosa – come avvertivo – di precisazioni che non possono in questa sede trovare posto, debba essere affermativa. E ciò, per plurime ragioni, la principale delle quali è che il giudice di Strasburgo, al pari peraltro di quello di Lussemburgo[32], manifesta una tendenza crescente e sempre più vistosa, prontamente rilevata da un’accorta e sensibile dottrina[33], alla propria “costituzionalizzazione”, così come, dal canto loro, i tribunali costituzionali (specie invero alcuni, maggiormente attenti alle suggestioni provenienti dalle Corti europee) tendono ad “internazionalizzarsi” e ad “europeizzarsi”. Una tendenza che, di necessità, ha da accompagnarsi alla (e ad appoggiarsi sulla) attitudine delle pronunzie emesse da tutti questi giudici, specificamente laddove riguardanti i diritti fondamentali, a dare, a un tempo, certezza del diritto e certezza dei diritti (e, per ciò stesso, effettività della loro tutela).

È vero – va riconosciuto – che quelle appena indicate sono appunto delle tendenze, come tali bisognose di stabilizzarsi e di dotarsi delle opportune conferme. Già però, come si faceva poc’anzi notare a riguardo delle sentenze-pilota, si hanno molti segni che le avvalorano e che rendono testimonianza del loro progressivo radicamento nell’esperienza.

Non credo di spingermi troppo oltre nel considerare questo processo irreversibile, anche (ma non solo) a motivo dell’infittirsi delle relazioni interordinamentali e – ciò che maggiormente importa – della mutua interdipendenza tra Carte (e tra Corti), sempre più bisognose di sorreggersi e di alimentarsi a vicenda nei fatti interpretativi: specchio fedele di una integrazione sovranazionale in atto ormai avanzata, pur se – come si sa – non poco sofferta ed a tratti altalenante.

In questo quadro, qui appena accennato, di non poco momento si dimostra essere il ruolo che i giudici comuni sono chiamati ad esercitare, in spirito di “leale cooperazione” coi giudici europei e coi tribunali costituzionali[34].

L’applicazione diretta della Convenzione, pur laddove si reputi ammissibile unicamente al ricorrere di talune circostanze e non pure in via generale[35], s’inscrive in questo contesto e può dar modo ai giudici di rafforzare i rapporti che li legano alla Corte europea, al pari di quelli che già da tempo essi intrattengono con la Corte di giustizia (e – naturalmente – con la Corte costituzionale)[36], rapporti che promettono di infittirsi ulteriormente per effetto, per un verso, della prevista adesione dell’Unione alla CEDU[37] e, per un altro verso, delle richieste di “consulenza” che potranno essere rivolte alla Corte di Strasburgo a seguito dell’entrata in vigore del protocollo 16 che promette di non tardare a lungo[38].

 

7.Una previsione ed un auspicio finali

Vorrei chiudere con una previsione ed un auspicio.

La prima. Riflettendo, con una certa costanza, sulle più salienti espressioni della giurisprudenza (sia interna che sovranazionale) specificamente riguardante i diritti fondamentali, vado radicandomi sempre di più nel convincimento che tanto l’applicazione diretta della Convenzione quanto l’estensione della cerchia degli effetti prodotti dalle decisioni della Corte che ne è istituzionalmente garante prenderanno sempre di più piede nelle pratiche giudiziali di diritto interno. Sarà, verosimilmente, un processo lungo ed anche non poco travagliato, ma che la tendenza sia appunto questa personalmente non ho dubbi.

Il secondo. Sono altresì persuaso che lo stesso giudice delle leggi, il cui orientamento di “chiusura” nei riguardi dell’applicazione diretta parrebbe restare fermo e saldo sulle basi concettuali edificate con le sentenze “gemelle” del 2007, andrà col tempo a ritagliare spazi di una certa consistenza a beneficio dell’applicazione stessa[39], dopo che finalmente si sarà avveduto che nulla ha da perdere né la centralità del suo posto nel sistema istituzionale né il primato della Costituzione nel sistema degli atti produttivi di norme e che, piuttosto, proprio grazie a siffatta tecnica di risoluzione delle antinomie, si potrà sensibilmente allentare la tensione che, in casi non sporadici, ha segnato lo svolgimento delle relazioni della nostra Corte con quella europea. D’altro canto, proprio allargando la cerchia delle sedi istituzionali in cui si somministra giustizia, sia costituzionale che comune, si possono evitare talune esasperazioni o personalizzazioni dei conflitti che nocciono ad una sana e vigilata “leale cooperazione” tra i giudici, allo stesso tempo ricercando, attraverso un “dialogo” il più ampio e fitto possibile, le soluzioni ottimali per l’appagamento dei bisogni elementari dell’uomo. Il concorso corale, non già la sua chiusura unicamente a due o tre voci, è, a mio modo di vedere, la prospettiva giusta e feconda, da coltivare con passione e coraggio, se si ha a cuore di rendere un buon servizio, in pari misura, a tutte le Carte ed ai diritti in esse riconosciuti.

[1] Si faccia sin d’ora caso al fatto che, a differenza di una sensibile giurisprudenza preoccupata di dare pronto e fedele “seguito” alle pronunzie della Corte EDU, l’amministrazione è restìa ad attivarsi in tal senso, dando così testimonianza di talune pastoie che ad oggi l’avvolgono e ne impediscono l’agile e sollecito svolgimento al servizio dei diritti riconosciuti nella Convenzione.

[2] Come si sa, sulla legge 40 sono ad oggi pendenti alla Consulta talune questioni di costituzionalità che riguardano proprio la sua conformità alla Convenzione; e sarà da vedere quale considerazione sarà data all’orientamento nel frattempo manifestato dal giudice europeo.

[3] Di ciò, d’altronde, il giudice non doveva farsi carico, restando per sua natura circoscritta la pronunzia che era chiamato ad emettere alle sole parti ricorrenti. Il di più avrebbe, dunque, avuto un rilievo meramente culturale, da cui nondimeno avrebbero potuto trarre profitto altri giudici.

[4] … nel quale, nondimeno, come preciserò più avanti, non mi riconosco.

[5] Così, perlomeno, si suol dire, in linea con l’orientamento della Corte costituzionale ormai invalso. In altra sede, mi sono tuttavia chiesto se, a motivo dei suoi contenuti, per il fatto cioè di “parlare” di diritti fondamentali, la CEDU non possa che confrontarsi, in modo diretto ed esclusivo, con enunciati della Carta costituzionale espressivi di principi fondamentali.

[6] Sulle non poche, gravi questioni che al riguardo si pongono, fatte oggetto – come si sa – di un nutrito e ad oggi non sopito dibattito, v., di recente, L. Marrone, Esecuzione ed efficacia delle sentenze della Corte europea dei diritti umani in Italia: ancora sul caso Sud Fondi ed altri, in Dir. um. e dir. internaz., 6/2012, 183 ss.

[7] È poi da vedere se, in una circostanza siffatta (peraltro, dallo stesso giudice delle leggi ritenuta assai remota), possa assistersi alla caducazione nelle forme usuali della legge di esecuzione della Convenzione “nella parte in cui…” ovvero alla mera sua dichiarazione d’“irrilevanza” ai fini del caso, vale a dire al riconoscimento della sua inidoneità ad integrare il parametro costituzionale (soluzione da me patrocinata in Corte costituzionale e Corti europee: il modello, le esperienze, le prospettive, in AA.VV., Corte costituzionale e sistema istituzionale, a cura di F. Dal Canto - E. Rossi, Torino 2011, 149 ss., spec. 168 ss., e in altri scritti). E non è al riguardo senza significato che il giudice delle leggi, a partire dalla sent. n. 311 del 2009, si sia fatto cura di non dichiarare più che le norme convenzionali (per il tramite della legge che vi dà esecuzione) siano passibili di annullamento.

[8] Non è tuttavia da escludere che, in una congiuntura siffatta, il giudice costituzionale possa motu proprio porre a se stesso una questione di costituzionalità in relazione a norma di legge a sua volta sospetta di violare la Convenzione. L’ipotesi, nondimeno, non è di agevole configurazione. La caducazione della fonte nazionale in via conseguenziale parrebbe presupporre la previa adozione di una pronunzia di accoglimento sulla Convenzione e il conseguente annullamento di norme interne a questa funzionalmente legate e volte a darvi fedele svolgimento, non già – come per l’ipotesi ora ragionata – norme contrarie a Convenzione. È pur vero, tuttavia, che in passato si è discusso circa la eventuale ammissione di dichiarazioni d’illegittimità conseguenziale contenute in pronunzie di rigetto (segnatamente, in decisioni interpretative di rigetto), ma la soluzione al riguardo prospettata “non parrebbe del tutto razionale” (così, A. Ruggeri - A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino 2009, 217 e, più di recente, R. Perrone, Sentenze interpretative di rigetto e illegittimità conseguenziale, in Giur. cost., 2010, 939 ss.). L’ipotesi, ad ogni buon conto, in disparte ogni obiezione di ordine teorico riconducibile alla lettera dell’art. 27, l. n. 87 del 1953, non sembra ad oggi aver trovato riscontro (sull’istituto dell’illegittimità conseguenziale, v., per tutti, l’approfondito studio monografico di A. Morelli, L’illegittimità conseguenziale delle leggi. Certezza delle regole ed effettività della tutela, Soveria Mannelli 2008, e in quest’ultimo, per l’ipotesi sopra ragionata, 37 s.; dello stesso, ora, Le conseguenze dell’invalidità: l’incerto ambito di applicazione dell’art. 27, secondo periodo, della legge n. 87 del 1953, in Giur. cost., 1/2012, 439 ss., spec. 440).

[9] A sostegno della soluzione qui patrocinata a me pare che possa richiamarsi un passaggio, contenuto nel punto 7.2 del cons. in dir., della sent. n. 210 del 2013 nel quale si rileva che “le modalità attraverso le quali lo Stato membro si adegua con misure strutturali alle sentenze della Corte di Strasburgo non sempre sono puntualmente determinate nel loro contenuto da tali pronunce, ma ben possono essere individuate con un ragionevole margine di apprezzamento”.

[10] Riprendo qui una etichetta presente in un noto scritto di G. Silvestri, Le sentenze normative della Corte costituzionale, in Scritti su la giustizia costituzionale in onore di V. Crisafulli, I, Padova 1985, 755 ss.

[11] Fra i suoi molti commenti, E. Malfatti, Un nuovo (incerto?) passo nel cammino “convenzionale” della Corte, e A. Morrone, Shopping di norme convenzionali? A prima lettura dell’ordinanza n. 150/2012 della Corte costituzionale, entrambi in www.forumcostituzionale.it, rispettivamente, 29 giugno e 19 luglio 2012; G. Repetto, Corte costituzionale, fecondazione eterologa e precedente CEDU “superveniens”: i rischi dell’iperconcretezza della questione di legittimità costituzionale, in Giur. cost., 3/2012, 2069 ss.; V. Magrini, La scelta della restituzione degli atti nell’ordinanza della Corte costituzionale n. 150/2012; B. Liberali, La procreazione medicalmente assistita con donazione di gameti esterni alla coppia fra legislatore, giudici comuni, Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo; I. Pellizzone, Sentenza della Corte europea sopravvenuta e giudizio di legittimità costituzionale: perché la restituzione degli atti non convince. Considerazioni a margine dell’ord. n. 150 del 2012 della Corte costituzionale, tutti in www.rivistaaic.it, 3/2012; U. Salanitro, Il dialogo tra Corte di Strasburgo e Corte costituzionale in materia di fecondazione eterologa, in La nuova giur. civ. comm., 2012, II, 636 ss.; R. Romboli, Lo strumento della restituzione degli atti e l’ordinanza 150/2012: il mutamento di giurisprudenza della Corte Edu come ius superveniens e la sua incidenza per la riproposizione delle questioni di costituzionalità sul divieto di inseminazione eterologa, in Consulta Online, 26 febbraio 2013, e pure ivi, S. Agosta, La Consulta nel gioco di specchi riflessi tra Corti sopranazionali e giudici comuni (in tema di protezione giuridica della vita nascente), 23 luglio 2012, nonché, volendo, anche il mio La Corte costituzionale, i parametri “conseguenziali” e la tecnica dell’assorbimento dei vizi rovesciata (a margine di Corte cost. n. 150 del 2012 e dell’anomala restituzione degli atti da essa operata con riguardo alle questioni di costituzionalità relative alla legge sulla procreazione medicalmente assistita), 12 giugno 2012; R. Conti, CEDU, Costituzione e diritti fondamentali: una partita da giocare alla pari, in AA.VV., Il diritto europeo nel dialogo delle Corti, a cura di R. Cosio e R. Foglia, Giuffrè, Milano 2013, 253 ss.

[12] Consiglio questo diverso sintagma, che a me pare più preciso del primo, pure ormai d’uso comune, dal momento che il termine “politico” potrebbe far pensare a forme di produzione normativa di specifica connotazione politica, quali sono quelle che si hanno per il tramite di convenzioni costituzionali o di regolarità, non già di regole, di esclusivo rilievo presso gli operatori politici.

[13] Pure per essi, però, si dovrebbero a mia opinione fare al riguardo non poche precisazioni che qui non possono trovare spazio (per qualche spunto, v., peraltro, infra).

[14] Riprendo qui il titolo di un noto commento alla Scoppola di F. Viganò, Figli di un Dio minore? Sulla sorte dei condannati all’ergastolo in casi analoghi a quello deciso dalla Corte EDU in Scoppola c. Italia. Riflessioni in attesa della decisione delle Sezioni Unite, in www.penalecontemporaneo.it, 10 aprile 2012.

[15] Su di che, part., la densa riflessione teorica di G. Silvestri, Dal potere ai princìpi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Roma-Bari 2009 e, più di recente, di C. Salazar, I princìpi in materia di libertà, in AA.VV., Principi costituzionali, a cura di L. Ventura, in corso di stampa, spec. ai §§ 10 e 11. In prospettiva giusfilosofica, acuti rilievi possono vedersi in M. Zanichelli, Il valore dell’uguaglianza nella prospettiva del diritto, in La società degli individui, 3/2011, 33 ss.

[16] … e le relazioni internormative in genere, anche nelle loro espressioni di esclusivo rilievo interno. Si pensi, per fare solo i primi esempi che vengono in mente, al limite all’abrogazione popolare costituito dall’attitudine (che va, nondimeno, provata…) della disposizione oggetto della domanda referendaria ad offrire la “tutela minima” a beni costituzionalmente protetti, laddove cioè la composizione in sistema di fonti (che, a dire della Corte, sono pariordinate) si fa e senza sosta rinnova non già in ragione della veste formale delle fonti stesse o della forza da essa discendente bensì, ed esclusivamente, in ragione delle norme da esse prodotte, per il modo con cui si rapportano ai valori e li servono. E così pure per ciò che concerne l’avvicendamento delle leggi nel tempo, con specifico riguardo al caso che leggi anteriori fissino i c.d. “livelli essenziali” delle prestazioni concernenti i diritti, come tali non soltanto idonee a porre limiti all’autonomia regionale ma – a me pare – anche a leggi statali future che assumano di abbassare i livelli stessi oltre il costituzionalmente tollerabile, con grave pregiudizio dei diritti stessi e, in ultima istanza, della dignità della persona umana. E via dicendo.

[17] … il quale peraltro – fa ora giustamente notare E. Lamarque, Las relaciones entre los órdenes nacional, supranacional e internacional en la tutela de los derechos, relazione alle Giornate italo-spagnolo-brasiliane su La protección de los derechos en un ordenamiento plural, Barcellona 17-18 ottobre 2013, in paper, § 3 – rileva parimenti al piano dei rapporti col diritto dell’Unione. Dal mio canto, ho già avuto modo di osservare in più luoghi (tra cui Rapporti tra Corte costituzionale e Corti europee, bilanciamenti interordinamentali e “controlimiti” mobili, a garanzia dei diritti fondamentali, in www.rivistaaic.it, 1/2011) che i “controlimiti”, usualmente considerati per sistema opponibili all’ingresso del diritto stesso in ambito interno, in realtà vanno di volta in volta sottoposti a verifica, nessuna norma – interna o esterna che sia – potendo vantare una presunzione assoluta di preminenza su altre e tutte invece dovendosi giocare la partita alla pari, per il modo con cui, in base ai contenuti dalle stesse esibiti, possano vantare “copertura” nella coppia assiologica di libertà ed eguaglianza (e, in ultima istanza, dignità), siccome idonee a darne l’ottimale servizio alle condizioni oggettive di contesto.

[18] La contraria opinione, che invece vorrebbe sempre e comunque assicurata la precedenza alla Costituzione sulla CEDU, comporterebbe, se accolta, un inevitabile slittamento di piano e conversione di metodo, alla prospettiva di stampo assiologico-sostanziale, che ha riguardo alle norme ed alla loro mobile composizione in sistema per il modo con cui servono i valori, subentrando la prospettiva d’ispirazione formale-astratta, che guarda alle fonti ed assume che esse detengano sempre il medesimo posto nel sistema. Solo che, ove ci si interroghi sul “luogo” positivo in cui si situi, in relazione ad un dato caso, la tutela più “intensa”, è evidente che la prospettiva si è già portata oltre lo schermo della forma (e delle fonti) per puntare diritto alle norme, onde stabilire quale di esse sia la più idonea ad offrire la tutela stessa.

[19] In realtà, come si è tentato di mostrare altrove, le cose, nel caso nostro, non stanno affatto così, dal momento che è la stessa Convenzione a voler ritagliare per sé un ruolo meramente “sussidiario” rispetto alle garanzie offerte in ambito interno, dichiarando di poter valere alla sola condizione che la tutela assicurata in quest’ultimo risulti inadeguata o, come che sia, meno “intensa” di quella che essa è in grado di apprestare. Di modo che nessuna violazione dell’art. 117, I c., in tesi, può dirsi sussistere ogni qual volta norme legislative contrarie a Convenzione si dimostrino idonee a garantire ancora meglio di quest’ultima i diritti fondamentali.

È tuttavia interessante notare, sia pure di sfuggita, che in altri campi di esperienza, qui non rilevanti, la giurisprudenza costituzionale ha più volte ammesso la “cedevolezza” delle norme sulla normazione rispetto alle norme sostantive della Carta, in funzione della ottimale salvaguardia dei diritti fondamentali (e, in definitiva, della dignità della persona umana): ad es., al piano dei rapporti tra le leggi di Stato e Regione, considerandosi (tra le altre, sentt. nn. 10 del 2010 e 62 del 2013) quelle dell’uno, diversamente (e stranamente) però rispetto a quelle dell’altra (sentt. nn. 373 del 2010 e 325 del 2011), abilitate ad immettersi negli ambiti materiali che non sono loro propri ove ciò si giustifichi (ed anzi imponga) in nome dei valori fondamentali dell’ordinamento. La qual cosa è, poi, uno dei molti indici di una complessiva tendenza del giudice costituzionale a farsi cura più delle ragioni dell’unità che di quelle dell’autonomia (a riguardo delle più salienti “regolarità” in tal senso riscontrabili nella più recente giurisprudenza, v., tra gli altri, S. Calzolaio, Di alcune “regolarità” nella giurisprudenza costituzionale successiva alla riforma del Titolo V, in Ist. Fed., 2/2013, 453 ss.).

[20] Su di che, può, volendo, vedersi ora il mio Il principio personalista e le sue proiezioni, in AA.VV., Principi costituzionali, cit, nonché in www.federalismi.it, 17/2013.

[21] Sull’annosa questione, ora, la documentata (anche con riferimenti ad esperienze straniere) trattazione di V. Sciarabba, Il giudicato e la CEDU. Profili di diritto costituzionale, internazionale e comparato, Padova 2013.

