La “qualifica” di rifugiato e le politiche anti-terrorismo. Nuovi sviluppi per il diritto d’asilo UE con il caso Lounani.

La crescente preoccupazione dettata dalle minacce terroristiche e i cruenti episodi avvenuti in diversi territori degli Stati Membri, pongono sotto i riflettori la possibile (e non sempre certa) relazione che intercorre tra i flussi migratori e l’eventuale presenza di soggetti appartenenti a gruppi di natura eversiva tra coloro che richiedono una forma di protezione internazionale. Proprio per tali questioni, il quadro normativo europeo si interseca tra quanto stabilito dalla legislazione in materia di anti-terrorismo (a partire dalla Decisione Quadro 2002/475/GAI) e quanto previsto dal più esteso corpus del cosiddetto diritto d’asilo Ue. Il vero punto d’incontro risiede nella Direttiva 2004/83/CE, all’art. 12(2)(c), quando si determina che un cittadino di un paese terzo o un apolide è escluso dallo status di rifugiato se «si sia reso colpevole di atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite quali stabiliti nel preambolo e negli articoli 1 e 2 della Carta delle Nazioni Unite». Il suddetto enunciato, che rientra nell’ambito di attuazione dell’art. 1D della Convenzione di Ginevra, si applica alle persone che istigano o concorrono alla commissione dei reati o degli atti in questione. Perciò, lo status di rifugiato e la qualifica di “terrorista” sono legalmente incompatibili tra loro. Tuttavia, è necessario sempre verificare quando un determinato soggetto può considerarsi tale, alla luce della cd. Direttiva Qualifiche.

Questo è il tema di fondo affrontato dalla CGUE nella causa C-573/14, incentrata sulle vicende del Sig. Mostafa Lounani: cittadino di nazionalità marocchina, è giunto in territorio europeo nel 1991 e ha presentato un’istanza per ricevere la protezione internazionale in Germania, dove ha ricevuto un primo diniego. Si è, quindi, trasferito in Belgio nel 1997, dove ha soggiornato illegalmente fino al 2010, quando è stato condannato dal Tribunal correctionnel de Bruxelles per l’appartenenza al Gruppo Islamico dei Combattenti Marocchini (GICM), un'organizzazione annoverata tra quelle con finalità terroristiche dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Sebbene abbia ricoperto numerosi ruoli all’interno di questo movimento, il soggetto non è mai stato condannato per atti terroristici diretti. Persino le persone che il Sig. Lounani avrebbe aiutato a raggiungere i territori iracheni grazie al GICM, non sono mai state chiaramente coinvolte in precisi atti di natura eversiva. Temendo la persecuzione nel proprio Paese in seguito alla condanna ricevuta, Lounani ha comunque presentato una domanda di asilo presso le autorità belghe. Questa seconda istanza è stata, in primo luogo, rigettata sulla base dell’art. 12(2)(c) della Direttiva Qualifiche ma successivamente ritenuta ammissibile, con ben due pronunce, da parte della Commissione belga per il contenzioso in materia di stranieri. Quest’ultima ha, infatti, ritenuto che le azioni imputate al sig. Lounani non fossero veri e propri reati terroristici, poiché il Tribunale penale di Bruxelles aveva emesso una condanna solo per la sua appartenenza a un determinato gruppo, non riconoscendo alcuna relazione del soggetto con uno specifico atto sovversivo. D’altronde, prosegue la Commissione, i comportamenti contestati non raggiungevano in nessun caso il grado di gravità richiesto per poter essere qualificati come “contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite” (ex Direttiva 2004/83/CE) e, quindi, non erano da considerarsi come ostativi al riconoscimento dello status di rifugiato. In ultima istanza, il Conseil d’État ha deciso interrogare, con rinvio pregiudiziale, la Corte di Giustizia circa la possibilità di negare il titolo di rifugiato per «atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite» ad un soggetto che abbia subito una condanna penale per mera partecipazione alle attività di un gruppo ritenuto terroristico, senza però avere alcuna responsabilità individuale nel compimento di tali atti.