[22] V., spec., sent. n. 210, cit., e ord. n. 235 del 2013 (e, su di esse, per un primo commento, F. Viganò, La Corte costituzionale sulle ricadute interne della sentenza Scoppola della Corte EDU, e Prosegue la ‘saga Scoppola’: una discutibile ordinanza di manifesta inammissibilità della Corte costituzionale, entrambe in www.penalecontemporaneo.it, rispettivamente 19 e 26 luglio 2013). Alla sent. n. 210 ha, peraltro, fatto esplicito richiamo la decisione del giudice romano qui annotata.

[23] Da una prospettiva di ordine teorico-generale, è stato, assai di recente, finemente osservato che anche la cura di interessi che fanno capo all’intera collettività (quali la sicurezza o la difesa da attacchi del nemico) ha pur sempre la sua ragion d’essere nella salvaguardia di diritti fondamentali di ciascun individuo (G. Silvestri, I diritti fondamentali nella giurisprudenza costituzionale italiana: bilanciamenti, conflitti e integrazioni delle tutele, in AA.VV., Principi costituzionali, cit.).

[24] Maggiori ragguagli sul punto, con specifico riguardo all’oggetto nei giudizi di costituzionalità e, in relazione a questo, agli effetti delle pronunzie della Corte che li definiscono, possono – se si vuole – aversi dal mio Storia di un “falso”. L’efficacia inter partes delle sentenze di rigetto della Corte costituzionale, Milano 1990, spec. 95 ss., con le ulteriori precisazioni che sono in Ripensando alla natura della Corte costituzionale, alla luce della ricostruzione degli effetti delle sue pronunzie e nella prospettiva delle relazioni con le Corti europee, in AA.VV., La Corte costituzionale vent’anni dopo la svolta, a cura di R. Balduzzi - M. Cavino - J. Luther, Torino 2011, 349 ss.

[25] Ho trovato di straordinario spessore, civico e scientifico a un tempo, le riflessioni al riguardo svolte da R. Conti, ancora da ultimo nel suo Le scelte morali e i diritti delle persone: il ruolo del giudice e del legislatore, relaz. all’incontro su La giustizia davanti ai temi eticamente sensibili, organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura, Roma 25-27 settembre, in paper.

[26] Così, per una risalente opinione che sempre più stancamente si trascina, si suol dire con specifico riferimento ai giudizi in via principale, in relazione ai quali la mancanza del “caso” comporterebbe automaticamente siffatta caratterizzazione del giudizio di costituzionalità (spunti di vario segno possono al riguardo cogliersi da AA.VV., I ricorsi in via principale, Milano 2011). In disparte, però, la circostanza per cui anche il più “astratto” di tali giudizi, quale prima della riscrittura del Titolo V si aveva nei riguardi delle leggi regionali a motivo della natura preventiva del controllo, ormai ha visto mutati i connotati complessivi del sindacato, che può svolgersi su leggi nel frattempo entrate in vigore, sta di fatto che il passaggio dalla disposizione alla norma operato in sede interpretativa si consuma pur sempre in un contesto segnato da esperienze di vario genere, da un mix insomma di materiali positivi e fattuali che fanno la singola questione e ne danno la cifra identificante complessiva. Ciò posto, è tuttavia da riconoscere che è ben diverso – se così può dirsi – il “tasso” di concretezza espresso dai giudizi che hanno la loro occasio in una vicenda processuale che prende corpo nelle aule in cui si somministra la giustizia comune rispetto a quello che è proprio dei giudizi di costituzionalità aventi origine diversa.

[27] L’attributo della generalità, com’è noto, non sempre ricorre in ogni legge; qui, nondimeno, importa fermare specificamente l’attenzione su ciò che il più delle volte accade ed ha maggior rilievo.

[28] Si sente assai spesso dire: … e, per ciò stesso, di politicità. A prescindere però dal carattere fumoso di siffatta qualifica, l’automatismo suddetto non mi pare, però, provato e, comunque, sistematicamente ricorrente.

[29] Se “concretezza” vuol dire anche sensibile attenzione alle circostanze di fatto, alla posta in palio, al contesto in cui il giudizio si svolge e giunge a compimento, è fuori discussione che essa – come si accennava poc’anzi – si ha sempre, ed in assai rilevante misura, nei giudizi che prendono corpo alla Consulta.

[30] In altri luoghi (v., ad es., nel mio Ancora a margine di Corte cost. n. 230 del 2012, post scriptum, in Consulta Online, 29 ottobre 2012, nonché, con specifica attenzione al processo costituzionale, ne Il processo costituzionale come processo, dal punto di vista della teoria della Costituzione e nella prospettiva delle relazioni interordinamentali, in Riv. dir. cost., 2009, 125 ss. e in www.gruppodipisa.it, 28 dicembre 2010), mi sono già sforzato di argomentare la tesi secondo cui è nell’essenza stessa della giurisdizione il suo comporsi in “indirizzi” (nella ristretta e propria accezione del termine) connotati da uniformità e linearità di svolgimenti, restando altrimenti pregiudicato il valore della certezza del diritto e, con esso e per ciò stesso, quello della certezza dei diritti.

[31] In realtà, le notazioni che si vanno ora svolgendo attengono – come può vedersi – più al modello, nella sua teorica configurazione, che all’esperienza, laddove vengono tracciate e continuamente rifatte plurime ed anche reciprocamente non poco divaricate linee di sviluppo giurisprudenziale. Difettano, purtroppo, ad oggi studi organici che facciano il punto sulle tendenze al riguardo presenti nelle pratiche giudiziarie, anche per la messe estremamente copiosa di materiali bisognosi di adeguato monitoraggio e sistemazione. Resto, ad ogni buon conto, persuaso del fatto che, grazie alla sensibilità che va in modo crescente maturando presso gli operatori di giustizia nei riguardi della giurisprudenza delle Corti europee, alle indicazioni di quest’ultima anche la giurisprudenza di diritto interno perlopiù si conformi, specie laddove proprio da essa vengano gli spunti idonei a dare il maggior appagamento alle domande di giustizia in modo pressante rivolte da una umanità dolente agli operatori stessi.

[32] Quanto a quest’ultimo, andrebbero fatte ulteriori precisazioni, in ragione della varietà delle competenze che gli sono assegnate e delle circostanze in relazione alle quali esse sono esercitate, a ciascuna delle quali dovrebbe riservarsi un separato corredo di argomenti; ed è di tutta evidenza, ad es., che altro è un giudizio emesso a Lussemburgo in cui si faccia richiamo alla Carta di Nizza-Strasburgo ed altra cosa un giudizio al quale resti estranea l’esigenza di dare tutela ai diritti fondamentali. E via dicendo.

[33] Sopra tutti, O. Pollicino, Allargamento ad est dello spazio giuridico europeo e rapporto tra Corti costituzionali e Corti europee. Verso una teoria generale dell’impatto interordinamentale del diritto sovranazionale?, Milano 2010, e O. Pollicino - V. Sciarabba, Tratti costituzionali e sovranazionali delle Corti europee: spunti ricostruttivi, in AA.VV., L’integrazione attraverso i diritti. L’Europa dopo Lisbona, a cura di E. Faletti - V. Piccone, Roma 2010, 125 ss.

[34] A L’integrazione fra ordinamenti e il ruolo del giudice si volge, ora, la riflessione di E. Ceccherini, in Dir. pubbl. comp. ed eur., II/2013, 467 ss. (ma, in argomento, come si sa, la letteratura è ormai copiosa). Quanto poi al ruolo dei giudici al fine dell’inveramento della Convenzione in ambito nazionale, una sua vigorosa ed appassionata sottolineatura si deve a R. Conti, che ne ha fatto oggetto di studi numerosi ed approfonditi (nella forma più organica, in La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo del giudice, Roma 2011, ma v. pure, più di recente, CEDU, Costituzione e diritti fondamentali, cit., 166 ss., e Le scelte morali e i diritti delle persone, cit.). Assai interessanti, da ultimo i contributi su The Constitutional Relevance of the ECHR in Domestic and European Law. An Italian Perspective, a cura di G. Repetto, Cambridge-Antwerp-Portland 2013.

[35] È questo l’ordine di idee nel quale mi riconosco e che ho più volte avuto modo di rappresentare [ad es., in Applicazioni e disapplicazioni dirette della CEDU (lineamenti di un “modello” internamente composito), in www.forumcostituzionale.it, 28 febbraio 2011]: l’applicazione diretta, in particolare, può aversi, oltre che in casi, come quello odierno, in cui debba darsi esecuzione al giudicato convenzionale, ogni qual volta si abbia sostanziale coincidenza tra norma CEDU e norma della Carta di Nizza-Strasburgo self-executing; e, ancora, laddove la norma CEDU sia posteriore a norma legislativa e si dimostri idonea a prendere subito il posto di questa per ius superveniens, e, infine, in presenza di vuoti di disciplina legislativa che possano essere colmati dalle norme convenzionali.

[36] … grazie allo strumento del rinvio pregiudiziale, quanto alle relazioni con l’una Corte, ed alla facoltà loro concessa di sollevare questioni di legittimità costituzionale, quanto a quelle con l’altra Corte.

[37] Non si trascuri la ricaduta che, sia pure in via riflessa, potrebbe aversi nelle pratiche quotidiane di somministrazione della giustizia comune da un esercizio della giurisdizione da parte della Corte dell’Unione ancora più attento e sensibile agli svolgimenti della giurisprudenza EDU, in conseguenza dell’adesione alla Convenzione, la Corte stessa essendo consapevole di dover fare – le piaccia o no – i conti col giudice di Strasburgo. Futuri adattamenti degli indirizzi giurisprudenziali formatisi a Lussemburgo (e, a rimorchio, presso i tribunali di diritto interno) sono dunque da prendere in considerazione. È poi pur vero che la stessa Corte di Strasburgo non rimane – come si sa – insensibile agli svolgimenti concreti della giurisprudenza “eurounitaria”, la quale, facendo a sua volta riferimento alle “tradizioni costituzionali comuni”, tiene in cale i più salienti indirizzi interpretativi di cui si fanno portatori i tribunali nazionali (specie quelli costituzionali e, ancora più specificamente, alcuni di essi). Il circolo interpretativo risulta così, una volta di più, provato. Altra cosa, cui però non può qui riservarsi neppure un cenno, è se – al di là dei vincoli positivi – possa considerarsi maggiormente marcata l’influenza culturale esercitata dall’una sull’altra Corte. Una questione, per ciò che qui solo può dirsi, alla quale a mia opinione non può essere data una sola risposta, allgemeingültig, la risposta stessa variando in relazione ai campi materiali di esperienza e nel tempo.

[38] È dei primi di ottobre la firma posta in calce al protocollo in parola da parte del nostro Paese assieme ad altri sei (sui possibili sviluppi delle relazioni tra Carte e tra Corti per effetto dell’entrata in vigore di siffatto, importante documento normativo si sono, tra gli altri, intrattenuti R. Conti, Le scelte morali e i diritti delle persone, cit., § 5.1, e F. Vecchio, Le prospettive di riforma della Convenzione europea dei diritti dell’uomo tra limiti tecnici e ‘cortocircuiti’ ideologici, in paper).

[39] Non dico – si badi – che si avrà una indiscriminata apertura, che francamente neppure io mi auguro, ma che con gli opportuni distinguo, a certe condizioni ed entro certi limiti, si trovi il modo per la sua realizzazione.


CEDU, diritto “eurounitario” e diritto interno: alla ricerca del “sistema dei sistemi”*

Sommario: 1. I “sistemi di sistemi” e la varietà dei punti di vista da cui possono essere riguardati, rispettivamente, in ambito interno ed in ambito sovranazionale. – 2. La riduzione ad unità dei “sistemi di sistemi”, per effetto della convergenza dei punti di vista. – 3. La composizione delle norme in sistema, il criterio della tutela più “intensa” apprestata ai diritti, in modi tuttavia non coincidenti in ambito europeo ed in ambito nazionale, gli slittamenti dal piano della teoria delle fonti a quello della teoria dell’interpretazione riscontrabili nella giurisprudenza costituzionale in ordine alla messa a punto delle relazioni intersistemiche. – 4. Il raffronto su basi paritarie tra Costituzione e Carte dei diritti e la vocazione inclusiva del circolo interpretativo, in vista della congiunta applicazione di tutti i materiali normativi riguardanti i diritti, all’insegna di una teoria della “Costituzione-parziale”. – 5. I semi presenti nella giurisprudenza costituzionale di un possibile inquadramento delle relazioni intersistemiche in prospettiva assiologico-sostanziale e le tecniche raffinate messe in atto dalla giurisprudenza stessa al fine di smarcarsi dal pressing della giurisprudenza europea. – 6. La ricerca di un equilibrio, ancorché instabile ma complessivamente appagante, tra uniformità e differenziazione nella salvaguardia dei diritti, e le prospettive che possono aprirsi ad una autentica, solida “federalizzazione dei diritti”, anche grazie all’avvicinamento dei rapporti che il diritto interno intrattiene, rispettivamente, col diritto “eurounitario” e col diritto convenzionale.

 

 

  1. I “sistemi di sistemi” e la varietà dei punti di vista da cui possono essere riguardati, rispettivamente, in ambito interno ed in ambito sovranazionale

 

CEDU, diritto dell’Unione europea (o, come a me piace chiamarlo, diritto “eurounitario”) e diritto interno sono sistemi di norme[1]; interrogarsi a riguardo dei loro rapporti equivale, in buona sostanza, a verificare se se ne possa operare la riconduzione a “sistema”, dar vita cioè ad un “sistema di sistemi”.

Due avvertenze, prima di passare oltre.

La prima è che, a rigore, “sistema di sistemi” è anche quello statale, con specifico riguardo agli ordinamenti informati ad un largo pluralismo normativo e istituzionale, quali sono appunto quelli degli Stati c.d. “composti”[2]. Qui, tuttavia, considero l’ordinamento statale quale una unità “semplice” nelle sue proiezioni al piano sovranazionale e avuto riguardo ai rapporti che esso intrattiene con altri sistemi.

La seconda è che non necessariamente la composizione in sistema equivale a riduzione ad unità degli elementi che costituiscono il sistema stesso, vale a dire alla loro piena integrazione. I sistemi possono infatti restare ugualmente distinti, se non pure pleno iure separati, e, ciononostante, farsi appunto “sistema”, laddove si dia un certo grado di mutua integrazione, reso palese dalle norme di collegamento che dei sistemi stessi regolano i rapporti.

Mi corre, poi, subito l’obbligo di precisare che affronto la questione ora posta muovendo da un assunto che ho altrove argomentato e che non torno però qui a discutere, vale a dire che muovo da un’idea di Costituzione quale, in nuce, costituita da un fascio di valori fondamentali positivizzati, cui si aggiungono altre norme che già nella stessa Carta vi danno la prima e necessaria specificazione-attuazione, le quali compongono un tutto armonico risultante da parti, sì, distinte quoad obiectum ma non separabili né concettualmente né positivamente, ciascuna rimandando all’altra e tutte dando appunto vita ad un “sistema” unitariamente significante[3]. Le norme organizzatorie, in ispecie, richiedono di essere costantemente riportate alle norme sostantive, dalle quali prendono luce e giustificazione, e, ulteriormente specificando, alle norme sui diritti fondamentali rispetto alle quali stanno in funzione servente. Il che vale come dire che le norme sulla normazione (e, di conseguenza, gli atti ed i fatti di produzione giuridica da queste riguardati) valgono fintantoché si dimostrino idonee (e lo siano effettivamente, nel “diritto vivente”) a prestare l’ottimale servizio, alle condizioni oggettivamente date, ai valori fondamentali dell’ordinamento (e, per ciò che qui specificamente interessa, ai diritti)[4]. Solo così è appropriato discorrere della Costituzione come “sistema”[5], un sistema nel… sistema, vale a dire quale “nucleo duro” del sistema[6], anche nelle sue proiezioni interordinamentali, nel suo farsi cioè “sistema di sistemi”.

Quando poi ci si interroga circa il modo o i modi con cui quest’ultimo può prendere forma, è giocoforza stabilire qual è l’angolo visuale dal quale ci si pone nel tentativo di portare a frutto lo studio. La questione è, infatti, di metodo, prima ancora che di teoria; ed è chiaro che, col fatto stesso di muovere dall’uno piuttosto che dall’altro sistema (o dall’altro ancora), possono risultare variamente fissate le coordinate sulle quali si dispongono e svolgono le relazioni fra di essi[7].

Ora, plurimi essendo i sistemi, plurimi non possono che essere (ed effettivamente sono) i punti di vista e, perciò, i “sistemi di sistemi” in base ad essi composti. Il fatto stesso, poi, che ciascun sistema veda le cose dal proprio punto di vista comporta il primato del sistema stesso rispetto ai sistemi restanti. Persino laddove l’uno dichiari esser le proprie norme recessive, sia pure a certe condizioni ed entro certi limiti, all’impatto con le norme dell’altro o degli altri, resta il fatto che il ripiegamento in parola si deve alla volontà del sistema che lo stabilisce, a mezzo di proprie norme sulla normazione sulla cui base le relazioni intersistemiche ricevono il loro assetto: metanorme di necessità indisponibili, proprio a motivo del loro porsi a fondamento delle relazioni stesse. Non di rado, poi, le metanorme in parola qualificano del pari indisponibili altre norme ancora, di ordine sia sostantivo che procedimentale, che vanno dunque ad aggiungersi a quelle che stanno a base delle relazioni in discorso e, a conti fatti, a darne la connotazione complessiva.

Questo è ciò che si ha anche con riguardo al “sistema di sistemi” i cui lineamenti saranno ora fatti oggetto di rapido esame, quale appare assumendo a punto di osservazione il nostro ordinamento e, in particolare, facendo capo a quell’osservatorio privilegiato che è dato dalla giurisprudenza costituzionale.

Riserverò solo un cenno fugace ad altri, divergenti, punti di vista pure riscontrabili in ambito interno e dei quali si ha traccia in alcune espressioni della giurisprudenza comune; e ciò, per una triplice ragione: per un verso, infatti, tale giurisprudenza non di rado si disperde in mille rivoli, sottraendosi da se medesima in molte delle sue manifestazioni alla vista, ed è perciò di assai arduo reperimento e sistemazione; per un altro verso, è fuor di dubbio che la giurisprudenza stessa abbia in cospicua misura risentito (e quotidianamente risenta) dell’influenza culturale esercitata dagli indirizzi della Consulta, la quale per vero non di rado non si sottrae essa pure alle suggestioni provenienti dai non coincidenti indirizzi della giurisprudenza comune e, specie davanti alle sue più vigorose espressioni, fa talora luogo a sensibili aggiustamenti dei propri orientamenti, fermo restando tuttavia che è maggiore il condizionamento esercitato dalla giurisprudenza costituzionale nei riguardi di quella comune rispetto a quello che si ha in senso inverso[8]. La terza ragione è poi data dal fatto che è proprio la giurisprudenza costituzionale, se non altro a motivo della sua maggiore visibilità (se non pure, di necessità, della maggiore autorevolezza), ad esser tenuta specificamente presente dalla giurisprudenza delle Corti europee, concorrendo alla incessante messa a punto di quest’ultima. E di ciò, in particolare, occorre tener conto, laddove – come qui – si abbia riguardo alle relazioni intersistemiche.

Tengo poi subito a rilevare, con riserva delle opportune precisazioni più avanti, che i punti di vista adottati presso i sistemi qui presi in considerazione, pur essendo non coincidenti, sono nondimeno convergenti; la qual cosa si deve proprio al “dialogo” che è senza sosta alimentato dalle Corti “costituzionali”: termine che qui pure, come altrove, intendo in senso materiale, facendolo valere per le stesse Corti europee, in conformità ad una marcata linea di tendenza da esse tracciata e sempre più di frequente percorsa, secondo quanto segnalato dalla più avveduta dottrina[9].

La convergenza in discorso, in particolare, si apprezza proprio al piano di quelle metanorme, di cui un momento fa si diceva; in particolare, si rende visibile nella disponibilità che – perlomeno secundum verba – ciascun sistema manifesta agli altri di dar loro spazio al proprio interno laddove da essi venga una più adeguata tutela ai diritti: una sorta di ruolo “sussidiario”, dunque, quello che ciascun sistema ritaglia per sé in rapporto agli altri, riservandosi di scendere in campo unicamente laddove risulti essere maggiormente attrezzato a dar appagamento ai diritti stessi[10].

Assai più articolato e composito è, invece, il quadro al piano delle norme sostantive, vale a dire con riguardo al modo con cui sono intesi e fatti valere i beni della vita salvaguardati dalle norme stesse, laddove accanto a convergenze di non secondario significato perdurano divergenze non da poco, con riferimento alle quali si ha modo di cogliere le specificità culturali e positive del singolo sistema[11].

 

 

  1. La riduzione ad unità dei “sistemi di sistemi”, per effetto della convergenza dei punti di vista

 

La prima notazione che va fatta volendo dare consistenza all’affermazione secondo cui è possibile ragionare di un “sistema di sistemi”, nel senso qui precisato, riguarda la giustificazione della stessa, dal momento che le relazioni che il diritto interno intrattiene, rispettivamente, col diritto dell’Unione europea e con la CEDU appaiono essere talmente diverse da far dubitare della legittimità della loro reductio ad unum. Basti solo, per avvedersene, tener presente che il diritto interno e il diritto “eurounitario” sono – come si diceva –, ad avviso della Consulta, “ordinamenti” in senso proprio, siccome dotati di una componente istituzionale di cui sarebbe invece privo il sistema CEDU. Si aggiunga, poi, che anche con riguardo alla sola componente normativa, il sistema “eurounitario” risulta composto non da sole norme che danno il riconoscimento di diritti fondamentali, al pari, per questo verso, dello stesso ordine interno e diversamente – come si sa – dal sistema CEDU.

Il punto è molto importante, specie per chi si ponga, come da me ormai da tempo consigliato, in prospettiva assiologicamente orientata al fine di dare il giusto inquadramento alle norme ed ai loro rapporti, secondo quanto qui pure si avrà modo di rilevare per alcuni aspetti e per le specifiche finalità teorico-ricostruttive di questo studio. Contrariamente, infatti, a quanto comunemente si pensa (e si dice esser da parte della giurisprudenza costituzionale), alcune norme dell’Unione, appunto in quanto non riferite ai diritti, possono godere di una “copertura” assai meno consistente di quella di cui possono invece farsi vanto le norme della CEDU (o di altre Carte ancora), riportabili dietro il formidabile scudo protettivo degli artt. 2 e 3 della Carta costituzionale[12].

Se ne dirà meglio a momenti. Qui, è nondimeno importante precisare subito che resta estraneo all’orizzonte teorico avuto di mira da questo studio la considerazione delle norme, sia interne che sovranazionali, non riguardanti i diritti. D’altro canto, è noto che l’appartenenza ad uno stesso “insieme” richiede la omogeneità dei materiali che in esso si dispongono; e, dunque, perché possa discorrersi di un “sistema di sistemi” è necessario circoscrivere il riferimento alle sole norme accomunate dal loro porsi al servizio dei diritti.

Anche, poi, restringendo l’ambito qui fatto oggetto di studio unicamente a tali norme, si notano differenze non da poco tra di esse e, perciò, tra l’una e l’altra specie di rapporti cui le norme stesse danno vita, accanto però a taluni tratti comuni, le une e gli altri specificamente rilevanti proprio dall’angolo visuale adottato dalla giurisprudenza costituzionale.

Mi limito solo a rammentare tra questi ultimi l’attitudine di tutte tali norme aventi origine esterna a porsi a punto di riferimento in sede di interpretazione ad esse “conforme”[13] delle disposizioni legislative nazionali; tra le prime, richiamo poi il diverso posto assegnato alle norme dell’Unione (dotate di forza “paracostituzionale” o costituzionale tout court) ed alle norme convenzionali (invece qualificate come “subcostituzionali”), come pure la diversa tecnica utilizzabile per ripianare le loro eventuali antinomie con norme interne[14].

Cose ampiamente note, delle quali non è ora possibile nuovamente dire, se non sotto taluni aspetti specificamente rilevanti in ordine alla salvaguardia dei diritti, in relazione alla quale la costruzione giurisprudenziale appare, a mia opinione, meritevole di un profondo, critico ripensamento.

M’importa solo adesso fermare specificamente l’attenzione, sia pure nei limiti di spazio assai ristretti qui consentiti, su quella convergenza dei punti di vista di cui poc’anzi si diceva. Credo che si debba da parte di tutti convenire a riguardo dello sforzo poderoso col tempo prodotto da ciascun sistema per avvicinarsi agli altri, se non pure per raggiungerli e con essi integrarsi appieno, componendo un unico ed unitario sistema, sempre uguale a se stesso quale che sia il punto di vista dal quale ad esso si guardi. Una convergenza che ha preso corpo sia a mezzo di interventi legislativi e sia (e soprattutto) per effetto di una copiosa e intraprendente giurisprudenza, cui in gran parte si deve l’avvicinamento tra i sistemi e, con esso, l’avanzata del processo d’integrazione sovranazionale.

La vicenda è nota ed è sufficiente qui riservare ad essa appena un cenno, evidenziandone i passaggi maggiormente rilevanti al fine dell’analisi che si viene facendo.

Muovo dai rapporti col diritto dell’Unione, ricordando le tappe più salienti del “cammino comunitario”, come l’ha chiamato una non dimenticata dottrina[15], compiuto dal nostro giudice delle leggi. Dapprima (sent. n. 14 del 1964), il diritto comunitario e il diritto interno apparivano disposti su un piano di assoluta parità. In un secondo momento, si è coraggiosamente (o, forse, temerariamente…) ammesso (sent. n. 183 del 1973) il principio del primato del diritto sovranazionale, rinvenendone il fondamento interno in una norma di valore – l’art. 11 – convertita in norma sulla produzione giuridica e, tuttavia, dichiarandolo soggetto al limite dei… “controlimiti”, come sono chiamati con formula ormai in uso: un primato al tempo garantito attraverso la tecnica del sindacato accentrato di costituzionalità[16]. Infine (sent. n. 170 del 1984), accedendo al punto di vista della Corte di giustizia, la Consulta ha spianato la via per la risoluzione delle antinomie in parola a mezzo della tecnica della “non applicazione” delle norme interne contrarie a norme sovranazionali self-executing, senza peraltro escludere (con la giurisprudenza successiva) che alcuni casi di conflitto siano risolti attraverso il sindacato accentrato (segnatamente in sede di giudizi in via d’azione).

La più emblematica espressione della convergenza in discorso è, nondimeno, costituita dal fatto che dell’unico limite opposto all’avanzata in ambito interno delle norme (ieri comunitarie ed oggi) “eurounitarie”, risultante dai “controlimiti” suddetti, sia fin qui stata predicata l’esistenza, senza che però esso sia mai stato fatto valere: quasi che le norme dell’Unione siano tutte immacolate, non urtando mai, in alcun caso o modo, coi principi di struttura dell’ordinamento interno, di cui peraltro è nota la formidabile vis espansiva e qualificatoria[17].

Dal suo canto, il diritto sovranazionale è passato dall’affermazione del principio del primato incondizionato sul diritto interno a quello del riconoscimento della intangibilità, da parte dell’Unione, dei principi di struttura dell’ordinamento di ciascuno Stato membro (v., ora, art. 4 TUE). Anche da parte dell’Unione, però, del limite, solennemente dichiarato, non si è fin qui avuto pratico riscontro: tangibile, particolarmente espressiva, testimonianza, questa, dell’esistenza di un tacito patto (o, dovremmo forse ormai dire, di una vera e propria consuetudine interordinamentale) volta, per un verso, a riconoscere nei principi fondamentali di diritto interno (e – si badi – di ciascuno Stato) il punctum unionis delle relazioni interordinamentali, il “luogo” in cui si situa e da se medesimo senza sosta rinnova il sistema, quale “sistema di sistemi” appunto, e però, per un altro verso, della precisa scelta strategica condivisa dall’Unione e dallo Stato nel senso di non frapporre ostacolo alcuno all’avanzata nel territorio nazionale degli atti dell’Unione[18].

Come che sia di ciò, assoggettandosi l’Unione al limite dei “controlimiti”, ormai pleno iure quodammodo “europeizzati”[19], se ne che, dal punto di vista dell’Unione stessa, il sistema viene a moltiplicarsi ed a riprodursi in forme cangianti, tante per quanti sono gli Stati membri, esibendo pertanto, in base al disposto normativo sopra richiamato, una struttura “plurale”, conseguente al rimando ad un tempo fatto a tutti gli ordinamenti nazionali[20].

Al di là della professione di ossequio fatta nei riguardi dei principi di struttura di ciascuno Stato membro dell’Unione, che in punto di astratto diritto potrebbe portare ad un’affermazione del primato del diritto sovranazionale a fisarmonica, contraendosi ovvero espandendosi esso a seconda che incontri lungo la propria via questo o quel principio che vi si opponga, resta il fatto che è l’insieme dei principi che connotano le liberaldemocrazie ad offrirsi quale fonte culturale cui l’ordinamento dell’Unione costantemente attinge, dotandosi di un patrimonio di valori sostantivi che entra a comporre, alimentare, rinnovare il patrimonio assiologico dell’Europa in costruzione. Sono, insomma, le c.d. “tradizioni costituzionali comuni” a fare le basi su cui l’Europa vuole edificarsi e portarsi sempre più in avanti lungo la via della integrazione sovranazionale[21].

Ora, non è il caso di riprendere qui le vessate questioni che ruotano attorno a siffatta nozione dai tratti oggettivamente sfuggenti. Quel che è certo è che i valori fondanti le liberaldemocrazie (e, sopra tutti, quelli di libertà, eguaglianza, giustizia sociale e, ancora più in alto o più a fondo, il valore “supercostituzionale” della dignità della persona umana nei cui riguardi i valori restanti si pongono in funzione servente[22]) hanno costituito il più saldo punto dal quale l’ordinamento sovranazionale si è tenuto e costantemente si tiene nello sforzo poderoso prodotto al fine di rilegittimarsi senza sosta e dare così la più persuasiva giustificazione di quel primato di cui si è sopra detto: in breve, di dare un senso e un verso all’esercizio di poteri sovrani concorrenti (e però, nei fatti, anche sovrastanti[23]) rispetto a quelli tipicamente propri degli Stati, i quali ultimi in misura crescente ed in relazione a campi materiali viepiù estesi si trovano obbligati a recedere davanti agli atti di produzione sovranazionale[24].

Più in genere, se è innegabile che le tradizioni cui ha attinto la scrittura delle Carte internazionali dei diritti (e, tra queste, della Carta di Nizza-Strasburgo) sono quelle nazionali, non può del pari negarsi che in ambito sovranazionale la pianta dei diritti è cresciuta assumendo forme sue proprie, non coincidenti e, alle volte, persino divergenti rispetto a quelle familiari alle esperienze nazionali, le quali ultime dunque hanno dalle prime ricevuto (e seguitano senza sosta a ricevere) suggestioni ed indicazioni per il loro incessante rinnovamento, fermo restando che gli Stati possono dar spazio all’ingresso dentro le loro mura di norme e decisioni giurisprudenziali di origine esterna alla sola condizione che da esse non venga alcun pregiudizio per le “tradizioni costituzionali” (e, segnatamente per i valori di libertà, eguaglianza e giustizia). Sta qui il senso profondo, il più genuino ed espressivo, della qualifica corrente secondo cui la tutela costituzionale dei diritti tende ad “internazionalizzarsi” e ad “europeizzarsi”, nel mentre la tutela internazionale ed europea tende a “costituzionalizzarsi”. Le più emblematiche realizzazioni di questa duplice tendenza si hanno poi, per diffuso riconoscimento, per il tramite della giurisprudenza. Uno dei segni più evidenti e significativi di questo duplice processo è, infatti, dato dalla vocazione delle Corti nazionali ad “europeizzarsi” e ad “internazionalizzarsi”, come pure delle Corti sovranazionali a “costituzionalizzarsi”.

 

 

  1. La composizione delle norme in sistema, il criterio della tutela più “intensa” apprestata ai diritti, in modi tuttavia non coincidenti in ambito europeo ed in ambito nazionale, gli slittamenti dal piano della teoria delle fonti a quello della teoria dell’interpretazione riscontrabili nella giurisprudenza costituzionale in ordine alla messa a punto delle relazioni intersistemiche

Sta proprio qui quella convergenza dei punti di vista, cui si faceva cenno, come pure la base comune delle relazioni intersistemiche, tanto di quelle che si svolgono lungo l’asse che collega l’ordine interno al diritto “eurounitario” quanto delle altre che portano alla CEDU.

Al di là, infatti, delle perduranti, sensibili differenze riscontrabili sotto più aspetti tra le relazioni stesse, a taluna delle quali non si è mancato poco sopra di fare richiamo così come vi si farà anche più avanti, resta il fatto, l’autentico tratto accomunante i sistemi posti rapidamente a confronto, per cui in presenza di plurime discipline normative riguardanti uno stesso diritto la norma buona per il caso è da considerare quella – ci dice la giurisprudenza (spec. Corte cost. n. 317 del 2009 e successive) – che si rivela esser in grado di offrire la più “intensa” tutela, indipendentemente dalla sua provenienza, la sua forma, il suo stesso grado (in prospettiva formale-astratta)[25].

Così ragionando, ci si avvede subito che la giustificazione più salda del primato del diritto di origine esterna, sia esso “eurounitario” che convenzionale, non sta, non può stare unicamente o esclusivamente in una norma sulla produzione giuridica (seppur di rango costituzionale) che, in sé e per sé considerata, resterebbe muta, inespressiva o, diciamo pure, autoreferenziale[26]. Non è né il primo comma dell’art. 117 né lo stesso art. 11[27] o altra metanorma ancora[28] a dare la giustificazione in parola bensì sono i valori sostantivi e, sopra ogni altro, quelli componenti la coppia assiologica fondamentale di cui agli artt. 2 e 3 della nostra Carta, nei cui riguardi le metanorme si pongono in funzione servente. Allo stesso modo (e di rovescio), sono sempre i valori suddetti ad opporsi all’ingresso di norme aventi origine esterna che, in relazione alle peculiari esigenze del caso, si rivelino essere meno attrezzate di quelle interne a dare la più “intensa” tutela ai diritti in gioco; e non è inopportuno qui precisare che apprestare una tutela meno “intensa” non equivale necessariamente a disporre in contrasto con la norma o l’insieme di norme che invece portano ancora più in alto la tutela stessa. Come mi sono sforzato di mostrare in altri luoghi, alle volte si è infatti in presenza di norme che si dispongono in modo scalare lungo la stessa retta e lungo lo stesso verso, non già che si rivoltano frontalmente l’una contro l’altra[29].

Su ciò la convergenza dei punti di vista manifestati in ambito europeo parrebbe esser piena, senza riserve: vanno infatti letti così i disposti di cui all’art. 53 della CEDU e della Carta di Nizza-Strasburgo che – come si è accennato – ritagliano per le Carte stesse un ruolo meramente “sussidiario” rispetto a quello che può essere giocato dalle norme di diritto interno (costituzionali incluse!) in funzione della salvaguardia di taluni bisogni elementari dell’uomo[30]. Allo stesso modo vanno altresì letti, a mia opinione, le norme costituzionali espressive del principio dell’apertura al diritto internazionale e sovranazionale nel loro fare “sistema” coi principi sostantivi, segnatamente con quelli di cui agli artt. 2 e 3.

Invero, la posizione della giurisprudenza costituzionale sul punto è alquanto complessa, non lineare, in qualche passaggio persino indecifrabile; altalenante, per ciò che qui più importa, appare ad ogni buon conto essere al piano metodico l’indirizzo della Consulta, caratterizzato da continui slittamenti di piano.

E infatti.

Per un verso, le relazioni intersistemiche sono, in premessa, ambientate al piano della teoria delle fonti, riconoscendosi – come si è sopra rammentato – in capo alle norme dell’Unione forza “paracostituzionale” e qualificandosi invece la CEDU, seccamente, quale fonte “subcostituzionale”.

Per un altro verso, però, col fatto stesso di orientare i giudici (e gli operatori in genere) verso la ricerca della norma idonea ad apprestare la più “intensa” tutela, la Consulta mostra di voler ambientare le relazioni stesse al piano della teoria dell’interpretazione, abbandonando risolutamente (e, apparentemente, senza rimpianto) ogni schema qualificatorio d’ispirazione formale-astratta, rimpiazzato da uno d’ispirazione assiologico-sostanziale. Non si spiegherebbe altrimenti come possa una norma di legge avere ugualmente la meglio, in caso di contrasto con norma convenzionale, malgrado l’accertata, indiretta (ma, in realtà, come si è veduto, insussistente) violazione nei riguardi dell’art. 117, I c., cost.

La Corte è pronta nel far notare che a fronte di tale violazione si dà tuttavia (e può esser considerato preminente in ragione del caso) un servizio che la norma legislativa offra ad altra norma costituzionale o, meglio, alla Costituzione come “sistema”[31]. Come sempre, insomma, la risposta finale la si ha all’esito di operazioni di ponderazione assiologica, che orientano la scelta a favore di questa o quella norma: operazioni – è appena il caso qui di rammentare – che, svolgendosi in applicazione di criteri di ordine assiologico-sostanziale, rifuggono dall’essere convenientemente spiegate a mezzo di schemi qualificatori di formale fattura.

 

 

  1. Il raffronto su basi paritarie tra Costituzione e Carte dei diritti e la vocazione inclusiva del circolo interpretativo, in vista della congiunta applicazione di tutti i materiali normativi riguardanti i diritti, all’insegna di una teoria della “Costituzione-parziale”

 

Due sole notazioni ulteriori sul punto, con riserva di approfondimenti altrove.

La prima è che, una volta che ci si disponga alla ricerca della norma che dà la tutela più “intensa”, la stessa Costituzione – come si è già fatto in altri luoghi osservare – non può sottrarsi ad un siffatto confronto, che è culturale prima ancora che positivo, con esiti ovviamente astrattamente imprevedibili; dunque, anche la legge fondamentale della Repubblica potrebbe trovarsi obbligata a ripiegare davanti ad altra norma di origine esterna che fissi ancora più in alto il livello della tutela[32].

La seconda ed ai nostri fini ancora più rilevante notazione attiene specificamente al modo (o, diciamo pure, al metodo) con cui ha da porsi l’operatore che si accinga a siffatto raffronto. E il vero è che le norme, quale che sia il sistema di appartenenza, non sono un dato bell’e fatto che si offre all’operatore, cui non rimarrebbe altro da fare che metterlo su una bilancia di precisione allo scopo di verificare quale pesa di più perché di più è in grado di spendersi a beneficio dei diritti.

Di contro, già nel momento in cui si avvia il processo interpretativo e quindi lungo tutto il suo percorso l’operatore non può trattenersi dal far capo altresì a materiali normativi di origine esterna, che s’immettono nel processo stesso, lasciandovi un segno ora più ed ora meno marcato, orientando variamente il percorso stesso e, in fin dei conti, determinandone l’esito.

Le norme, insomma, non sono il prius del raffronto, ne sono piuttosto il posterius: l’operatore, muovendo da una prima, ancora confusa loro configurazione, mette quindi gradatamente a fuoco l’oggetto ripreso nel circolo interpretativo attraverso un’attività di interpretazione che – come ho avuto modo di precisare altrove – è doppiamente o, meglio, circolarmente conforme e che porta senza sosta dall’ordine interno a quello sovranazionale, per quindi tornare da quest’ultimo al primo ed aver in esso il suo finale ricetto[33].