L’Alto Tribunale europeo, nella sua decisione, rileva l’effettiva estraneità del sig. Lounani ad azioni con finalità terroristiche, sia per ciò che riguarda la commissione diretta, così come per l’istigazione. Tuttavia, i giudici di Lussemburgo decidono di affrontare con maggiore enfasi le questioni già evidenziate in precedenza dall’Avvocato Generale, stabilendo che la clausola di cui all’art. 12(2)(c) della Direttiva Qualifiche non può limitarsi solo a coloro che si rendono autori in prima persona di atti terroristici ma deve necessariamente estendersi ad «attività di reclutamento, organizzazione, trasporto o equipaggiamento in favore di individui che si recano in uno Stato diverso dal loro Stato di residenza o di cui hanno la cittadinanza allo scopo, segnatamente, di commettere, organizzare o preparare atti di terrorismo». Pertanto, la cd. clausola di esclusione contenuta nella normativa derivata è pienamente applicabile al caso in questione, suffragata anche dalla presenza di documenti internazionali che segnalano «grave preoccupazione per la minaccia terribile e crescente costituita dai combattenti terroristi stranieri» [Risoluzione ONU 2178 (2014)]. Sembrerebbe, quindi, che la condizione per cui tali atti debbano raggiungere un certo livello di serietà non possa costituire la base per la concessione al sig. Lounani dello status di rifugiato. La Corte, perciò, si rifà a quanto già stabilito con le sentenze riunite C-57/09 e C-101/09 emesse nel caso B&D, ribadendo che la constatazione, della sussistenza di fondati motivi per ritenere che una persona abbia commesso un reato è subordinata ad una valutazione “caso per caso”. Ciò nonostante, il fatto che la condanna del ricorrente sia divenuta definitiva assume particolare importanza nell’ambito della suddetta valutazione individuale, che l’autorità competente è tenuta ad effettuare.

La decisione in esame si inserisce, quindi, nel solco originario tracciato dalle decisioni nei casi HT (C-373/13) e B&D (C-57/09 e C-101/09), trovando in quest’ultima la base argomentativa più ragionevole per supportare l’estensione della cd. clausola di esclusione dallo status di rifugiato. Ciò che, con ogni probabilità, appare sacrificato è l’intento di mantenere separato l’evolversi di due ambiti legislativi: da un lato, la disciplina (comune?) di contrasto al terrorismo, che risente non solo di necessità evidenti ma anche di istanze preventive; dall’altro lato, l’implementazione del tanto agognato sistema europeo d’asilo che, per certi versi, passa proprio da una più nitida qualificazione del soggetto. Il vero elemento di novità di questa sentenza risiede proprio nella manifesta intenzione da parte dell’Alto Tribunale europeo di allineare il diritto dell'UE in materia di asilo alla vis più espansiva del cd. diritto globale dell’anti-terrorismo, per colpire non solo gli atti di violenza diretta, bensì adottare un approccio tenace e preventivo verso la soppressione e l’interruzione di azioni “periferiche”, finalizzate all’organizzazione e al finanziamento di gruppi eversivi. Questo atteggiamento, nel caso di specie, ha influenzato l’applicazione della clausola di esclusione. Certamente, l’inevitabile utilizzo delle risoluzioni ONU per collegare questa peculiare branca del diritto penale UE alla concessione di un titolo di protezione internazionale, non allontana la necessaria cautela che il giudice interno deve utilizzare nell’affrontare tali questioni, in un’epoca di crescente chiusura delle comunità nazionali e di un conseguente aumento delle tensioni pubbliche sui temi dell’immigrazione. In definitiva, si tratta di una visione che rischia di ridisegnare la dialettica tra due esigenze, la sicurezza e la protezione, che a tratti sembrano «l’un contro l’altro armate».


Se ad essere "non sicuro" è uno Stato membro dell'UE. La prima pronuncia italiana sulla condizione dei migranti in Ungheria.