È questa la ragione per cui l’esito naturale ed ottimale di una siffatta, internamente articolata e composita, operazione ermeneutica è dato non già dalla scelta “secca” ed esclusivizzante a beneficio di questa o quella norma, interna o esterna che sia, bensì dalla loro congiunta applicazione, conseguente alla loro mutua compenetrazione ed immedesimazione nel fatto interpretativo[34]. Non la “logica” dell’aut-aut, che appare essere comunque perdente, bensì quella dello stare assieme, del fare tutt’uno (“sistema”, appunto), è quella metodicamente consigliata agli operatori, senza nondimeno escludere in partenza l’eventualità che siffatto esito ottimale possa talora non essere raggiunto, imponendosi dunque quella scelta “secca” di cui si è appena detto[35].

La circolarità poi, per sua natura, tende al recupero di tutti i materiali in campo, ha cioè una vocazione inclusiva, siccome orientata alla congiunta valorizzazione dei materiali stessi nei fatti interpretativi.

Il limite dell’interpretazione conforme, per come usualmente intesa, è proprio quello di essere “verticale”, gerarchizzata, risentendo del condizionamento di una teoria delle fonti d’ispirazione formale-astratta che è, a conti fatti, inadeguata ad esser fatta valere nelle esperienze e per le esigenze dei diritti. Una teoria, insomma, che – come si viene dicendo – è respinta dall’oggetto cui pretende di essere applicata, siccome inidonea a coglierne l’essenza, a rappresentarla fedelmente, a servirla come si conviene.

V’è, a mio modo di vedere, una contraddizione insanabile tra l’orizzonte metodico-teorico entro cui si muove la teoria corrente delle fonti e le pretese naturalmente vantate da una teoria circolare dell’interpretazione.

L’uno è espressivo di una concezione “chiusa”, autoreferenziale, in sé perfetta, armonica nelle sue parti, dell’ordinamento di appartenenza e della sua fonte apicale (per ciò che riguarda l’ordinamento interno, la Costituzione[36]); le altre invece si spiegano ed hanno modo di farsi valere nel quadro di una visione “aperta” dell’ordinamento di appartenenza, che si dispone appunto a recepire e fare proprio ogni materiale normativo avente origine esterna che possa servire a dare il massimo appagamento possibile, alle condizioni oggettive di contesto, alla coppia assiologica fondamentale di libertà ed eguaglianza (e, in ultima istanza, dignità).

L’uno è figlio di un’idea di “Costituzione-totale”, che ha in sé le risorse per dare appagamento ad ogni istanza di libertà, di eguaglianza, di giustizia sociale; le altre sono espressive di una idea di “Costituzione-parziale”, che al fine di vedere colmate le proprie lacune di costruzione si dispone a farsi fecondare dalle altre Carte, laddove si dimostrino ancora più attrezzate a venire incontro alle istanze suddette. E, poiché ad esse fanno espresso, vigoroso richiamo alcuni principi della nostra Carta (e, segnatamente, quelli di cui agli artt. 2 e 3, nel loro fare “sistema” con quelli di cui agli artt. 10 e 11), se ne ha che, pur laddove la nostra Carta dovesse piegarsi all’alto ed all’altro (e, anzi, proprio in ciò), essa realizzerebbe comunque e al meglio… se stessa.

Il punto di vista esterno e quello interno fanno (o, meglio, dovrebbero, secondo modello, fare) insomma tutt’uno, perché al primo rimanda il secondo, facendolo proprio.

La stessa Corte costituzionale, in una sua risalente, ispirata pronunzia prefigura l’esito del paritario raffronto e della mutua compenetrazione dei materiali normativi relativi al diritti, dichiarando (sent. n. 388 del 1999) che la Costituzione e le Carte dei diritti “si integrano, completandosi reciprocamente nella interpretazione”; il passo è però preceduto da un significativo inciso nel quale la Consulta tiene a dichiarare che “i diritti umani, garantiti anche da convenzioni universali o regionali sottoscritte dall’Italia, trovano espressione, e non meno intensa garanzia, nella Costituzione” (segue un richiamo a Corte cost. n. 399 del 1998). Uno stato d’animo – come si vede – incerto, per non dire turbato, oscillante tra il corno dell’apertura sovranazionale e quello della chiusura in un nazionalismo o patriottismo costituzionale ingenuo ed infecondo.

Il primo frammento del discorso sembra espressivo di quel modello di “Costituzione-parziale”, imperfetta, bisognosa appunto di appoggiarsi e di alimentarsi alle altre Carte, di cui si è appena detto; il secondo, di contro, rivela un’idea di “Costituzione-totale”, che ha in se stessa il principio e la fine della propria esistenza, che è appunto in grado di dire tutto su tutto e che non ha perciò bisogno di punti esterni di sostegno.

I limiti delle costruzioni erette dalla teoria delle fonti (o, per dir meglio, da una certa teoria, d’ispirazione formale-astratta) sono, tuttavia, strutturali, insuperabili, gli esiti cui essa consente di pervenire avvolgendosi in se stessi ed esibendo irrisolte ed irrisolvibili aporie e contraddizioni.

Fatico invero a comprendere come si possa far luogo ad ordinazioni gerarchiche, secondo forma e per sistema, tra norme che danno, tutte, in tesi, il riconoscimento di diritti fondamentali; la qual cosa, poi, fatalmente si tradurrebbe in una inammissibile gerarchia tra i diritti stessi. L’ordinazione, in realtà, la fanno i casi e la si coglie ed apprezza unicamente in prospettiva assiologicamente orientata, al piano cioè della teoria dell’interpretazione, laddove ha modo di farsi valere quel criterio della tutela più “intensa” al quale qui è fatto diffuso richiamo. Il sistema così si scompone e ricompone in forme continuamente cangianti, alla ricerca dei punti di equilibrio, risultanti da sintesi di valore aventi carattere interordinamentale, tra gli interessi in gioco.

Che il confronto tra le Carte (Costituzione inclusa) non possa che essere paritario è, d’altronde, avvalorato dalla circostanza per cui le stesse norme di origine esterna astrattamente più forti in prospettiva formale-astratta, dal punto di vista cioè della teoria delle fonti, quelle dell’Unione, da se stesse si obbligano a prestare ossequio a norme meno forti, quelle della CEDU, laddove ciò risulti sollecitato dal bisogno di apprestare la maggior tutela ai diritti.

 

 

  1. I semi presenti nella giurisprudenza costituzionale di un possibile inquadramento delle relazioni intersistemiche in prospettiva assiologico-sostanziale e le tecniche raffinate messe in atto dalla giurisprudenza stessa al fine di smarcarsi dal pressing della giurisprudenza europea

 

Malgrado le irrisolte aporie di costruzione denunziate dalla giurisprudenza costituzionale (specie con riguardo alla CEDU ed ai suoi rapporti col diritto interno), si deve convenire che la giurisprudenza stessa racchiude in sé i semi che, opportunamente coltivati e portati a frutto, possono dare un orientamento alla ricerca volta alla ottimale salvaguardia dei diritti.

Mi riferisco ora allo scivolamento registratosi specie nella più recente giurisprudenza dal piano formale-astratto, al quale tipicamente si svolgono i ragionamenti ispirati dalla teoria tradizionale delle fonti, al piano assiologico-sostanziale, nel quale si ambienta ed esprime la teoria della interpretazione.

Tra le pronunzie in cui è più nitidamente visibile il punto di vista d’ispirazione assiologico-sostanziale, richiamo qui, oltre alla già cit. sent. n. 317 del 2009, le sentt. nn. 113 e 245 del 2011.

Al di là della soluzione di merito apprestata nei singoli casi, la si condivida o no, resta la bontà della prospettiva stessa, che è quella di dare effettività ai diritti, nella misura maggiore possibile alle condizioni complessive di contesto. Chi di noi, ancora fino a poco tempo addietro, avrebbe scommesso anche solo un soldo sulla possibile revisione dei processi penali passati in giudicato per effetto di sopravveniente pronunzia della Corte EDU che avesse constatato la violazione della Convenzione nel corso del loro svolgimento? O, ancora, chi avrebbe giudicato possibile l’abbandono delle forme per dar modo agli stranieri irregolari di poter accedere alle nozze?

La certezza del diritto in senso oggettivo è, sì, valore fondamentale bisognoso di essere come si conviene protetto ma alla sola condizione – fa capire ora la Corte – che si converta e risolva in certezza dei diritti, nella loro ottimale tutela appunto, attingendo alle norme di questo o quel sistema (e, meglio ancora, di tutte assieme), a ciò che esse hanno da offrire al servizio dei diritti stessi[37].

Il “sistema di sistemi” si fa e senza sosta rinnova proprio così, nel fatto stesso di riuscire a dare una risposta persuasiva a quanti fiduciosi chiedono appagamento per i loro diritti. La teoria tradizionale delle fonti, nella sua connotazione formale-astratta, tutto questo non è in grado di coglierlo e rappresentarlo come si deve; può invece farlo la teoria della interpretazione, una volta portata alle sue conseguenti, attese applicazioni.

Ora, per quanto la Corte insista nel voler fissare il punto di unione dei sistemi laddove può aversi la più avanzata tutela dei diritti, resta il fatto che non coincidenti sono, al piano sovranazionale ed a quello dello Stato, i modi d’intendere e di pesare in concreto l’“intensità” della tutela, non di rado assistendosi a punti di vista sostanziali divaricati, tali da portare a veri e propri conflitti, seppur il più delle volte almeno in parte abilmente mascherati o, diciamo così, attutiti.

Nella giurisprudenza costituzionale si hanno plurime e probanti testimonianze delle tecniche più di frequente utilizzate allo scopo di marcare la distanza dalla giurisprudenza europea (specie da quella di Strasburgo)[38], la quale peraltro, dal suo canto, appare connotata da vistosa agilità di movenze e non lievi oscillazioni di orientamento, forse ancora in maggior grado esibite dalla giurisprudenza convenzionale a motivo del suo carattere casistico, per quanto essa pure non nasconda l’ambizione di portarsi oltre il caso, secondo quanto ad es. avvalorato dalle pronunzie-pilota[39].

Non è di qui, ovviamente, far luogo a quelle verifiche sul campo che pure sarebbero necessarie e che però richiederebbero svolgimenti estesi ai singoli ambiti materiali di esperienza ed approfondimenti comunque esorbitanti lo spazio ristretto di cui ora si dispone ed anche – ad esser franchi – le forze di chi dovrebbe farvi luogo. È nondimeno importante fermare, sia pure solo per un momento, l’attenzione sul fatto che il margine di apprezzamento, astrattamente riconosciuto a beneficio degli operatori di diritto interno, subisce continui adattamenti anche in ragione degli indirizzi interpretativi nel frattempo delineatisi negli ordinamenti degli Stati aderenti alla Convenzione. Non è senza significato che la Corte di Strasburgo si appoggi non poche volte al “consenso” degli Stati per far sentire forte e chiaro il timbro della propria voce, restringendo significativamente l’ambito rimesso all’apprezzamento nazionale fino in qualche caso ad azzerarlo del tutto[40].

Ancora una volta, è sulla base delle “tradizioni costituzionali comuni” (o, quanto meno, largamente convergenti) che vengono fatte poggiare talune decisioni del giudice europeo particolarmente incisive, talora persino “aggressive”, per riprender ancora una volta una loro azzeccata qualifica datane da una dottrina sempre attenta agli sviluppi dei rapporti tra le Corti[41].

Davanti a siffatto atteggiamento della Corte europea, la giurisprudenza costituzionale ha dato fondo alle non poche risorse argomentative di cui è dotata, nell’intento di preservare la specifica connotazione culturale dell’ordinamento di appartenenza.

Due le tecniche al riguardo poste in essere e maggiormente conducenti al fine, riportabili, l’una, al principio, insistentemente professato, secondo cui la giurisprudenza EDU non va di necessità osservata in ogni sua parte bensì unicamente nella sua “sostanza” o – il che è praticamente lo stesso – va adattata alle peculiari esigenze dell’ordine interno[42]; l’altra al principio per cui non rileva tanto o solo la protezione assicurata dalla Convenzione al singolo diritto in campo bensì quella che risulta dalla considerazione dell’insieme dei beni costituzionalmente protetti, nel loro fare “sistema” appunto[43]. Soprattutto grazie a quest’ultima indicazione, alla quale la Consulta mostra ora di voler assegnare uno speciale significato[44], la Consulta stessa ha buon gioco nel far valere la preminenza di quegli “imperiosi motivi d’interesse pubblico” che la giurisprudenza europea considera idonei ad affermarsi a discapito di posizioni soggettive pure garantite dalla Convenzione.

Il fatto è che ciascuna Corte non intende rinunziare a far valere il proprio punto di vista circa ciò che sono i “motivi” in parola, le condizioni della loro azionabilità, il modo del loro porsi davanti ai diritti.

Sono soprattutto i diritti che “costano” (o, diciamo meglio, che costano più di altri[45]) a trovarsi maggiormente esposti nella presente congiuntura afflitta da una crisi economica senza precedenti, che rischia di portare al collasso le strutture portanti degli ordinamenti non solo europei[46]. La recente, nota vicenda delle leggi d’interpretazione autentica, in relazione alla quale si è assistito ad una non ricomposta divergenza di orientamenti tra Corte EDU e Corte costituzionale, è indicativa del fatto che, davanti al bisogno di far quadrare i conti pubblici, i diritti soggettivi sono assai di frequente obbligati a farsi da parte o, come che sia, a sottostare a considerevoli sacrifici. Il vero è che il carattere viepiù esiguo delle risorse economiche disponibili s’irradia con effetti a raggiera pervadendo l’intero ordinamento e comportando una profonda alterazione del quadro costituzionale, toccato pressoché in ogni sua parte; e basti solo al riguardo rammentare la forte compressione dell’autonomia regionale registratasi con l’acuirsi della crisi economica[47]. La qual cosa, poi, ha pure, per la sua parte, una immediata, rilevante ricaduta al piano della salvaguardia dei diritti, ove si convenga che il senso complessivo dell’autonomia è proprio nel suo porsi al servizio dei diritti, concorrendo in corposa misura a darvi il congruo appagamento[48].

Non a caso, d’altronde, laddove gli effetti della crisi non sembrano avvertirsi, perlomeno in modo particolarmente accentuato, i diritti ritrovano uno spazio adeguato per farsi valere; della qual cosa si hanno numerose testimonianze specialmente con riferimento ai diritti “etico-sociali”, giusto quelli per la cui salvaguardia la giurisprudenza europea, pur se in modo alquanto altalenante, tende complessivamente a rimettersi alle soluzioni frutto di apprezzamento nazionale, pur non facendo difetto talune importanti e coraggiose pronunzie espressive di un indirizzo della Corte EDU volto a farsi carico del bisogno di tutela dei diritti in parola.

Assai istruttive delle oscillazioni in parola le vicende della fecondazione medicalmente assistita[49], della esibizione di simboli religiosi in luoghi pubblici[50], del matrimonio degli omosessuali[51] ed altre ancora, in relazione alle quali ad un iniziale orientamento della Corte EDU particolarmente “aggressivo”, nel senso sopra detto, la stessa Corte, riunita in Grande Camera, ha sia pure in parte temperato l’orientamento stesso, salvaguardando il margine d’apprezzamento degli Stati.

Quest’esito insegna molte cose e consente di affacciare qualche previsione anche sui possibili sviluppi delle relazioni intersistemiche.

 

 

  1. La ricerca di un equilibrio, ancorché instabile ma complessivamente appagante, tra uniformità e differenziazione nella salvaguardia dei diritti, e le prospettive che possono aprirsi ad una autentica, solida “federalizzazione dei diritti”, anche grazie all’avvicinamento dei rapporti che il diritto interno intrattiene, rispettivamente, col diritto “eurounitario” e col diritto convenzionale

Vedo nella giurisprudenza della Corte EDU lo sforzo di conciliare il “nucleo duro” dei diritti riconosciuti al piano europeo con la salvaguardia delle specificità culturali, ancora prima che positive, proprie dei singoli ordinamenti nazionali. La qual cosa, peraltro, si spiega anche nella varietà dei contesti riscontrabili in ambito nazionale, in ragione, oltre che del loro numero[52], della loro storia e di quant’altro ne dà la cifra identificativa complessiva. Il modello che va proponendosi come vincente è quello – a me pare[53] – di una sorta di “federalizzazione dei diritti”, nel quale peraltro si specchia e riproduce un modello generale di organizzazione, che coinvolge la struttura degli Stati sia al proprio interno (al piano, cioè, dei rapporti che in ciascuno di essi si intrattengono tra centro e periferia) che nelle sue proiezioni esterne (al piano delle relazioni sovranazionali, appunto).

In questo quadro, ad oggi per vero assai mobile e per molti tratti persino sfuggente, marcata appare essere la tendenza alla omologazione delle discipline positive ed alla convergenza degli orientamenti giurisprudenziali[54], una tendenza che accompagna e segna i più salienti sviluppi della integrazione europea. Allo stesso tempo, tuttavia, i modelli costituzionali nazionali non smarriscono la propria identità culturale ma la vedono confermata, rigenerata a fondo proprio grazie al reciproco confronto[55], oltre che al confronto (e talora allo scontro) con un’identità europea ormai in avanzata maturazione.

Al riguardo, su due cose vorrei, in chiusura, sollecitare a fermare particolarmente l’attenzione.

La prima è che quest’equilibrio, per sua natura perennemente instabile, tra uniformità e differenziazione richiede uno sforzo costante e poderoso per essere salvaguardato come si conviene, perché è proprio in esso e grazie ad esso che i diritti possono esser fatti valere al massimo delle loro potenzialità espressive, sia pure alle condizioni oggettive di contesto: uno sforzo prodotto a ciascun livello istituzionale e da parte di tutti, giudici “costituzionali” (nella larga accezione qui accolta) e giudici comuni, il cui ruolo, di cruciale rilievo, merita di essere qui ancora una volta, come si conviene, sottolineato[56].

Il perfezionamento del “sistema di sistemi” si coglie proprio in ciò: nel suo essere ed interamente risolversi, nel corso delle vicende riguardanti i diritti, in una ricerca (non di rado sofferta, comunque assai impegnativa) del… sistema, vale a dire del modo con cui si renda possibile fissare, in un processo che non ha mai fine, i punti di equilibrio degli interessi in campo, di quell’equilibrio – come s’è veduto – dei punti di vista, portando all’emersione in primo piano di ciò che di meglio ciascuno di essi possiede ed esprime ed a lasciare in ombra ciò che invece fa da ostacolo all’affermazione della più “intensa” tutela dei diritti.

La seconda riguarda uno stato di fatto che non saprei ora dire quanto ancora possa durare.

Mi riferisco alla circostanza per cui, mentre nei riguardi dell’Unione (e, per ciò pure, della sua giurisprudenza) la Consulta tiene un atteggiamento assai cauto e persino deferente, assumendo che davanti ai suoi atti l’ordine interno sia tenuto per sistema a piegarsi, dandovi pronta e puntuale osservanza, di contro assai più flessibile è l’atteggiamento manifestato al piano dei rapporti con la CEDU (e la sua vestale, la Corte di Strasburgo), secondo quanto si è dietro mostrato accennando al carattere circoscritto dell’obbligo gravante sulla stessa Corte costituzionale (e, dunque, anche sui giudici comuni) di prestare ossequio alla sola “sostanza” della giurisprudenza europea[57].