È ormai ben noto, anche in virtù di una costante attenzione mediatica, che il cd. "Sistema Dublino" (più volte riformato e oggetto di pronunce) consente di richiedere il trasferimento di un soggetto che presenta un'istanza per ottenere una qualsivoglia forma di protezione internazionale verso il Paese presso cui tale richiesta è stata formulata per la prima volta. Questa misura deve essere ben ponderata (come già commentato su questo blog) perché potrebbe pregiudicare la condizione e la stessa incolumità del richiedente. Il semplice timore che lo Stato possa causare o, più semplicemente, non proteggere il migrante da trattamenti inumani e degradanti può arrestare il processo di trasferimento dello straniero. Certamente, queste questioni riguardano maggiormente quei territori che sono interessati o lambiti da conflitti, instabilità interne o da regimi di governo caratterizzati dal dubbioso rispetto delle libertà fondamentali. Risulterebbe difficile riscontrare tali violazioni in seno ad ordinamenti che sono spesso oggetto di una (o più) giurisdizioni internazionali e che dovrebbero recepire determinati standard all'interno del proprio sistema giuridico.

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Recensione dell’opera

José Luis García Guerrero (a cura di)
Los Derechos Fundamentales. La vida, la igualdad y los derechos de libertad. Ed. Tirant Lo Blanch, Valencia, 2013. 556 pagine.

Come è noto, sono molti i lavori che, in ambito giuridico, sono frutto di una serie di contributi provenienti da diverse scuole interpretative e di pensiero. In questo caso, si tratta perlopiù di un opera che si propone di analizzare il tema attraverso differenti prospettive, con una lente di ingrandimento di stampo multidisciplinare. Il tema centrale di questa monografia – Los derechos fundamentales – è certamente attuale, sia dal punto di vista più squisitamente giuridico che giurisprudenziale, pur nella sua classicità. Come si evince dal sottotitolo -  La vida, la igualdad y los derechos de libertad – l’analisi è condotta con  precise chiavi di lettura, evidentemente correlate tra loro alla luce della dottrina costituzionale spagnola, a cui l’intera contenutistica fa riferimento.

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La tutela del migrante economico tra gli equilibri di bilancio e le “protezioni estese”. Brevi riflessioni su due recenti ordinanze del Tribunale di Milano.

Non v’è dubbio che l’acuirsi dei conflitti in alcuni territori del mondo generi un costante livello dei flussi migratori. Tuttavia, esiste una crescente porzione di Paesi dove la popolazione vive in condizioni di miseria e povertà. A ciò si aggiunga che, per evidenti ragioni puramente personali, qualunque individuo è potenzialmente spinto alla ricerca di migliori condizioni di vita. La prassi amministrativa e l’interpretazione della legislazione vigente in Italia ha portato sempre alla suddivisione in classi dello straniero. Si pensi, tra le tante, alla distinzione tra migrante economico e rifugiato. Tale binomio ha radici ben più profonde, derivanti dagli studi di Egon Kunz che ha elaborato la cosiddetta Push and Pull Theory. Riassumendo drasticamente, si tratta di una distinzione che riguarda il “motivo” o la “causa” della migrazione: i pushed sono quei soggetti destinati a diventare rifugiati perché spinti da situazioni di conflitto o di instabilità politica, mentre i pulled sarebbero coloro che si spostano alla ricerca di migliori prospettive economiche. Tale divisione non ha mai avuto un valore giuridico formale, ma è genericamente utilizzata col fine ultimo di discernere i soggetti che hanno diritto a ricevere una forma di protezione (sia essa asilo, rifugio, sussidiaria o umanitaria), da coloro che invece non rientrano nelle suddette forme di tutela internazionale. Cosa succede se tutti questi fattori entrano in gioco?

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La detención del extranjero a la prueba de la directiva sobre repatriaciones: otro capitulo en el asunto Celaj

Con la reciente sentencia dictada por el Tribunal de Justicia de la Unión Europea en el caso C-290/14 - asunto Celaj, se escribe otro capítulo relacionado con los sistemas internos de detención del sujeto extranjero, la ley penal de los Estados y la Directiva 2008/115/CE. A este respeto, los jueces europeos han analizado la compatibilidad del delito de reingreso ilícito, previsto por la normativa italiana al art. 13, p. 13 del Texto Único sobre Inmigración y la legislación europea en materia de repatriaciones, a la luz de su interpretación, que ha sido inaugurada por la famosa sentencia El Dridi (C‑61/11) y que ha suscitado un gran debate en la comunidad científica.