Ora, in disparte lo scenario, ad oggi imprevedibile, che potrebbe aversi per effetto della prevista, auspicata adesione dell’Unione alla CEDU, già al presente – giusta l’impostazione qui data alle relazioni intersistemiche e la prospettiva assiologico-sostanziale da cui se ne consiglia l’osservazione – una siffatta, rigida distinzione di regimi appare meritevole di critico ripensamento, ove appunto si convenga a riguardo del mutuo, incessante processo di rigenerazione semantica che si intrattiene tra le Carte (e le Corti); tanto più se si considera che lo stesso giudice dell’Unione dichiara di voler cospicuamente attingere al giudice di Strasburgo riversando quindi nei propri atti il frutto dell’influenza culturale da quest’ultimo in considerevole misura esercitata; il quale giudice, peraltro, dal suo canto, si fa cura assai di frequente di appoggiarsi alla giurisprudenza della Corte dell’Unione, in tal modo arricchendo e rinnovando il circolo interpretativo, nel quale ovviamente s’immettono anche le suggestioni che vengono dagli ambienti nazionali (specie, ma non solo, ad opera dei tribunali costituzionali), componendosi in forme varie, in ragione degli interessi in campo e delle congiunture, con le indicazioni provenienti ab extra.

La vicenda è in corso e non è dunque agevole prevederne i prossimi, probabili sviluppi. Non rari sono, invero, gli irrigidimenti, da una parte e dall’altra, alle volte – vorrei dire – i veri e propri crampi mentali che non consentono di disporsi ad un ascolto non preorientato nei riguardi delle ragioni dell’altro, del diverso punto di vista di cui esse sono espressione. Il “dialogo” – è stato da più d’uno fatto notare[58] – è non di rado apparente, traducendosi piuttosto in un doppio o plurimo monologo tra parlanti lingue diverse, non reciprocamente comunicanti.

Vi sono alcuni indici esteriori che ad un occhio vigile e sensibile consentono di percepire la pervicace refrattarietà a far luogo ad un vaglio del punto di vista altrui non viziato in partenza da remore non taciute: un punto di vista che può, poi, anche non essere accolto ma solo a seguito della sua accurata e serena considerazione.

Così, i richiami non sempre fino in fondo fedeli bensì alle volte “filtrati”, selezionati, alla giurisprudenza altrui rendono testimonianza di resistenze legate a tradizioni culturali sottratte in partenza alla loro possibile revisione. O, ancora, l’orgogliosa (ma, a mio avviso, sterile e francamente insensata) rivendica di un primato culturale e positivo, che si ritiene assiomaticamente spettare all’ordinamento di appartenenza, cela a fatica, malamente, quell’animus volto alla improduttiva chiusura in se stessi da cui forse nascono i maggiore pregiudizi per i diritti. E duole constatare che siffatta chiusura si ha non poche volte proprio ad opera delle Corti nazionali, e segnatamente, per ciò che qui più importa, del nostro giudice delle leggi, che pure è assai abile nel mascherarla (o tentare di mascherarla…).

Non infrequenti sono, poi, i richiami fatti ad pompam (specie da parte della giurisprudenza nazionale alla giurisprudenza europea), a supporto di una soluzione che si ritiene nondimeno avere tutta quanta già nella Carta costituzionale la sua giustificazione. Insomma, una giurisprudenza costituzionale che dichiara, sì, di volersi aprire all’alto ed all’altro ma che, allo stesso tempo, conferma la compiutezza, la perfezione, della tutela apprestata dalla Carta di cui è garante, rifacendosi all’indicazione contenuta in uno dei frammenti sopra riportati e tratti dalla composita pronunzia del ’99.

Il vero è che la giurisprudenza costituzionale, allo stato attuale del suo sofferto processo di maturazione, appare – come si è veduto – altalenante, alla ricerca di una identità e stabilità ancora non raggiunte e forse invero problematicamente raggiungibili anche nel prossimo futuro: perlomeno, fintantoché non saprà decidersi a riguardo del piano (se quello della teoria delle fonti ovvero l’altro della teoria dell’interpretazione) al quale ambientare le relazioni intersistemiche e del metodo (se d’ispirazione formale-astratta ovvero assiologico-sostanziale) in applicazione del quale far luogo alla loro opportuna messa a punto.

Lo studioso, per suo statuto metodologico, non può sottrarsi all’onere di portare alla luce sia i tratti chiari che quelli scuri dell’oggetto della sua critica osservazione. Vorrei però chiudere questa succinta ed approssimativa analisi con una nota ottimistica, dando dunque particolare risalto soprattutto ai primi, pur non nascondendomi i secondi. Può darsi, infatti, che con l’ulteriore avanzata del processo d’integrazione europea, gli Stati (specie quelli che si considerano “forti”, in grado di aver ancora oggi una missione da compiere al di fuori delle loro mura domestiche)[59] possano essere sollecitati ad attivare gli strumenti di difesa di cui dispongono[60], chiudendosi a riccio ed innalzando una barriera invalicabile da parte delle norme europee (e delle decisioni delle Corti che se ne sono garanti). Non credo però che, alla lunga, si riveli essere questa una strategia vincente; sono piuttosto propenso a credere che verrà sempre di più a prendere piede quella sana competizione al rialzo, a chi è in grado di offrire di più e di meglio al servizio dei diritti, tra Carte e tra Corti, di cui peraltro si hanno molti segni nella giurisprudenza, specie in quella degli anni a noi più vicini. Una competizione che – come si è venuti dicendo – è culturale, ancora prima (o piuttosto che) positiva, e che, nel lungo periodo, può portare all’avvicinamento dei regimi giuridici che stanno a base delle relazioni intersistemiche e delle giurisprudenze, se non pure alla piena omologazione degli uni e ad una piatta, incolore ed inespressiva uniformità degli indirizzi delle seconde, rendendosi in tal modo palese quella “federalizzazione dei diritti” che – come pure si faceva notare – appare essere la prospettiva sempre più concreta, adeguata, del “sistema di sistemi” nell’Europa in formazione.

 

* Relazione al secondo convegno “V. Aymone” su Sistema penale e fonti sovranazionali: la giurisprudenza delle Corti europee ed il ruolo dell’interprete, Lecce 19-20 aprile 2013, alla cui data lo scritto è aggiornato.

[1] Non adopero qui il termine “ordinamento”, che possiede una valenza più ampia di quella di “sistema”, comprensiva degli elementi istituzionali che lo connotano, non già perché persuaso della improprietà di siffatta qualifica in relazione a ciascuno dei termini della relazione qui fatta oggetto di studio bensì al solo fine di non distaccarmi dal punto di vista adottato dalla giurisprudenza costituzionale, cui – come dirò a momenti – si fa qui specifico riferimento: un punto di vista che, in merito alla CEDU, ha portato – come si sa – a negare, già a partire dalle pronunzie “gemelle” del 2007, la “copertura” a suo beneficio dell’art. 11, difettando in essa – a dire della Consulta – il carattere di “organizzazione” dalla norma costituzionale richiesto, malgrado la seconda di tali pronunzie avesse, in un passaggio del suo articolato ragionamento, per vero esplicitamente ammesso il carattere “istituzionale” della Convenzione (si definisce, infatti, al punto 6.1 del cons. in dir., la CEDU quale “realtà giuridica, funzionale e istituzionale”; e, perciò, viene da dire, sulla scia dell’insegnamento romaniano, un “ordinamento giuridico”). Ammettere poi la proprietà istituzionale della Convenzione – come ad opinione mia e di altri sarebbe giusto, se non altro in considerazione del fatto che essa fa capo al Consiglio d’Europa – non equivale, ovviamente, ad escludere né i tratti peculiari della istituzione in parola né, dunque, la parimenti peculiare natura dei suoi rapporti col diritto interno, secondo quanto qui pure si tenterà per taluni aspetti di mostrare.

[2] Su ciò, per tutti, R. Bifulco, La cooperazione nello Stato unitario composto. Le relazioni intergovernative di Belgio, Italia, Repubblica federale di Germania e Spagna nell’Unione Europea, Padova 1995.

[3] A riguardo della separazione tra una “Costituzione dei diritti” ed una “Costituzione dei poteri”, pertinenti notazioni critiche in M. Luciani, La “Costituzione dei diritti” e la “Costituzione dei poteri”. Noterelle brevi su un modello interpretativo ricorrente, in Scritti in onore di V. Crisafulli, II, Padova 1985, 497 ss.

[4] La giurisprudenza offre numerose testimonianze in tal senso, sia pure non celando non rimosse, vistose incertezze ed oscillazioni. Si pensi, ad es., ai casi in cui si è ammesso il superamento del riparto costituzionale di competenze tra Stato e Regioni in funzione della ottimale salvaguardia dei diritti (per tutte, Corte cost. n. 10 del 2010, relativamente alla istituzione della social card con atto dello Stato, malgrado ne fosse riconosciuta l’afferenza alla materia, di esclusiva spettanza delle Regioni, dei servizi sociali); un superamento che, tuttavia, non è stato consentito in senso inverso, a beneficio cioè di leggi regionali “anticipatrici” di discipline statali carenti (sent. n. 373 del 2010) ovverosia laddove l’intervento regionale, ancorché invasivo di ambiti statali, potesse comunque tradursi in una più “intensa” tutela di un diritto fondamentale (nella specie, la salute) e, in ultima istanza, della dignità della persona umana (sent. n. 325 del 2011): valore, quest’ultimo, al quale qui si assegna uno speciale rilievo anche per ciò che concerne le relazioni intersistemiche fatte oggetto di studio. Per altro verso, la Corte ha decisamente affermato il carattere indisponibile del riparto costituzionale delle competenze tra Stato e Regioni, non superabile neppure in considerazione dell’emergenza economica (sent. n. 39 del 2013, ed ivi richiamo a sentt. nn. 148 e 151 del 2012; ma v., ora, sent. n. 62 del 2013, che riprende e conferma il verdetto espresso nella cit. sent. n. 10 del 2010).

Per restare, poi, al campo di esperienza qui specificamente rilevante, un “bilanciamento” (non paritario…) tra norme sulla normazione e norme sostantive, suscettibile di portare alla messa da canto delle prime, si è ammesso – come si avrà modo di dir meglio più avanti – con specifico riguardo a norme legislative incompatibili con la CEDU, fatte ciononostante salve appunto in quanto idonee ad apprestare un’ancòra più “intensa” tutela ai diritti.

[5] In questi termini ne ho, ancora da ultimo, discorso nel mio L’“intensità” del vincolo espresso dai precedenti giurisprudenziali, con specifico riguardo al piano dei rapporti tra CEDU e diritto interno e in vista dell’affermazione della Costituzione come “sistema”, in www.giurcost.org, 30 gennaio 2013.

Un riferimento alla Costituzione come “sistema” si è di recente avuto in Corte cost. n. 1 del 2013 (relativa al noto caso di conflitto tra il Presidente della Repubblica e la Procura di Palermo), specificamente al piano dell’interpretazione costituzionale (coi suoi immediati riflessi nei giudizi di costituzionalità). Si dice infatti che “la valutazione di conformità alla Costituzione stessa deve essere operata con riferimento al sistema, e non a singole norme, isolatamente considerate. Un’interpretazione frammentaria delle disposizioni normative, sia costituzionali che ordinarie, rischia di condurre, in molti casi, ad esiti paradossali, che finirebbero per contraddire le stesse loro finalità di tutela” (punto 8.1 del cons. in dir.). Poco più avanti (punto 10, cons. in dir.) si fa poi notare che “l’interpretazione meramente letterale delle disposizioni normative, metodo primitivo sempre, lo è ancor più se oggetto della ricostruzione ermeneutica sono le disposizioni costituzionali, che contengono norme basate su principi fondamentali indispensabili per il regolare funzionamento delle istituzioni della Repubblica democratica” (in argomento, per tutti, A. Morelli, La riservatezza del Presidente. Idealità dei principi e realtà dei contesti nella sentenza n. 1 del 2013 della Corte costituzionale, in www.penalecontemporaneo.it, 27 marzo 2013, ed ivi altri riferimenti).

[6] Poiché – come si viene dicendo – i sistemi si strutturano al proprio interno in “subsistemi”, non considero fuor di luogo ragionare qui della Costituzione nella sua interezza quale “nucleo duro” del sistema statale, fermo restando che in seno alla stessa Costituzione da tempo la più avveduta dottrina individua l’esistenza di un “nucleo duro”, costituito dai principi fondamentali che ne danno l’essenza e che, pertanto, sono usualmente considerati intangibili (su ciò, per tutti, A. Spadaro, in molti scritti e, part., in Contributo per una teoria della Costituzione, I, Fra democrazia relativista e assolutismo etico, Milano 1994; AA.VV., Giurisprudenza costituzionale e principî fondamentali. Alla ricerca del nucleo duro delle Costituzioni, a cura di S. Staiano, Torino 2006, e Q. Camerlengo, Contributo ad una teoria del diritto costituzionale cosmopolitico, Milano 2007). A quest’ultimo riguardo, dovrebbero tuttavia, a mia opinione, farsi talune precisazioni, all’esito delle quali gli stessi principi potrebbero trovarsi soggetti a modifiche, sempre che rimanga però integro (e, anzi, viepiù valorizzato) il patrimonio dei valori che ha nei principi la sua prima e più genuina trascrizione positiva (ma di ciò, in altra sede).

[7] Sulla varietà delle qualificazioni delle relazioni interordinamentali e il loro carattere dogmatico, in ragione della scelta dell’ordinamento positivo dal quale ad esse si guarda, v., di recente, A. Schillaci, Diritti fondamentali e parametro di giudizio. Per una storia concettuale delle relazioni tra ordinamenti, Napoli 2012.

[8] Un esempio per tutti, che riprenderò anche più avanti, può vedersi nella “resistenza” che è, sì, opposta da un’agguerrita giurisprudenza comune all’indicazione data dalla giurisprudenza costituzionale a riguardo del divieto di applicazione diretta della CEDU al posto di leggi con essa contrastanti; come tuttavia ci viene, ancora da ultimo, rammentato da una sensibile studiosa (E. Lamarque, L’interpretazione conforme alla CEDU da parte dei giudici comuni, relaz. all’incontro di studio svoltosi a cura del Consiglio Superiore della Magistratura, Formazione Decentrata del Distretto di Milano, l’11 gennaio 2013 su La Corte europea dei diritti dell’uomo: il meccanismo di decisione della CEDU e i criteri d’interpretazione conforme, in paper, che si rifà ad uno studio di I. Carlotto), si tratta di una giurisprudenza assolutamente minoritaria, la gran parte dei giudici piuttosto essendosi prontamente piegata davanti all’indicazione stessa.

[9] Tra i più pronti a rilevare e compiutamente descrivere questa tendenza, v. O. Pollicino, Allargamento ad est dello spazio giuridico europeo e rapporto tra Corti costituzionali e Corti europee. Verso una teoria generale dell’impatto interordinamentale del diritto sovranazionale?, Milano 2010, spec. 451 ss., e O. Pollicino-V. Sciarabba, Tratti costituzionali e sovranazionali delle Corti europee: spunti ricostruttivi, in AA.VV., L’integrazione attraverso i diritti. L’Europa dopo Lisbona, a cura di E. Faletti-V. Piccone, Roma 2010, 125 ss. Più di recente, v. B. Randazzo, Giustizia costituzionale sovranazionale. La Corte europea dei diritti dell’uomo, Milano 2012, e D. Tega, I diritti in crisi. Tra Corti nazionali e Corte europea di Strasburgo, Milano 2012.

[10] Esplicita dichiarazione in tal senso è nell’art. 53 sia della CEDU che della Carta di Nizza-Strasburgo; quanto poi alla nostra Carta costituzionale, allo stesso esito essa sembra voler pervenire, perlomeno a stare ad una certa ricostruzione del punto di vista adottato dalla stessa (su di che, a breve).

[11] Si daranno più avanti alcuni esempi al fine di dare un minimo di concretezza al discorso che si viene ora sommariamente facendo, ricercando in essi quelle conferme di cui la ricostruzione teorica ha comunque bisogno.

[12] Per altro verso, la comune opinione, condivisa – come si sa – dalla giurisprudenza, secondo cui il diritto convenzionale sarebbe maggiormente gravato rispetto al diritto dell’Unione in relazione al parametro costituzionale, in quanto soggetto all’osservanza di ogni norma e non dei soli principi fondamentali della Carta, appare essa pure viziata da palese astrattismo, trascurando il dato elementare, di tutta evidenza, per cui la CEDU, a motivo dei suoi contenuti e del linguaggio a maglie larghe o larghissime con cui essi sono espressi, sembra potersi naturalmente confrontare unicamente con gli enunciati costituzionali ad essa omologhi e perciò, in buona sostanza, coi soli principi. Come si vede, la prospettiva assiologico-sostanziale porta, in molti casi e sotto più aspetti, a rovesciare l’esito teorico-ricostruttivo cui invece fa pervenire la prospettiva formale-astratta d’inquadramento sistematico.

[13] … o, per dir meglio, verso di esse “orientata”: come ci rammenta opportunamente, ancora da ultimo, E. Lamarque, nel suo scritto sopra cit., è prescritto infatti unicamente il verso del percorso interpretativo, mentre – com’è chiaro – non può esserne garantito l’esito.

[14] … le norme self-executing dell’Unione potendo comportare l’immediata “non applicazione” delle norme interne con esse incompatibili, diversamente – ci dice la giurisprudenza costituzionale – delle norme convenzionali, dal contrasto con esse discendendo l’obbligatorio ricorso alla Consulta avverso le statuizioni di legge che se ne rendano responsabili perché siano sanzionate con la tecnica usuale dell’annullamento. È pure da prendere astrattamente in conto l’eventualità che ad esser portate alla cognizione della Corte siano proprio le norme convenzionali, ove si dubiti della loro conformità a Costituzione, come pure è possibile che l’incompatibilità in parola sia motu proprio rilevata dal giudice delle leggi. In ogni caso, come si accennava poc’anzi, sarebbe preclusa al giudice comune la “non applicazione” delle leggi anticonvenzionali, accompagnata dalla contestuale applicazione di queste ultime, a favore della quale si è invece dichiarata certa giurisprudenza comune, col benevolo apprezzamento di alcuni studiosi.

Con riserva di ulteriori precisazioni sul punto che si faranno più avanti, segnalo al momento quanto sia singolare il fatto che la Corte non si sia finora mai interrogata a riguardo della sostanziale coincidenza di norme CEDU e di norme della Carta di Nizza-Strasburgo, le quali ultime, una volta qualificate come self-executing, potrebbero richiedere di essere portate subito ad applicazione (sempre che, ovviamente, il caso ricada in ambito materiale dell’Unione), portando seco dunque anche le corrispondenti norme convenzionali.

[15] Ovvio il riferimento allo scritto di P. Barile apparso su Giur. cost. del 1973, 2406 ss.

[16] … specificamente valevole per risolvere le antinomie tra leggi nazionali sopravvenienti ed incompatibili col diritto sovranazionale; nel caso inverso, di sopravvenienza del secondo rispetto alle prime, si è – come si sa – ammessa l’abrogazione di queste da parte di quello, sempre che materialmente possibile, il sindacato accentrato restando comunque riservato alle antinomie con norme sovranazionali prive dell’attitudine all’immediata applicazione.

[17] Si pensi solo a quante norme di legge sono invece ogni anno caducate per violazione di questo o quel principio, a partire da quello di eguaglianza.

Un’applicazione della dottrina dei “controlimiti” – ma nei rapporti con la CEDU, non già nei riguardi del diritto dell’Unione – si è vista (G. Scaccia, “Rottamare” la teoria dei controlimiti?, in Quad. cost., 1/2013, 145) in Corte cost. n. 264 del 2012 (su cui infra). Come si è tentato di mostrare in altri luoghi e qui pure si viene dicendo, ciò che non persuade della dottrina in discorso è la configurazione teorica dei “controlimiti” quali… limiti per sistema valevoli all’affermazione in ambito interno del diritto eurounitario, la quale può, invece, ora ugualmente aversi, malgrado la violazione dei limiti in parola, ed ora invece non aversi, all’esito pur sempre di operazioni di ponderazione assiologica volte alla ricerca dell’ottimale salvaguardia, alle condizioni oggettive di contesto, dei diritti (e, più in genere, dei beni) costituzionali in gioco.