Esta vez, el juez remitente del Tribunal de Florencia ha pedido al TJUE una valoración sobre las disposiciones de la directiva 2008/115 y las normas italianas que prevén hasta 4 años de cárcel para todo ciudadano procedente de un tercer País que, después de ser repatriado (no por efecto o en sustitución de una sanción penal), haya efectuado de forma ilícita el reingreso en el territorio del Estado. A este respeto, el juez italiano añade que dicho sujeto no ha sido previamente condenado a la reclusión, así como previsto por el art. 8 de la Directiva 2008/115, para facilitar su primaria repatriación.

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Los ”niños fantasma de la República”: La nacionalidad francesa y el delicado tema de la maternidad subrogada

La nacionalidad francesa se rige por los artículos 17 a 33-2 del Código Civil y por el decreto no. 93-1362 del 30 de diciembre de 1993 (Diario Oficial del 31/12/1993), modificado por el decreto no. 93-933 del 22 de julio de 1993 (Diario Oficial del 23/07/1993) que reformó el Código de la nacionalidad francesa proveniente de la ordenanza n 45-2441 del 19 de octubre de 1945 y de la ley no. 98-170 del 16 de marzo de 1998 (Diario Oficial del 17/03/1998), vigente a partir del 1° de septiembre de 1998, que modificó algunas disposiciones del Código civil relativas a la nacionalidad francesa. Respeto a la filiación, una persona es francesa al nacer, automáticamente, tanto si uno de sus padres era francés en el momento de su nacimiento (lo que se suele llamar "derecho de sangre” o "ius sanguinis") como si nació en Francia de al menos un padre también nacido allí (el llamado "derecho de suelo" o  “ius soli”). En este sentido, destaca una circular de 25 de enero de 2013, en la que el Ministerio de Justicia se ha pronunciado sobre la posibilidad de otorgar el certificado de nacionalidad a los niños nacidos en el extranjero de un padre francés, cuya filiación proceda de una procreación o gestación por cuenta de otros (también llamada GPA). En este sentido, el contexto nacional se veía ya afectado en el debate jurídico y politico por la cuestión conocida a nivel parlamentario como “el matrimonio para todos”, considerando también que, en el ordenamiento francés, los contratos de gestación o de madre sustituta están prohibidos por el Código Civil y que dicha prohibición es relacionada con el orden público.

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Tarakhel v. Suiza: Estrasburgo cuestiona (otra vez) el Sistema Dublín

Desde la entrada en vigor del Tratado de Lisboa y la consiguiente consagración de la Carta de los Derechos Fundamentales de la Unión europea, parece que el nivel de tutela de dichas libertades se aplique con cierta discrecionalidad, sobre todo si se considera el régimen de extranjería de algunos países miembros. Otra vez, estamos hablando del Sistema de Dublín y sus problemas de compatibilidad con  las obligaciones previstas por el Convenio europeo de derechos humanos. Hace muy poco, con la sentencia Sharifi y otros v. Italia y Grecia (solicitud n. 16643/09) el TEDH había censurado una práctica usual entre todos los Estados que se consideran “la puerta” del mediterráneo: las devoluciones forzosas de los extranjeros. En este caso, los jueces de Estrasburgo señalaban que dichos países no pueden eludir las reglas suscritas por el CEDH en virtud de acuerdos bilaterales contraídos con otro Estado miembro para devolver a solicitantes de asilo hacia territorios donde no se respeta un nivel de tutela adecuado.

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La residencia como “derecho derivado” de la ciudadanía europea: aspectos relevantes para los nacionales de terceros Países.