[18] Per questo verso, l’Italia si è, nei fatti, dimostrata tra i più “europeisti” Stati dell’Unione, diversamente da altri che ora hanno posto condizioni gravose all’ingresso in ambito interno degli atti dell’Unione stessa ed ora l’hanno talora impedito, non facendosi cura degli effetti di sistema, di ordine istituzionale e normativo assieme, derivanti da siffatta opzione.

[19] In questi termini se ne discorre nel mio Trattato costituzionale, europeizzazione dei “controlimiti” e tecniche di risoluzione delle antinomie tra diritto comunitario e diritto interno (profili problematici), in AA.VV., Giurisprudenza costituzionale e principî fondamentali, cit., 827 ss.

[20] Resta nondimeno non chiarito se, in caso di denunzia della violazione dell’art. 4, cit., il riconoscimento della supposta violazione dei principi di struttura degli Stati membri resti sostanzialmente riservato agli Stati stessi (e, in tal caso, a quale dei suoi organi) ovvero se il finale apprezzamento competa alla Corte dell’Unione. Non è, ad ogni buon conto, senza significato che non si dia alcun meccanismo formale di collegamento tra Corti attivabile in ambito sovranazionale, una sorta – per dir così – di rinvio pregiudiziale discendente. Tutto ciò posto, è fuor di dubbio che la Corte di giustizia non possa comunque non tenere nel dovuto conto gli orientamenti della giurisprudenza nazionale, pur potendone variamente operare le selezioni più opportune in ragione dei casi (in argomento, ora l’ampio saggio di B. Guastaferro, Beyond the Exceptionalism of Constitutional Conflicts: The Ordinary Functions of the Identity Clause, in Yearbook of European Law, 1/2012, 263 ss.).

[21] Su Il patrimonio costituzionale europeo, ricordo qui solo, con questo titolo, il noto saggio monografico di A. Pizzorusso (Bologna 2002).

[22] Mi sono più volte dichiarato (di recente, ne Il futuro dei diritti fondamentali: viaggio avventuroso nell’ignoto o ritorno al passato?, in www.federalismi.it, 4/2013) nel senso appena indicato nel testo, ritenendo essere la dignità l’autentico valore fondante l’intero ordinamento, anche nelle sue proiezioni interordinamentali, il punto fermo dal quale tutti i valori si tengono ed al quale fa pertanto capo ogni operazione di ponderazione assiologica.

[23] Si pensi solo ai diktat imposti dall’Unione agli Stati (specie ad alcuni, in stato di palese sofferenza ed a rischio default) e volti a mettere finalmente ordine nei conti pubblici.

[24] Da tempo si discorre al riguardo di una “sovranità condivisa” tra Unione e Stati (così, di recente, F. Paterniti, Legislatori regionali e legislazione europea. Le prospettive delle Regioni italiane nella fase ascendente di formazione del diritto dell’Unione europea dopo il Trattato di Lisbona, Milano 2012, 241 ss.), sulla base di un riparto materiale di competenze che ha nei trattati la sua prima e sia pur approssimativa definizione ma che poi riceve ogni giorno nell’esperienza (e per le sue più salienti esigenze) la sua concreta messa a punto. La qual cosa mostra quanto sia arduo stabilire, ancorché in modo largamente approssimativo, la consistenza effettiva del riparto in parola, soggetto ad un’accentuata fluidità nella quale si specchia e risolve la mobile combinazione degli interessi nazionali e sovranazionali nella loro storicizzazione complessiva.

[25] Il punto ha animato un fitto e ad oggi non finito dibattito; poco approfondita, tuttavia, appare la questione relativa al criterio in applicazione del quale si possa, ancorché in modo approssimativo, misurare il grado (l’“intensità”, appunto) della tutela data da questa o quella norma (o da questo o quel sistema di norme) ai diritti [indicazioni in O. Pollicino, Margini di apprezzamento, art. 10, c. 1, Cost. e bilanciamento “bidirezionale”: evoluzione o svolta nei rapporti tra diritto interno e diritto convenzionale nelle due decisioni nn. 311 e 317 del 2009 della Corte costituzionale?, in www.forumcostituzionale.it; AA.VV., Corti costituzionali e Corti europee dopo il Trattato di Lisbona, a cura di M. Pedrazza Gorlero, Napoli 2010; AA.VV., The National Judicial Treatment of the ECHR and EU Laws. A Comparative Constitutional Perspective, a cura di G. Martinico e O. Pollicino, Groningen 2010; AA.VV., Le garanzie giurisdizionali. Il ruolo delle giurisprudenze nell’evoluzione degli ordinamenti. Scritti degli allievi di Roberto Romboli, a cura di G. Campanelli-F. Dal Canto-E. Malfatti-S. Panizza-P. Passaglia-A. Pertici, Torino 2010; R. Conti, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo del giudice, Roma 2011, e, dello stesso, da ultimo, Gerarchia fra Corte di Giustizia e Carta di Nizza-Strasburgo? Il giudice nazionale (doganiere e ariete) alla ricerca dei  “confini” fra le Carte dei diritti dopo la sentenza Åklagaren (Corte Giust., Grande Sezione, 26 febbraio 2013, causa C-617-10), in www.diritticomparati.it,, 5 marzo 2013; G. Repetto, Argomenti comparativi e diritti fondamentali in Europa. Teorie dell’interpretazione e giurisprudenza sovranazionale, Napoli 2011; AA.VV., Lo strumento costituzionale dell’ordine pubblico europeo. Nei sessant’anni della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (1950-2010), a cura di L. Mezzetti e A. Morrone, Torino 2011; A. Randazzo, Alla ricerca della tutela più intensa dei diritti fondamentali, attraverso il “dialogo” tra le Corti, in AA.VV., Corte costituzionale e sistema istituzionale, a cura di F. Dal Canto-E. Rossi, Torino 2011, 313 ss.; L. Cappuccio, Differenti orientamenti giurisprudenziali tra Corte EDU e Corte costituzionale nella tutela dei diritti, in AA.VV., La “manutenzione” della giustizia costituzionale. Il giudizio sulle leggi in Italia, Spagna e Francia, a cura di C. Decaro-N. Lupo-G. Rivosecchi, Torino 2012, 65 ss.; G. Martinico-O. Pollicino, The Interaction between Europe’s Legal Systems. Judicial Dialogue and the Creation of Supranational Laws, Cheltenham (Gran Bretagna) - Northampton (Stati Uniti d’America) 2012; V. Manes, I principi penalistici nel network multilivello: trapianto, palingenesi, cross-fertilization, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2012, 839 ss., spec. 866 ss.; AA.VV., Diritti, principi e garanzie sotto la lente dei giudici di Strasburgo, a cura di L. Cassetti, Napoli 2012; D. Tega, I diritti in crisi, cit.; A. Cardone, La tutela multilivello dei diritti fondamentali, Milano 2012; A. Guazzarotti, I diritti sociali nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1/2013, 9 ss.; P. Caretti, I diritti e le garanzie, relaz. al Convegno dell’AIC su Costituzionalismo e globalizzazione, Salerno 23-24 novembre 2012, in www.rivistaaic.it e, pure ivi, 2/2013, V. Baldini, Tutela interna e tutela internazionale dei diritti umani tra sovranità democratica e Jurisdiktionstaat (i limiti della Völkerrechtsfreundlichkeit nell’ordinamento costituzionale italiano); N. Parisi, Tecniche di costruzione di uno spazio penale europeo. In tema di riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie e di armonizzazione delle garanzie procedurali, in Studi sull’integrazione europea, 1/2012, 33 ss., spec. 53 ss.].

[26] Altrimenti lo stesso art. 117, I c., non avrebbe potuto essere considerato passibile di bilanciamento con norme costituzionali sostantive e, se del caso, qualificato come recessivo in una data esperienza processuale, così come invece risolutamente affermato da Corte cost. n. 317 del 2009. In realtà, come si è tentato di mostrare altrove, nessuna violazione in tesi può aversi del disposto costituzionale ora richiamato per il caso che si dia la preminenza ad una norma di legge incompatibile con la Convenzione che tuttavia faccia rispetto a questa progredire la tutela dei diritti, dal momento che è proprio la Convenzione stessa a dichiarare di non voler valere ogni qual volta in ambito interno sia offerta una più “intensa” salvaguardia ai diritti. La qual cosa tuttavia non esclude che la valutazione circa la fonte idonea ad apprestare la miglior tutela possa divergere, rispettivamente, in ambito nazionale ed in ambito sovranazionale, dal momento che in quest’ultimo l’applicazione di legge contraria a Convenzione potrebbe essere poi sanzionata, giudicandosi essere maggiormente avanzata la tutela apprestata ai diritti dalla Convenzione stessa. I punti di vista, insomma, possono, come sappiamo, essere non coincidenti. Si tratta poi di vedere quale “seguito” potrebbe avere in ambito interno una pronunzia della Corte EDU che sostanzialmente si discosti, per contenuti ed orientamento, da precedente pronunzia di Corte nazionale: una sorta di ping pong – come si vede – che potrebbe non avere mai fine, ciascuno dei giocatori in campo ribattendo colpo su colpo e rimandando dunque, senza mai sbagliare (o ritenendo di non sbagliare…), la palla nel campo avverso.

[27] … a giudizio della Consulta spendibile, come si è rammentato, a beneficio del solo diritto dell’Unione, non pure del diritto convenzionale.

[28] … quale, per espresso riconoscimento della giurisprudenza costituzionale, l’art. 10, I c., con specifico riguardo a norme convenzionali “razionalizzatrici” di norme generalmente riconosciute della Comunità internazionale; nel qual caso, le une norme verrebbero naturalmente ad innalzarsi dalla loro condizione “subcostituzionale” per assumere rango “paracostituzionale” (o costituzionale tout court). La qual cosa è poi la più lampante riprova del fatto, sul quale non mi stancherò di richiamare l’attenzione, per cui la forza non è già delle fonti ut sic bensì delle loro norme, variando in ragione del rapporto che esse intrattengono coi fini-valori fondamentali dell’ordinamento, vale a dire della “qualità” assiologica – mi piace qui nuovamente dire, rifacendomi al mio primo studio monografico in tema di fonti – di cui le norme stesse sono dotate, indipendentemente appunto dalla forma di cui si rivestono o dal grado assegnato agli atti che le contengono. Di modo che il sistema, nelle mobili combinazioni degli elementi di cui si compone, appare essere appunto sistema di norme, non già di fonti (su ciò, ancora di recente, il mio Sistema di fonti o sistema di norme? Le altalenanti risposte della giurisprudenza costituzionale, in www.diritticomparati.it, 22 novembre 2012, e www.giurcost.org, 22 novembre 2012).

[29] Non entrando, poi, le norme tra di loro in conflitto, la individuazione di quella di esse che appaia buona per il caso può, a mia opinione, considerarsi esser di spettanza del giudice comune, il giudice costituzionale dovendo, per sua stessa ammissione, essere chiamato in campo unicamente laddove si assuma esservi conflitto (ragguagli sul punto, nel mio Costituzione e CEDU, alla sofferta ricerca dei modi con cui comporsi in “sistema”, in www.europeanrights.eu, 20 aprile 2012 e in www.giurcost.org, 21 aprile 2012, spec. al § 4).

[30] Non del tutto in asse con questa indicazione teorica appare tuttavia essere la recente pronunzia della Corte di giustizia sul caso Melloni (Grande Sezione, 25 febbraio 2013, spec. ai punti 57 ss.) che, in nome del principio del primato del diritto dell’Unione (e, perciò, della sua uniforme applicazione), si è dichiarata contraria alla mancata attuazione del diritto stesso pur laddove ciò parrebbe giustificarsi con la maggiore salvaguardia dei diritti riconosciuti dalla Carta. Resta nondimeno in facoltà degli organi statali preposti all’attuazione del diritto dell’Unione – precisa la decisione de qua (60) – “applicare gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali, a patto che tale applicazione non comprometta il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione”. Si tratta, nondimeno, di chiedersi se (e fino a che punto) siffatta presa di posizione si concilii con la previsione di cui all’art. 4 del trattato di Lisbona, che vuole scrupolosamente osservati i principi di struttura degli Stati membri dell’Unione, con specifico riguardo alla salvaguardia (la più “intensa” possibile, appunto) dei diritti inviolabili dell’uomo, nel suo fare “sistema” col principio di eguaglianza e coi principi restanti [ulteriori precisazioni sul punto nel mio La Corte di giustizia, il primato incondizionato del diritto dell’Unione e il suo mancato bilanciamento col valore della salvaguardia dei principi di struttura degli ordinamenti nazionali nel loro fare “sistema” (nota minima a Corte giust., Grande Sez., 26 febbraio 2013, in causa C-399/11, Melloni c. Ministerio Fiscal), in www.diritticomparati.it, 2 aprile 2013; pure ivi, A. Di Martino, Mandato d’arresto europeo e primo rinvio pregiudiziale del TCE: la via solitaria della Corte di giustizia; J. Morijn, Akeberg and Melloni: what the ECJ said, did and may have left open, tratto da eutopialaw.com, 14 marzo 2013, e R. Conti, Da giudice (nazionale) a giudice (eurounitario). A cuore aperto dopo il caso Melloni, 5 aprile 2013]. Non ci si meravigli, dunque, se alcune reazioni, anche particolarmente vistose, quale quella delle Corti polacca e ceca (e, su di esse, l’accurato studio di O. Pollicino, Qualcosa è cambiato? La recente giurisprudenza delle Corti costituzionali dell’est vis-à-vis il processo di integrazione europea, in Dir. Un. Eur., 4/2012, 765 ss.), registratesi avverso talune prese di posizione della Corte dell’Unione, dovessero prima o poi contagiare anche le più caute Corti dell’Ovest.

[31] Molto chiara in tal senso è soprattutto Corte cost. n. 264 del 2012 [e, su di essa, se si vuole, la mia nota La Consulta rimette abilmente a punto la strategia dei suoi rapporti con la Corte EDU e, indossando la maschera della consonanza, cela il volto di un sostanziale, perdurante dissenso nei riguardi della giurisprudenza convenzionale (“a prima lettura” di Corte cost. n. 264 del 2012), in www.diritticomparati.it, 14 dicembre 2012, e www.giurcost.org, 17 dicembre 2012, nonché, ora, M. Massa, La sentenza n. 264 del 2012 della Corte costituzionale: dissonanze tra le corti sul tema della retroattività, in Quad. cost., 1/2013, 137 ss.].

[32] Ovviamente, può anche darsi il caso che, persino nel raffronto tra norma costituzionale e norma legislativa, si riscontri che sia proprio la seconda ad essere ancora più avanzata della prima al piano della tutela. La Corte costituzionale, per ragioni che pure è agevole comprendere, è invero restìa ad ammettere che una legge comune possa rendere un servizio ancora più adeguato di quello della stessa Costituzione ai diritti. Ogni evenienza è, nondimeno, possibile; semmai, ci si può chiedere (ma in sede diversa da questa) se il riconoscimento di nuovi diritti ovvero l’allestimento di garanzie ulteriori e più efficaci di quelle apprestate dalla Carta per come oggi vigente richieda l’obbligatorio ricorso alla legge costituzionale ovvero se possa aversi omisso medio con atto comune di normazione: è l’annosa questione della disciplina a prima battuta della c.d. “materia costituzionale”, la cui nozione è ad oggi oggetto di non finite discussioni (pochi dubbi nondimeno dovrebbero, a mia opinione, aversi a riguardo del fatto che la disciplina dei diritti fondamentali, specificamente per ciò che concerne il loro riconoscimento, attenga alla materia stessa, della quale anzi costituisce il cuore pulsante, secondo la magistrale, attualissima indicazione contenuta nell’art. 16 della Dichiarazione del 1789).

[33] Analogamente, il giudice sovranazionale muove dall’ordinamento (o dal sistema) di appartenenza per quindi volgersi agli ordinamenti nazionali (specie al fine della ricognizione delle loro “tradizioni costituzionali comuni”) e finalmente tornare all’ordinamento (o sistema) stesso, laddove il materiale attinto ab extra viene fatto oggetto di originale rielaborazione e combinazione coi materiali di tipica fattura sovranazionale.

[34] Un buon riscontro di questa indicazione metodica si è di recente avuto con la sent. n. 7 del 2013, annotata da V. Manes, La Corte costituzionale ribadisce l’irragionevolezza dell’art. 569 c.p. ed aggiorna la “dottrina” del “parametro interposto” (art. 117, comma primo, Cost.), in www.penalecontemporaneo.it.

[35] Una eventualità, questa, tuttavia per vero assai rara (perlomeno, così dovrebbe essere secondo modello), a motivo del linguaggio a maglie larghe (o larghissime) di cui sono fatte le Carte, che le rende estremamente malleabili e disponibili alla loro reciproca, incessante alimentazione e rigenerazione.

[36] Non importa poi se la Costituzione stessa si dichiara esser, pressoché in ogni sua parte o norma (eccezion fatta dei soli principi), “cedevole” all’impatto con talune norme di origine esterna (norme internazionali consuetudinarie, concordatarie, “eurounitarie”), riducendosi il parametro che ha da essere rispettato da tali norme unicamente al “nucleo duro” della legge fondamentale della Repubblica, ovvero se il parametro stesso si espande e distende per l’intera Carta all’incontro con altre norme ancora (e, segnatamente, con quelle internazionali pattizie). Ciò che solo conta – come si faceva poc’anzi  notare – è che nella Costituzione, e solo in essa, è, dal nostro punto di vista, il fondamento delle relazioni intersistemiche e, dunque, in buona sostanza, il “luogo” in cui si fa e senza sosta rinnova il “sistema dei sistemi”.

[37] Riprendo qui, in tema di rapporti tra certezza del diritto in senso oggettivo e certezza dei diritti soggettivi, una riflessione che ho svolto a commento di Corte cost. n. 113, cit.: v., dunque, il mio Il giudicato all’impatto con la CEDU, dopo la svolta di Corte cost. n. 113 del 2011 … ovverosia quando la certezza del diritto è obbligata a cedere il passo alla certezza dei diritti, in www.rivistaaic.it, 2/2011, e in Legisl. pen., 2/2011, 481 ss. La decisione ha – come si sa – animato un fitto dibattito, i cui termini essenziali possono ora vedersi nell’ampia e documentata trattazione di V. Sciarabba, Il giudicato e la CEDU. Profili di diritto costituzionale, internazionale e comparato, Padova 2012.

[38] Ad es., in Corte cost. n. 236 del 2011 e 264 del 2012, cit.

[39] Su di che, di recente, M. Fyrnys, Expanding Competences by Judicial Lawmaking: The Pilot Judgment Procedure of the European Court of Human Rights, in German Law Journal, 2011, 1231 ss.; B. Randazzo, Giustizia costituzionale sovranazionale, cit., 123 ss.; D. Tega, I diritti in crisi, cit., 105 ss.; F. Gallo, Rapporti fra Corte costituzionale e Corte EDU. Bruxelles 24 maggio 2012, in www.rivistaaic.it, 1/2013, spec. § 3.

[40] Su ciò, per tutti, R. Conti, Convergenze (inconsapevoli o… naturali) e contaminazioni tra giudici nazionali e Corte EDU: a proposito del matrimonio di coppie omosessuali, in Corr. giur., 4/2011, 579 ss. e, dello stesso, Il diritto alla vita nella giurisprudenza delle Alte Corti, in www.europeanrights.eu. Infine, G. Raimondi, La controversa nozione di Consensus e le recenti tendenze della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in riferimento agli articoli 8-11 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, relaz. all’incontro su La Corte europea dei diritti dell’uomo: il meccanismo di decisione della CEDU e i criteri d’interpretazione conforme, cit.