Después de muchos años, el Tribunal de Justicia de la Unión europea parece seguir en el trayecto hacia el “enriquecimiento” de contenidos y definición de los limites que pertenecen a la ciudadanía europea. Este instituto, aunque parezca más consolidado que otros en el panorama de la UE, por un lado exige una continua y determinada afirmación, siendo probablemente el resultado más evidente del proceso de integración y, por otra parte, resulta ser aún más importante por los derechos que conlleva y por los ámbitos en los que influye. Además, hace tres años, con la sentencia Zambrano (C-34/09) la ciudadanía de la Unión tocaba, no por primera vez pero de forma absolutamente innovadora, el controvertido tema de los nacionales de terceros Países, en su calidad de miembros de la familia de un ciudadano europeo. De aquí, la necesidad de tratar el asunto con la máxima atención que se requiere, teniendo en cuenta de que la misma ciudadanía esta relacionada con el derecho a la libre circulación (ej. sentencia C-434/09), la entrada y la residencia en el territorio de un Estado miembro (ej. sentencias C-256/11, C-300/11yC-40/11) y, por fin, con la libertad, en cabo a cada ciudadano de la Unión (sino a cualquier persona humana), de mantener intacta su propia vida familiar, así como establece los artículos 7 y 9 de la Carta de derechos fundamentales de la UE.

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La discrezionalità amministrativa nel “riconoscere” la cittadinanza

Considerazioni a margine delle sentenze C.d.S., Sez. III, n. 2920/2013 e Tribunale di Lecce dell’11 marzo 2013.

 

Lo Stato, in un atto direttamente imputabile alla sua sovranità, decide quale soggetto può (e deve) essere considerato suo “cittadino”, individuando quali siano i pre-requisiti di legge da rispettare e le procedure idonee al rilascio del suddetto titolo. Questa espressione, per certi versi banale e didascalica, non è per nulla scontata dinanzi a peculiari controversie cui il giudice (di qualsiasi grado) deve porre rimedio. A ciò, si aggiunge l’annosa questione (non meno scontata) dell’interpretazione di talune norme, acuita da una frammentaria e spesso tardiva legislazione in materia di immigrazione e di cittadinanza. In un periodo, infatti, in cui si dibatte su quale sia la strada migliore per diventare un civis optimo iure e, soprattutto, ci si interroga se la “nascita” sia sufficiente a dimostrare l’appartenenza al territorio nazionale, lo spunto di riflessione ci deriva proprio da alcune pronunce che, attraverso un rinnovato spirito interpretativo dei testi vigenti, sembrano rivolgersi direttamente all’inerte legislatore. In entrambi i casi, in effetti, all’intenzionalità dello straniero e alla manifesta volontà di acquistare la cittadinanza italiana, corrisponde un’azione amministrativa (probabilmente) perfettibile e meritevole di modifica.

Nel primo caso, quello relativo alla sentenza n. 2920/2013, il Consiglio di Stato è stato adito per esprimersi su un diniego di acquisto della cittadinanza e, in particolare, sull’ampio margine discrezionale che ha caratterizzato il procedimento amministrativo. In base all’art. 7 della Legge 91/1992, «la cittadinanza italiana si acquista con decreto del Ministero dell’Interno, a istanza dell’interessato, presentata al sindaco [...] o all’autorità consolare». Tali soggetti hanno l’obbligo di rivolgersi al Ministero dell’Interno (tramite l’Autorità prefettizia) al fine di ricevere un “responso” relativo al rigetto o all’accoglimento di tale istanza. I criteri valutativi su cui verte l’esame di questa richiesta sono stabiliti dall’art. 6 della Legge 91/1992: il primo comma,  in particolare, individua le cause ostative al rilascio (es. condanne penali o motivi di sicurezza) che, in qualche modo, investono l’autorità amministrativa del delicato compito di verificare (ad esclusione degli evidenti provvedimenti di condanna) i limiti che possono determinarne il diniego. Il procedimento si concretizza attraverso un atto cd. di «alta amministrazione», a cui corrisponde «altissima discrezionalità, sia nell’accertamento, sia soprattutto nella valutazione dei fatti acquisiti al procedimento»1.

Proprio in questi particolari casi, il giudice può solo operare un controllo di «natura estrinseca e formale», considerando che si tratta di decisioni politico-amministrative che non consentono di entrare nel merito delle questioni, presumendo che siano le «migliori possibili scelte, per l'attuazione dell'interesse pubblico»2. In ottemperanza a quanto sancito dal suddetto art. 6, la P.A. svolge un esame (più o meno accurato) delle caratteristiche personali del soggetto che possono riguardare aspetti relativi l’integrazione, «l’assimilazione all’ambiente nazionale, l’autosufficienza economica ed il concorso alla realizzazione delle finalità istituzionali e solidaristiche della comunità nazionale»3; tali criteri, con ogni probabilità, risentono di eventuali “sensibilità” da parte di colui che compie la valutazione. A ciò, si aggiunga la peculiarità di taluni decreti, i quali sono spesso resi in forma segreta (si pensi, tra tutti, a quelli relativi alla sicurezza nazionale), non consultabili dal ricorrente, nonostante si sia ribadito più volte quanto sia necessaria una «chiara indicazione, pur in termini ridotti all'essenziale, dei fatti o sospetti determinanti il diniego, in modo da consentire all'interessato la loro confutazione»4.

In tal senso, interviene il Consiglio di Stato accogliendo il ricorso di un soggetto straniero (in Italia da più di 22 anni) al quale era stata negata la cittadinanza in seguito ad una condanna (per altro, estinta) per guida in stato di ebbrezza. Nel caso di specie, l’organo supremo è entrato (con cautela) nel merito di quella “intangibile” decisione politico-amministrativa, stabilendo che «la valutazione discrezionale sull’integrazione dello straniero nel tessuto sociale della Repubblica [...] non può legittimamente prescindere da un giudizio globale sulla personalità», considerando «le implicazioni e gli effetti sulla posizione complessiva dell’appellante», attraverso «seri profili d’adeguatezza e proporzionalità», così da elaborare «un giudizio sì discrezionale, ma anche completo e preciso». Da qui, il conseguente obbligo per il Ministero a pronunciarsi nuovamente sul caso di specie.

Questa decisione (sommessa ma molto incisiva), non sembra troppo distante dal secondo caso che esamineremo e che riguarda quella parte della Legge 91/1992 (art.4, c. 2) che stabilisce una sorta di “cittadinanza per nascita” nel nostro ordinamento, su cui tanto si discute nell’attualità. Anche in questa occasione, l’Ufficiale dello Stato Civile del Comune interessato aveva negato lo status civitatis a un soggetto (per così dire) straniero, che aveva regolarmente compiuto la maggiore età sul territorio e, quindi, legittimato a richiedere il titolo in questione. La motivazione addotta riguardava proprio il momento della nascita poiché, a quella data, «nessuno dei suoi genitori era residente sul territorio della Repubblica». Prescindendo dall’analisi delle vicissitudini inerenti il caso concreto, il ricorrente (nato nel 19935) era già in possesso di un regolare documento di identità italiano, era cresciuto in un contesto familiare italiano, e (per giunta) era stato dichiarato dalla madre naturale al momento della sua regolarizzazione6. Il Tribunale, quindi, accogliendo la domanda proposta, ordina le iscrizioni, trascrizioni e comunicazioni nei Registri comunali.

La sentenza del Tribunale di Lecce, in questo caso, ci aiuta a comprendere alcuni aspetti assai critici della normativa vigente: se da un lato, il principio della “cittadinanza per nascita” in Italia non può prescindere dal fatto che sussista una volontà del soggetto all’acquisizione, dall’altro lato è obbligatorio (soprattutto per la P.A.) individuare procedimenti «volti a garantire la positiva conclusione del percorso di inserimento per i bambini stranieri nati nel nostro territorio»7. Sempre in merito alla discrezionalità nel procedimento, l’Amministrazione dovrebbe «adeguare l’interpretazione e l’applicazione della norma alla realtà, consentendo al giovane straniero di completare l’integrazione nel Paese in cui è nato, di cui parla la lingua e del quale ha acquisito la cultura e gli stili di vita»8.