[41] Mi rifaccio qui ad una nota indicazione di O. Pollicino, che ne ha ripetutamente discorso (ad es., in Corti europee e allargamento dell’Europa: evoluzioni giurisprudenziali e riflessi ordinamentali, in Dir. Un. Eur., 2009, 1 ss., e spec. in La Corte europea dei diritti dell’uomo dopo l’allargamento del Consiglio D’Europa ad Est: forse più di qualcosa è cambiato, in AA.VV., Le scommesse dell’Europa. Diritti, Istituzioni, Politiche, a cura di G. Bronzini-F. Guarriello-V. Piccone,  Roma 2009, 101 ss., e quindi, diffusamente, in Allargamento ad est dello spazio giuridico europeo e rapporto tra Corti costituzionali e Corti europee, cit.).

[42] Lo stesso Presidente della Corte Quaranta ha tenuto a rammentare nel corso della sua conferenza di fine anno relativa al 2011 che alla Corte spetta di “valutare come ed in qual misura il prodotto dell’interpretazione della Corte europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano”.

[43] Ha invitato a fermare l’attenzione sul punto, part., E. Lamarque, Gli effetti delle sentenze della Corte di Strasburgo secondo la Corte costituzionale italiana, in Corr. giur., 7/2010, 955 ss., spec. 961.

[44] V., spec., la già più volte cit. sent. n. 264 del 2012.

[45] … posto che è ormai provato che costano tutti [arg. ex art. 117, II c., lett. m)].

[46] Il dato è di comune acquisizione: di recente e per tutti, I. Ciolli, I diritti sociali, in AA.VV., Il diritto costituzionale alla prova della crisi economica, a cura di F. Angelini e M. Benvenuti, Napoli 2012, 83 ss., e lett. ivi.

[47] Il punto è diffusamente toccato nelle analisi più recenti: indicazioni di vario segno, tra gli altri, in F. Giuffrè, Unità della Repubblica e distribuzione delle competenze nell’evoluzione del regionalismo italiano, Torino 2012, nonché negli studi di S. Mangiameli ora riuniti in Le Regioni italiane tra crisi globale e neocentralismo, Milano 2013, e in F. Covino, Le autonomie territoriali, in AA.VV., Il diritto costituzionale alla prova della crisi economica, cit., 333 ss.; nell’op. coll appena cit., per una riflessione di sintesi a riguardo del modo con cui la giurisprudenza costituzionale si è posta (e si pone) davanti alla crisi, v. M. Benvenuti, La Corte costituzionale, 375 ss.

[48] Maggiori ragguagli sul punto possono, volendo, aversi dal mio Unità-indivisibilità dell’ordinamento, autonomia regionale, tutela dei diritti fondamentali, in www.giurcost.org, 26 aprile 2011, nonché in Nuove aut., 1/2011, 25 ss.

[49] … a riguardo della quale si segnala la pronunzia dell’11 febbraio di quest’anno con cui è stata respinta la richiesta di deferimento alla Grande Camera avverso la sentenza della Seconda Sezione del 28 agosto 2012 (Costa e Pavan c. Italia, n. 54270/10), che è pertanto divenuta definitiva, sentenza che ha dato modo alle coppie fertili portatrici di patologie trasmissibili ai figli di accedere alle tecniche di fecondazione medicalmente assistita, in spregio del divieto al riguardo posto dalla legge 40 del 2004 (per un primo commento, A. Vallini, Diagnosi preimpianto: respinta la richiesta di rinvio alla Gran Camera  CEDU avanzata dal Governo italiano nel caso Costa e Pavan contro Italia, in www.penalecontemporaneo.it, 18 febbraio 2013; sulla pronunzia della Seconda Sezione, tra i molti commenti, F. Vari, Considerazioni critiche a proposito della sentenza Costa et Pavan della II Sezione della Corte EDU, in www.rivistaaic.it, 1/2013; pure ivi, infine, C. Nardocci, La Corte di Strasburgo riporta a coerenza l’ordinamento italiano, fra procreazione artificiale e interruzione volontaria di gravidanza. Riflessioni a margine di Costa e Pavan c. Italia).

[50] Su di che, ora, la pronunzia della IV Sez. della Corte EDU (Eweida ed altri c. Regno Unito) del 15 gennaio 2013 (ricorsi nn. 48420/10, 59842/10, 51671/10 e 36516/10), relativamente all’uso dei simboli in parola nei luoghi di lavoro (e su di essa la nota di E. Sorda, Eweida and others v. The United Kingdom, ovvero quando fede e lavoro non vanno d’accordo e il “margine di apprezzamento” non aiuta a chiarire le cose, in www.diritticomparati.it, 4 marzo 2012).

[51] Una particolarmente espressiva conferma di quanto si viene dicendo nel testo ci è stata di recente offerta dalla pronunzia della Grande Camera del 19 febbraio scorso (X ed altri c. Austria, n. 19010/07, e su di essa l’accurato commento di R. Conti, Pensieri sparsi, a prima lettura, su una sentenza della Corte dei diritti umani in tema di adozione di coppie dello stesso sesso e sull’efficacia delle sentenze di Strasburgo–GC, 19 febbraio 2013, X e altri c. Austria, in corso di stampa in Quest. giust., nonché la nota di A.M. Lecis Cocco-Ortu, La Corte europea pone un altro mattone nella costruzione dello statuto delle unioni omosessuali: le coppie di persone dello stesso sesso non possono essere ritenute inidonee a crescere un figlio, in www.forumcostituzionale.it, 15 marzo 2013) con la quale, per un verso, è stato riconosciuta la contrarietà a Convenzione del divieto di adozione fatto a persona omosessuale nei riguardi dei figli del partner, mentre, per un altro verso, è stato confermato il principio, già enunciato in Gas e Dubois c. Francia, secondo cui non è imposto alle legislazioni nazionali di prevedere espressamente la facoltà di adozione per le coppie non coniugate.

[52] Maggiore, come si sa, quello degli Stati aderenti alla Convenzione rispetto a quello degli Stati membri dell’Unione. Sulle implicazioni che possono aversene, anche – per ciò che qui più da presso importa – in ordine agli sviluppi giurisprudenziali, mi parrebbe opportuno un supplemento di riflessione.

[53] Maggiori ragguagli su ciò nel mio Il futuro dei diritti fondamentali, cit., spec. al § 6.

[54] … tanto al piano delle relazioni delle Corti europee inter se, quanto a quello dei rapporti con le Corti nazionali.

[55] Di qui il cruciale rilievo della comparazione in ordine alla incessante messa a punto delle relazioni intersistemiche (su ciò, tra gli altri, G. de Vergottini, Oltre il dialogo tra le Corti. Giudici, diritto straniero, comparazione, Bologna 2010; AA.VV., The National Judicial Treatment of the ECHR and EU Laws, cit.; AA.VV., Human Rights Protection in the European Legal Order: the Interaction between the European and the National Courts, a cura di P. Popelier-C. Van De Heyning-P. Van Nuffel, Cambridge 2011; G. Repetto, Argomenti comparativi e diritti fondamentali in Europa, cit.; A.M. Lecis Cocco Ortu, La comparaison en tant que méthode de détermination du standard de protection des droits dans le système CEDH, in www.rivistaaic.it, 4/2011; P. Gori, La rilevanza del diritto comparato nelle decisioni della CEDU, relaz. all’incontro di studio su La Corte europea dei diritti dell’uomo: il meccanismo di decisione della CEDU e i criteri d’interpretazione conforme, cit. Altri riferimenti in S. Ninatti, Ai confini dell’identità costituzionale. Dinamiche familiari e integrazione europea, Torino 2012).

[56] Su ciò, con varietà di toni e di orientamento, tra gli altri, R. Conti, che vi ha insistito a più riprese (e, part., ne La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit.); E. Lamarque, Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana, Roma-Bari 2012 e, ora, con specifico riguardo alla materia penale, V. Manes, Il giudice nel labirinto. Profili delle intersezioni tra diritto penale, Roma 2012.

[57] Anche per quest’aspetto, si coglie la diversa natura riconosciuta in ambito interno alle pronunzie delle due Corti europee: quelle del giudice dell’Unione ponendosi quali vere e proprie fonti del diritto (come s’è veduto, di rango “paracostituzionale”), natura di cui sono invece prive quelle della Corte di Strasburgo; eppure, non si dimentichi che anche di queste ultime s’è di recente discorso come di un “novumquodammodo assimilabile a quello che è proprio degli atti di normazione stricto sensu (sent. n. 150 del 2012, e, su di essa, tra i molti commenti, G. Repetto, Corte costituzionale, fecondazione eterologa e precedente CEDU “superveniens”: i rischi dell’iperconcretezza della questione di legittimità costituzionale, in Giur. cost., 3/2012, 2069 ss., e R. Romboli, Lo strumento della restituzione degli atti e l’ordinanza 150/2012: il mutamento di giurisprudenza della Corte Edu come ius superveniens e la sua incidenza per la riproposizione delle questioni di costituzionalità sul divieto di inseminazione eterologa, in www.giurcost.org, 26 febbraio 2013, e lett. ivi).

[58] Tra gli altri, G.F. Ferrari, Rapporti tra giudici costituzionali d’Europa e Corti europee: dialogo o duplice monologo?, in AA.VV., Corti nazionali e Corti europee, a cura dello stesso F., Napoli 2006, VII ss.; G. de Vergottini, Oltre il dialogo tra le Corti, cit.; S. Troilo, (Non) di solo dialogo tra i giudici vivranno i diritti? Considerazioni (controcorrente?) sui rapporti tra le Corti costituzionali e le Corti europee nel presente sistema di tutela multilivello dei diritti fondamentali, in www.forumcostituzionale.it.; D. Tega, I diritti in crisi, cit.

[59] Si pensi, ad es., ai paletti eretti dalla giurisprudenza di Karlsruhe all’avanzata del processo d’integrazione europea, ben diversi dai “controlimiti” astrattamente enunciati ma – come s’è veduto – mai fatti valere da parte del nostro giudice delle leggi.

[60] Armi che, tuttavia, giudico arcaiche, per non dire che sono dei veri e propri ferri arrugginiti, a fronte di una interdipendenza economica (e non solo…) che va persino oltre le pur larghe barriere dell’Europa in costruzione. La qual cosa dovrebbe obbligare ad estendere l’analisi al senso stesso di categorie quali sovranità, Stato e, in ultima istanza, Costituzione; ciò che, tuttavia, non è evidentemente qui possibile (nella ormai nutrita lett. sul punto richiamo qui solo A. Morrone, Teologia economica v. Teologia politica? Appunti su sovranità dello Stato e “diritto costituzionale globale”, in Quad. cost., 4/2012, 829 ss., e riferimenti ivi). Mi limito solo a far notare di sfuggita che il modello, già altrove patrocinato, di un ordine costituzionale “intercostituzionale” – come mi è parso giusto chiamarlo –, qui pure ripreso, con specifico riguardo alle vicende del circolo interpretativo anche nelle sue proiezioni intersistemiche, può caricare di nuovi significati l’idea di Costituzione, rigenerarla, darvi modo di affermarsi proprio grazie al suo aprirsi alle Carte dei diritti, attingendo da esse quanto di più e di meglio sono in grado di offrire al servizio dei bisogni elementari dell’uomo.

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La Corte di giustizia, il primato incondizionato del diritto dell’Unione e il suo mancato bilanciamento col valore della salvaguardia dei principi di struttura degli ordinamenti nazionali nel loro fare “sistema”

(nota minima a Corte giust., Grande Sez., 26 febbraio 2013, in causa C-399/11, Melloni c. Ministerio Fiscal)*

* Ho discusso alcuni passaggi di questa nota con R. Conti ed O. Pollicino, ai quali sono molto grato per l’opportunità offertami di un confronto che mi ha – come sempre – arricchito molto, consentendomi di mettere meglio a fuoco alcuni concetti bisognosi di precisazione; come di consueto, ovviamente, la responsabilità per ciò che è
scritto è solo mia.

 

  1. Pars destruens

 

Particolarmente attesa e subito fatta oggetto di varie e discordanti valutazioni, la Melloni si segnala sotto più aspetti, tutti meritevoli di una speciale attenzione. Non mi addentro ora in una minuta analisi del merito della vicenda, peraltro a tutti nota, per quanto – come si vedrà – proprio qui stia il cuore della questione specificamente riguardata da questo succinto commento. È ad ogni buon conto pressoché certo che è in ragione della “copertura” offerta dal giudice eurounitario alla disciplina che fa salva, sia pure a certe condizioni, i processi in absentia che è stata quindi data risposta al terzo dei quesiti posti in via pregiudiziale dal tribunale costituzionale spagnolo[1], al quale soltanto intendono dedicarsi le notazioni che seguono: una risposta – come si vedrà – monca, che da se medesima si dispone a letture suscettibili di gravi implicazioni ed eventuali, futuri ed inopportuni svolgimenti, nell’insieme inappagante insomma. La qual cosa, invero, ugualmente consiglia – come pure si tenterà di mostrare – una certa prudenza prima di condannare senza appello la decisione stessa, che potrebbe trovarsi anche a breve soggetta – la speranza è questa – a non secondarie precisazioni ed alla sua complessiva messa a punto.

La motivazione, in relazione al profilo al quale qui specificamente si guarda, è assai contenuta e francamente insufficiente, in buona sostanza allineata alle Conclusioni dell’avv. gen. Y. Bot[2]. Perentoria, senza alcuna possibile riserva o condizione, è l’affermazione secondo cui il principio del primato del diritto dell’Unione deve comunque essere preservato, costi quel che costi, quand’anche dunque all’applicazione del diritto stesso possa ostare una contraria disposizione di rango costituzionale (punto 59). La Corte è consapevole – proprio qui è infatti il punctum crucis della questione sollevata dal tribunale remittente – che l’art. 53 della Carta di Nizza-Strasburgo, preso alla lettera, parrebbe configurare come meramente “sussidiario” il ruolo della Carta stessa a salvaguardia dei diritti in rapporto ad una tutela apprestata in ambito interno e giudicata[3] meno “intensa” di quella offerta dall’Unione. La Corte ci dà oggi, tuttavia, una lettura “integrativa” (o, forse meglio, “correttiva”) del disposto in parola, precisando che gli standard di tutela riscontrabili in ambito nazionale non possono, in alcun caso, compromettere “il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione” (punto 60)[4].

Viene, in tal modo, inevitabilmente ad instaurarsi un rapporto di strumentalità necessaria – se si vuole: di gerarchia, culturale e positiva – tra Costituzione nazionale (e, in genere, disciplina normativa interna) e Carta dell’Unione, la prima potendo entrare in campo e farsi valere unicamente quale strumento di attuazione della seconda, non già in via alternativa rispetto a questa. Un’attuazione – si riconosce – che può anche portare all’innalzamento del livello di tutela fissato in ambito sovranazionale[5], ma che – come si vede – deve pur sempre svolgersi lungo un binario (e il verso) tracciato dalla Carta dell’Unione. Le eventuali “addizioni” nella tutela – per riprendere ed adattare al caso nostro una nota immagine forgiata per esperienze processuali nondimeno assai diverse – devono dunque pur sempre risultare, secondo la fortunata immagine crisafulliana, “a rime obbligate” (o, meglio, baciate), senza che possa comunque aversene alcun pregiudizio per l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione.

La Corte stranamente non s’interroga circa l’opportunità (rectius, la necessità) di bilanciare – perlomeno al ricorrere di talune circostanze e pur sempre entro certi limiti di sistema – il principio del primato con altri principi parimenti fondamentali dell’Unione, e segnatamente con quello della osservanza da parte dell’Unione stessa dei principi di struttura degli ordinamenti degli Stati membri (art. 4 del trattato di Lisbona); e si rammenti: di ciascuno degli Stati, non soltanto delle “tradizioni costituzionali” ad essi “comuni”[6]. La qual cosa, poi, invero inquieta non poco, alimentando l’impressione che il bisogno indisponibile di assicurare l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione, al fine di essere come si conviene appagato, non possa arrestarsi davanti ad alcun ostacolo, foss’anche dato dai principi fondamentali di diritto interno (dai c.d. “controlimiti”, come ormai è d’uso chiamarli).

Non viene così presa in considerazione, come invece a mia opinione si sarebbe dovuto, una delle più rilevanti (forse, proprio la più rilevante) delle risorse apprestate dal trattato di Lisbona nell’intento di preservare il difficile, pur sempre precario, equilibrio tra uniformità e differenziazione, su cui invero si fondano e svolgono le relazioni tra Unione e Stati, edificandosi ed incessantemente rinnovandosi, in forme originali, quell’ordine “intercostituzionale” che è proprio dell’Unione, quale istituzione autenticamente ex pluribus una.

L’“europeizzazione” dei “controlimiti” – come la si è altrove chiamata –, frutto dell’accorta e lungimirante intuizione dell’autore del trattato, vede così spenta sul nascere ogni possibilità di esser fatta valere, quanto meno – come si diceva e si preciserà ancora meglio più avanti – di essere fatta oggetto della dovuta attenzione; ed i “controlimiti” stessi restano affidati, in ordine alla loro concreta salvaguardia, esclusivamente alla buona volontà degli operatori di diritto interno ed agli strumenti in quest’ultimo allo scopo disponibili; e si badi: non dei soli giudici costituzionali, come invece comunemente si pensa, ma ancora prima dei giudici comuni, dal momento che se a tutt’oggi essi sono, perlomeno da noi e diversamente da altri ordinamenti come quello ceco[7], rimasti lettera morta, lo si deve proprio ad un tacito patto in tal senso siglato dagli uni e dagli altri giudici, una convenzione o forse pure una consuetudine costituzionale fin qui sistematicamente osservata[8].

La Corte dell’Unione vede le cose dal proprio punto di vista: è naturale che sia così; eppure, ciò non toglie che esso possa rivelarsi parziale e, per ciò stesso, deformante, non tendendo conto dei principi fondamentali dell’Unione nel loro fare “sistema”. Parimenti legittimo, però, è che i giudici nazionali vedano le cose dal loro punto di vista, che può dunque differenziarsi, in maggiore o minore misura, da quello adottato in ambito sovranazionale.

Nessuno dubita che possano esservi scostamenti sensibili, nel modo con cui si risolvono, a questo o quel livello istituzionale e piano di esperienza, le questioni di diritto costituzionale (in senso materiale), e segnatamente le questioni relativi ai diritti costituzionali. Dove però non dovrebbero esservi divergenze, tali da innaturalmente convertire il “dialogo” in un doppio o plurimo monologo tra parlanti lingue diverse[9], è nel metodo. Vedere le cose dal proprio punto di vista non equivale (o non dovrebbe equivalere) a rinunziare in partenza all’idea di poter realizzare una convergenza, se non proprio la piena integrazione, l’immedesimazione, tra gli ordinamenti. Una rinunzia che purtroppo si concreta ogni qual volta si trascura – indebitamente, già alla luce delle indicazioni dell’ordinamento di appartenenza – di prendere in  considerazione le ragioni dell’altro.

In ciascun ordinamento si riscontra l’apertura all’altro, innalzata a vero e proprio principio di struttura delle relazioni interordinamentali. L’Unione dichiara di voler tener conto della CEDU, delle tradizioni comuni, dei principi – come si diceva – dei singoli Stati membri; la CEDU, a sua volta, si apre all’Unione ed agli ordinamenti nazionali, essa pure configurando – come si sa – il proprio ruolo al servizio dei diritti quale “sussidiario” e, per ciò, come recessivo a fronte di una ancòra più avanzata tutela altrove apprestata; le Costituzioni nazionali (segnatamente la nostra), secondo la lettura invalsa in giurisprudenza, dichiarano esse pure di voler essere orientate verso l’alto in vista del loro ottimale, alle condizioni oggettive di contesto, inveramento nell’esperienza.