Le pronunce esaminate, diverse per alcuni aspetti ma simili nei tratti conclusivi, ci forniscono due esempi assai esplicativi di come le norme debbano essere interpretate considerando tutte le caratteristiche concorrenti alla “situazione attuale” di un dato soggetto. Questo vale, ancor di più, quando si tratta di istanze concernenti lo status civitatis. Del resto, anche la Corte di Giustizia dell’Ue, quasi come custode di quell’originario “diritto ad avere una cittadinanza9”, ha tracciato un solco ben delineato su questi temi, rafforzando la protezione di determinate posizioni. Risulta, infatti, come assimilato nel diritto europeo che un soggetto non possa essere privato della cittadinanza (dell’Unione)10 e che detto istituto, seppur subordinato al possesso di una figura “omologa” e di stampo nazionale, sia talmente forte da poter essere invocato come “agente di tutela” dinanzi alle autorità di un altro Stato membro (causa C-200/02, Zhu e Chen). Del resto, sono ormai evidenti le ricadute nell’ambito relativo al diritto di soggiorno e libera circolazione (cause C-34/09, Ruiz Zambrano; C-256/11, Dereci), che investono le autorità nazionali anche del difficile compito di saper bilanciare tra le necessità imposte dalla sicurezza dello Stato e il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva del richiedente (causa C-300/11, ZZ)11.

In definitiva, quindi, la discrezionalità amministrativa (seppur importante) e i provvedimenti che da essa derivano, devono evolversi verso una semplificazione che sia lontana da quell’obsoleto atteggiamento “concessorio”, proveniente da una normativa spesso datata e immobile, per perseguire i profili “inclusivi” della cittadinanza. Quest’ultima, infatti, va declinata in senso biunivoco: non solo come insieme di criteri (o doveri) da ottemperare per richiederne l’acquisto, bensì come patrimonio di libertà che lo Stato (con la sua Amministrazione) deve saper “riconoscere”.

 

Note

 

1 Cfr. Sentenza C.d.S., sez. VI, n. 4862/2010

2 Cfr. Sentenza C.d.S., sez. VI, n. 5913/2011

3 Cfr. Sentenza T.A.R. Piemonte, sez. II, n. 1336/2012

4 Cfr. Sentenza T.A.R. Lazio, sez. II Quater, n. 2298/2012

5 Su questa base, il collegio sancisce che la “residenza legale” debba intendersi solamente alla luce dell’art. 43 cod. civ.

6 La Sentenza n. 1486/2012 della Corte d’Appello di Napoli già stabiliva che «non possono imputarsi al minore, ai fini del riconoscimento della cittadinanza di cui al comma 2, art 4, legge 91/92, gli inadempimenti dei genitori circa l’iscrizione anagrafica»

7 Come precisato nella Circolare ministeriale n. 22 del 7/11/2007

8 Così, l’apertura parziale effettuata dalla Circolare ministeriale n. 60 del 5/1/2007

9 Art. 15 UDHR e, in un certo senso, anche EXCOM Conclusion N. 78 (XLVI)

10 Cfr. la nota Sentenza Micheletti (Causa C-369/90) che fu pronunciata, per giunta, prima dell’entrata in vigore del Trattato di Maastricht.

11 Con questa pronuncia, la CGUE ha sancito che «la sostanza della motivazione sulla quale è fondata una decisione di diniego di ingresso dev’essere comunicata all'interessato, dato che la pur necessaria tutela della sicurezza dello Stato non può avere l'effetto di privare detto soggetto del suo diritto di esporre la propria difesa e, pertanto, di vanificare il suo diritto alla tutela giurisdizionale».


Brevi riflessioni sull’accordo di integrazione tra lo straniero e lo Stato italiano

La normativa introdotta dalla legge n. 94 del 2009 (il cd. “pacchetto sicurezza”) ha novellato in alcuni punti il Testo Unico sull’immigrazione (d. lgs. n. 286 del 1998) introducendo nel corpus normativo concernente il diritto degli stranieri un certo vincolo che lega la condizione giuridica di questi soggetti a misure tese, talvolta in modo esplicito, al mantenimento dell’ordine pubblico. In particolare, dallo scorso 10 maggio è entrato in vigore il cd. “accordo di integrazione”, misura che si riferisce a tutti quegli stranieri che dovendo richiedere un qualsiasi permesso di soggiorno sul territorio nazionale dovranno, secondo queste nuove procedure, sottomettere l’autorizzazione di stanzialità alla “valutazione di avvenuta integrazione”, attraverso la stipula di questa particolare fattispecie di contratto (inteso in senso amministrativo, piuttosto che privatistico) con lo Stato italiano.

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