Insomma, se non si tiene conto del punto di vista altrui, non si tiene nel dovuto conto neppure il proprio, per la elementare ragione che a quello fa rimando questo, per il tramite dei principi di struttura dell’ordinamento di appartenenza. È così, e solo così, che può prendere corpo quel “sistema di sistemi”, frutto di paritaria convergenza di più ordini (ciascuno al proprio interno composito, piace a me dire: tendenzialmente “intercostituzionale”), che è l’orizzonte verso il quale decisamente tendere se si ha cuore la causa dei diritti. Perché è solo con lo sforzo congiunto di tutti, prodotto simultaneamente a più livelli istituzionali, che questo ambizioso, ancorché sempre più problematico (specie nella presente congiuntura segnata da una crisi economica senza precedenti), obiettivo può, sia pure in parte, essere raggiunto. Chiudersi in un insano patriottismo o, peggio, nazionalismo costituzionale, assumendo essere l’ordine di appartenenza l’unico vero sovrano, ogni altro dovendovi prestare incondizionato ossequio, equivale non soltanto a far torto alle ragioni dell’altro ma allo stesso tempo – qui è il punto – negare le proprie, col fatto stesso di mettere da parte proprio quel principio fondante dell’apertura che informa di sé ciascun ordinamento, segnandone ed illuminandone le più salienti esperienze riguardanti i diritti.

 

 

  1. Pars construens

 

In che modo avrebbe dunque dovuto procedere il giudice dell’Unione, volendosi attenere all’indicazione metodica appena enunciata? E ancora: si sarebbe trovato obbligato a rovesciare il verdetto, segnatamente al terzo quesito postogli, ovvero avrebbe potuto ugualmente tenerlo fermo, sia pure attraverso un percorso argomentativo diversamente orientato al piano teorico-ricostruttivo?

Parto dalla coda, dicendo subito che non necessariamente l’esito avrebbe dovuto essere diverso, purché però si fosse prestato rispetto ad una duplice condizione.

La prima.

Il primato del diritto eurounitario e il rispetto delle fondamenta costituzionali di ciascuno Stato membro, di cui al cit. art. 4, sono – è fuor di dubbio – entrambi principi che informano di sé l’ordinamento dell’Unione: per il tramite del primo, quest’ultima manifesta ed esprime nel massimo grado la propria vocazione istituzionale, quale ordinamento appunto che in progress tende verso una crescente integrazione interna e stabilizzazione; per il tramite del secondo, si rende palese la vocazione “pluralista” dell’istituzione stessa, che vuole edificarsi e crescere nello scrupoloso rispetto dell’identità costituzionale di ciascuno degli ordinamenti nazionali da cui risulta composta.

Questa doppia vocazione o, diciamo pure, doppia faccia non è propria della sola Unione ma anche dello Stato, di ciascuno degli Stati che, in piena autodeterminazione, ha deciso di appartenere all’Unione. Perché ogni Stato sa di essere gravato da obblighi, in forza dell’appartenenza stessa, ma anche di non volere e potere abdicare a ciò che ne dà l’essenza, l’identità costituzionale appunto.

Il bilanciamento tra queste due anime di ciascun ordine positivo si pone, dunque, quale il prodotto di uno sforzo costante, un esito naturale e caratterizzante le relazioni interordinamentali[10]. Nella specie, si tratta di un bilanciamento tra due norme sulla normazione, una delle quali peraltro rimanda a norme sostantive dei singoli ordinamenti nazionali[11]. A conti fatti, tuttavia, il bilanciamento investe pur sempre norme di tale ultima specie, dovendosi stabilire dove si appunti la più intensa tutela ai diritti e – come si dirà a momenti – in genere ai beni costituzionali nel loro fare “sistema”. È perciò che – come mi affanno a dire ormai da anni – un bilanciamento… squilibrato, a senso unico, che veda sempre e comunque l’affermazione di questo o quel principio sarebbe una contraddizione insanabile, svilendo questo o quello degli elementi costitutivi della struttura sia dell’Unione che degli stessi Stati e, per ciò stesso, del fisiologico modo di essere dei loro rapporti. Ed è sempre per ciò che, a mio modo di vedere, ragionare, dal punto di vista dello Stato[12], della prevalenza, sempre e comunque, dei “controlimiti” sul diritto dell’Unione sarebbe palesemente erroneo: né più né meno che dire, con la Corte dell’Unione stessa, che il primato del diritto sovranazionale non incontra alcun impedimento in ambito nazionale alla propria incondizionata affermazione.

Il vero è che v’è una coppia assiologica fondamentale, quella risultante dai principi, dalle mutue ed inscindibili implicazioni[13], di eguaglianza e di salvaguardia dei diritti inviolabili dell’uomo (e, ulteriormente risalendo, a mio modo di vedere, dalla dignità della persona umana[14]), alla cui luce va ambientata e risolta ogni questione che dovesse porsi in caso di eventuali conflitti tra le norme di questo o quell’ordinamento, quand’anche appunto ritenute espressive di principi fondamentali. Norme giudicate idonee ad apprestare un’ancòra più adeguato servizio ai valori fondamentali suddetti rispetto a quello che può esser loro offerto da altre norme possono (e devono), perciò, trovare applicazione[15]. La qual cosa – come si vede – porta in conclusione a dire che i “controlimiti” potrebbero alle volte, ma non appunto sempre, aver modo di esser fatti valere, mentre altre volte restare silenti. Ciò che importa è che di un siffatto riscontro non può (non potrebbe…) farsi comunque a meno, salvo a dar spazio a soluzioni apoditticamente affermate (per mero accidente, magari non sbagliate e però prive di solido fondamento ed adeguata argomentazione).

La seconda condizione, dalla prima linearmente discendente, è che, tutti i principi fondamentali trovandosi naturalmente soggetti a reciproco bilanciamento (anche in prospettiva interordinamentale[16]), se ne ha che il canone della tutela più intensa non può riguardare il solo diritto di volta in volta evocato in campo o posto in primo piano sulla scena bensì, appunto, l’intera tavola dei principi di struttura sia del singolo ordinamento dato che di quest’ultimo nelle sue proiezioni interordinamentali. È insomma l’idea di “sistema” che ha da essere preservata e bisognosa di esser sempre fatta valere nelle sue massime espressioni teorico-positive, in ragione del contesto nel quale nelle singole esperienze di vita viene ambientata e se ne ricerca la realizzazione.

La nostra giurisprudenza costituzionale tutto questo lo va ripetendo, di recente persino in modo martellante e – a dirla tutta –, a mio modo di vedere, anche strumentale[17], allo scopo cioè di “smarcarsi” da un pressing delle Corti europee (e, segnatamente, della Corte EDU) in qualche caso divenuto ormai insopportabile[18].

Il ricorso all’idea di “sistema” può, non di rado, comportare il doveroso bilanciamento della pretesa di un singolo, pur se espressiva di un diritto fondamentale, con un interesse della collettività; ed è interessante notare che alle volte entrambi i beni della vita in campo sono riportabili ad uno stesso principio di struttura, quale quello – per ciò che qui specificamente importa – del giusto processo, risolvendosi pertanto in un bilanciamento interno a quest’ultimo.

Questo è quanto appunto si è avuto nel caso nostro, nel quale la richiesta di una possibile ripetizione del processo svolto in absentia è venuta a scontrarsi con l’interesse sotteso al giudicato e riportabile ad esigenze di funzionalità di un processo nel corso del quale, peraltro, certe garanzie soggettive non erano venute meno. E, invero, la Corte dell’Unione ha argomentato la tesi difensiva della disciplina normativa dell’Unione stessa relativa alla esecuzione del mandato d’arresto, facendo in particolare notare come l’imputato avesse volontariamente ed in modo certo rinunziato a comparire nel processo, non risultandone pertanto leso né il diritto di difesa né l’equità del processo stesso, di cui agli artt. 47 e 48 della Carta di Nizza-Strasburgo[19].

Come avvertivo all’inizio di questa nota, non intendo qui affrontare di petto la questione se siffatta argomentazione può dirsi fino in fondo stringente e persuasiva. Il “salto” che tuttavia, a mia opinione, si riscontra nella decisione in esame sta nel non essersi in essa compiuto il doppio passaggio cui si è appena accennato, vale a dire nel non aver la Corte rilevato, in primo luogo, la necessità di conciliare, reciprocamente bilanciandoli, il principio del primato e il principio di cui all’art. 4 del trattato e, in secondo luogo, nel non aver chiarito che la stessa salvaguardia dei principi di struttura degli ordinamenti nazionali va rettamente e compiutamente intesa per il modo con cui essi fanno “sistema”. E, poiché nella specie, a dire del giudice dell’Unione, la soluzione normativa in materia di arresto era (ed è) “ragionevole”, nella sua densa e duplice accezione di conforme al “fatto”, a tutti gli interessi oggetto di regolazione, e rispondente ai valori fondamentali evocati in campo e riguardati nel loro fare “sistema”, piana è pertanto apparsa la conclusione per cui nessun ostacolo si aveva all’affermazione del diritto dell’Unione.

[1] Un opportuno invito ad “una lettura composita dell’intera trama argomentativa espressa dalla Corte” è in R. Conti, alla voce Mandato d’arresto europeo ed esecuzione di una pena irrogata in absentia, in Corr. giur., 4/2013, 8.

[2] … annotate nel mio Alla ricerca del retto significato dell’art. 53 della Carta dei diritti dell’Unione (noterelle a margine delle Conclusioni dell’avv. gen. Y. Bot su una questione d’interpretazione sollevata dal tribunale costituzionale spagnolo), in www.diritticomparati.it, 5 ottobre 2012, e pure ivi un commento di G. Repetto.

[3] … non si è ben capito da chi ed in che modo. Se, infatti, per un verso, è pacifico che spetti all’Unione (e, per essa, alla sua Corte) far luogo ad una raffronto delle tutele, rispettivamente assicurate in ambito sovranazionale ed in ambito nazionale, per un altro verso neppure può escludersi che esso possa aversi anche in tale ultimo ambito e ad opera di plurimi operatori (non si dimentichi che molte questioni di “comunitarietà” sono omisso medio risolte dai giudici comuni, mentre per altre si rende necessaria la chiamata in campo del giudice delle leggi, senza peraltro scartare l’eventualità del ricorso allo stesso giudice dell’Unione in via pregiudiziale). E, poiché gli esiti del raffronto in parola possono non coincidere, in ragione del diverso punto di vista adottato da questo o quel giudice, è altresì da mettere in conto l’ipotesi del conflitto che, laddove investa le Corti “costituzionali” (in senso materiale, siccome riferito altresì alle Corti europee che – come si è fatto notare da una sensibile dottrina – in modo crescente vanno appunto assumendo siffatta connotazione), si rivela essere assai problematicamente risolvibile, senza la spontanea convergenza o, diciamo pure, l’onorevole accomodamento della questione, in spirito di “leale collaborazione”, da parte degli stessi protagonisti di queste vicende.

[4] Si faccia caso al fatto che, al tempo stesso in cui si enuncia il primato del diritto dell’Unione, si ha quello stesso della Corte, competente a darne l’“autentica” e definitiva interpretazione, rispetto a quello che potrebbe aversene ad opera degli operatori di diritto interno (e, segnatamente, dei tribunali costituzionali). Su ciò, invero, molto potrebbe dirsi (e molto è già stato detto), precisando e correggendo in non secondaria misura il giudizio che la Corte dell’Unione dà di se stessa e dell’ordinamento di appartenenza.

[5] Torna qui ad affacciarsi la vexata quaestio, cui si è appena fatto cenno, relativa al parametro della “intensità” della tutela ed al modo complessivo del suo accertamento.

[6] Un implicito riferimento alle tradizioni in parola può forse vedersi nell’affermazione fatta nella decisione in esame, in merito al “consenso raggiunto dagli Stati membri nel loro insieme a proposito della portata da attribuire, secondo il diritto dell’Unione, ai diritti processuali di cui godono le persone condannate in absentia raggiunte da un mandato d’arresto europeo” (punto 62). È vero che il consenso in parola è frutto di un deliberato politico in tal senso espresso dagli Stati, che tuttavia potrebbe qualificarsi come quodammodo esplicitativo ovvero attuativo di principi costituzionali idonei a darvi fondamento; quanto meno, questo può, con una certa, buona volontà, forse considerarsi l’avviso della Corte.

[7] … su di che, ora, O. Pollicino, Qualcosa è cambiato? La recente giurisprudenza delle Corti costituzionali dell’est vis-à-vis il processo di integrazione europea, in Dir. Un. Eur., 4/2012, 765 ss.

[8] Sul punto, di recente e tra gli altri, M. Bignami, I controlimiti nelle mani dei giudici comuni, in www.forumcostituzionale.it, 16 ottobre 2012, e G. Martinico, Lo spirito polemico del diritto europeo. Studio sulle ambizioni costituzionali dell’Unione, Roma 2011; con specifica attenzione alle prospettive al riguardo aperte dal trattato di Lisbona, v., inoltre, S. Gambino, Identità costituzionali nazionali e primauté eurounitaria, in Quad. cost., 3/2012, 533 ss.

[9] La più accorta dottrina da tempo avverte di questo rischio, tanto sul versante dei rapporti, cui solo ora si guarda, con la Corte dell’Unione, quanto su quello dei rapporti con la Corte EDU.

[10] L’ipotesi del conflitto (e della sua conseguente soluzione mediante la tecnica del bilanciamento) parrebbe essere in radice esclusa a stare all’idea, argomentata già al momento della redazione del principio di cui all’art. 4, originariamente – come si sa – presente nell’art. 5 della Costituzione europea, secondo cui esso afferirebbe al riparto delle competenze tra Unione e Stati, ponendosi pertanto quale un prius logico-giuridico rispetto alle possibili applicazione del principio del primato (su ciò, ora, part. l’ampio saggio di B. Guastaferro, Beyond the Exceptionalism of Constitutional Conflicts: The Ordinary Functions of the Identity Clause, in Yearbook of European Law, 1/2012, 263 ss.). Un esito ricostruttivo, questo, invero suggestivo, al cui accoglimento tuttavia sembra ostare, per un verso, la circostanza per cui, così inteso, il principio in parola risulterebbe sostanzialmente ripetitivo delle norme del trattato specificamente riguardanti il riparto delle competenze tra Unione e Stati, nel mentre, per un altro verso, si farebbe torto alla lettera del disposto di cui all’art. 4, che parrebbe presupporre il riparto stesso, aggiungendo a quali limiti di sistema soggiacciono gli atti dell’Unione laddove ricadenti negli ambiti materiali di loro spettanza.

Tutto ciò posto, convengo che la lettura aprioristicamente conciliante porti acqua al mulino della Corte europea, cui sta a cuore che non sia frapposto ostacolo alcuno alla avanzata delle norme euro unitarie ed alla loro incondizionata affermazione in ambito interno.

[11] D’altro canto, che possano darsi casi in cui le metanorme sono obbligate a bilanciarsi con norme sostantive è un dato di frequente riscontro nelle esperienze della giustizia costituzionale, tanto al piano dei rapporti interordinamentali quanto a quello dei rapporti infraordinamentali. Si pensi, ad es., per l’uno, alla nostra giurisprudenza nella parte in cui chiama l’art. 117, I c., a bilanciarsi con altre norme costituzionali, un bilanciamento che – dice la Consulta – potrebbe portare a far salve norme di legge ancorché contrarie a CEDU (in realtà, come mi sono sforzato di mostrare altrove, in una congiuntura siffatta, non si dà violazione alcuna della Convenzione e, di riflesso, della Costituzione, dal momento che è la stessa Convenzione a dichiarare di voler valere unicamente laddove si dimostri in grado di servire ancora meglio delle norme interne i diritti). Per l’altro piano, si rammenti la giurisprudenza che, in fatto di rapporti Stato-Regioni, fa salve norme di leggi statali, ancorché invasive di ambiti di competenza regionale, in nome della loro provata attitudine a salvaguardare i diritti e. in ultima istanza, la dignità della persona umana (tra le altre, sentt. nn. 10 e 121 del 2010). Stranamente non ammesso, invece, il caso inverso, di norme regionali anticipatrici di una disciplina statale carente e funzionali alla salvaguardia dei diritti (sentt. nn. 373 del 2010 e 325 del 2011).

[12] … e della stessa Unione, ove dovesse farsi luogo ad un insano ordinamento gerarchico per sistema a beneficio del principio di cui all’art. 4 del trattato sul principio del primato (proprio l’opposto di ciò che ha inteso fare la decisione qui annotata).

[13] Su ciò, part., G. Silvestri, Dal potere ai princìpi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Roma-Bari 2009.

[14] … quella dignità cui ha opportunamente fatto riferimento, nella vicenda che ha dato origine alla pronunzia qui annotata, il tribunale spagnolo (a riguardo del modo con cui la dignità è intesa nell’ordinamento spagnolo, riferimenti in A. Oehling de los Reyes, Sobre la evolución jurídica de la noción de dignidad del hombre en España, in Jahrbuch öff. Rechts, 60/2012, 503 ss. e, dello stesso, già, La dignitad de la persona, Madrid 2010).

[15] Non è inopportuno rilevare che ragionare della maggiore ovvero minore tutela offerta ai diritti da questa o quella norma non necessariamente equivale ad ammettere che le norme stesse debbano trovarsi in guerra tra di loro; potrebbe anche darsi che esse si dispongano lungo lo stesso verso, fissando tuttavia la tutela stessa – diciamo così – ad una diversa “altezza”. Ciò non toglie che debba talora (ma, appunto, non sempre) farsi una scelta tra di esse, fermo restando che la soluzione ideale, appagante al massimo grado in ragione del contesto, è quella che consente di fare congiunta applicazione di entrambe le norme, composte ad unità nei fatti interpretativi [su tutto ciò, maggiori ragguagli possono, volendo, aversi dal mio Prospettiva prescrittiva e prospettiva descrittiva nello studio dei rapporti tra Corte costituzionale e Corte EDU (oscillazioni e aporie di una costruzione giurisprudenziale e modi del suo possibile rifacimento, al servizio dei diritti fondamentali), in www.rivistaaic.it, 3/2012, spec. al § 3].

[16] Si è poi tentato in altra sede di mostrare che i bilanciamenti interordinamentali si risolvono pur sempre in un bilanciamento interno al singolo ordinamento preso in considerazione, in virtù del principio dell’apertura che ciascuno di essi fa all’altro (o agli altri).

[17] … a puntello, cioè, di una certa soluzione di merito, altrimenti problematicamente argomentabile (riferimenti al “sistema” possono, ancora di recente, vedersi, tra le altre, in Corte cost. n. 264 del 2012 e 1 del 2013).

[18] Per la verità, non pochi distinguo dovrebbero al riguardo farsi, non soltanto tra le due Corti europee nei loro rapporti con le Corti nazionali ma anche, con riguardo ad una stessa Corte, in ragione della sua evoluzione nel tempo (con specifico riferimento alla Corte EDU, una sensibile dottrina si è persino spinta a ragionare, in più scritti, della sua “aggressività” nei confronti dei giudici nazionali: O. Pollicino, Corti europee e allargamento dell’Europa: evoluzioni giurisprudenziali e riflessi ordinamentali, in Dir. Un. Eur., 2009, 1 ss., e spec. in Allargamento ad est dello spazio giuridico europeo e rapporto tra Corti costituzionali e Corti europee. Verso una teoria generale dell’impatto interordinamentale del diritto sovranazionale?, Milano 2010).

[19] Ad ulteriore rinforzo del suo ragionamento, la Corte si premura di rilevare come l’interpretazione da essa fatta propria degli artt. citt. della Carta risulti conforme all’art. 6, parr. 1 e 3, della CEDU per come inteso dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo: quasi a voler significare che ogni diverso esito della vicenda avrebbe potuto comportare ovvero certamente comporterebbe una violazione della Convenzione.

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