I mutevoli equilibri del rinvio pregiudiziale: il caso dei precari della scuola e l’assestamento dei rapporti tra Corte costituzionale e Corte di Giustizia

Con una sentenza che ha attirato l’interesse della stampa e dell’opinione pubblica, la Corte di Giustizia UE si è pronunciata il 26 novembre scorso sul rinvio pregiudiziale sollevato dalla Corte costituzionale in merito al trattamento riservato dalla legislazione italiana ai precari della scuola.

Come si ricorderà (ne avevamo scritto qui) la Corte costituzionale, con l’ord. n. 207 del 2013, aveva sollevato per la prima volta un rinvio pregiudiziale nel corso di un giudizio incidentale, vertente sull’interpretazione da dare ad un atto comunitario privo di effetto diretto (la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva del Consiglio 1999/70/CE) e sulla compatibilità con esso della normativa nazionale che disciplina i rapporti di lavoro a tempo determinato del personale scolastico (docente e ATA). In particolare, a fronte di una normativa europea che impone agli stati membri di dotarsi di strumenti volti ad arginare il ricorso a contratti a tempo determinato (normativa attuata a livello interno con il d.lgs. n. 368 del 2001), la Corte costituzionale era chiamata a pronunciarsi sulla normativa speciale (art. 4, commi 1 e 11, della legge n. 124 del 1999) che, limitatamente al personale (docente e ATA) della scuola, non prevede né un limite massimo alla durata di tali contratti, né l’indicazione di un numero massimo di rinnovi, né, soprattutto, la conversione di tali rapporti in contratti a tempo indeterminato se non attraverso le procedure ordinarie di immissione in ruolo.

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La Corte costituzionale effettua il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE anche in sede di giudizio incidentale: non c’è mai fine ai nuovi inizi

(sull’ordinanza n. 207 del 2013 della Corte costituzionale)

Con l’ordinanza n. 207 del 18 luglio scorso, la Corte costituzionale è tornata, a distanza di cinque anni dalla celebre ordinanza n. 103 del 2008, a effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea. La novità, questa volta, sta nel fatto che i giudici della Consulta hanno chiamato in causa la Corte di Lussemburgo in occasione di una controversia sollevata in sede di giudizio incidentale, laddove, come si ricorderà, nell’occasione precedente la ragione che aveva spinto ad infrangere il tabù del rinvio pregiudiziale muoveva dalla peculiare natura del giudizio in via principale: in particolar modo dal fatto che, in esso, mancasse un giudice in grado di farsi carico dell’onere di effettuare il rinvio e quindi la Corte fosse, di necessità, da intendersi come autorità giurisdizionale ai sensi del Trattato in quanto “unico giudice chiamato a pronunciarsi sulla controversia”.

Questa circostanza aveva spinto sin da subito molti dei commentatori a ritenere che la portata di quella ordinanza non potesse che restare confinata nello spazio del giudizio in via principale, senza quindi che quelle ragioni potessero trovare spazio nel giudizio in via incidentale, nel quale è al giudice a quo che, finora, la Corte ha sempre addossato l’onere di attivare lo strumento del rinvio pregiudiziale. L’ordinanza in discussione, invece, ribadisce la portata più generale dell’autoattribuzione della qualifica di organo giurisdizione nazionale ai sensi del Trattato operata nel 2008, estendendola anche alla sede del giudizio incidentale. Questa estensione, tuttavia, viene operata dalla Corte costituzionale perseguendo, come già avvenuto in molte occasioni sui temi che investono i rapporti con l’Unione europea, una linea di ricercata continuità con la propria giurisprudenza pregressa. Continuità che in questa occasione emerge nell’affermazione per cui, in linea di principio, la competenza a sollevare il rinvio pregiudiziale non provoca, almeno a prima vista, una sostanziale alterazione del riparto di funzioni tra giudici e Corte come delineato sino ad oggi, perché si inquadra nel controllo che la Corte stessa opera sul rispetto, da parte della normativa primaria interna, delle norme dell’Unione prive di effetto diretto. Se queste ultime, infatti, quando confliggano con un atto primario interno “rendono concretamente operativi i parametri di cui agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.”, a conclusioni diverse si giunge, come noto, per le norme UE dotate di effetto diretto, in relazione alle quali la competenza a risolvere il contrasto, eventualmente ricorrendo al rinvio pregiudiziale, resta saldamente nelle mani del solo giudice della controversia (a meno che, beninteso, dalla eventuale disapplicazione possa scaturire una lesione dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale).

Una simile prospettiva di lettura “continuista” non può tuttavia non tenere conto di quanto l’adozione dell’ordinanza n. 207 del 2013 incida, in una direzione questa volta fortemente innovativa, su altri presupposti che hanno sinora presieduto al rapporto tra Corte costituzionale, giudici e Corte di giustizia.

Innanzi tutto, va osservato come con questa pronuncia la Corte costituzionale mostri di voler tenere aperto un canale di interazione con la Corte di giustizia più attento, rispetto al passato, a valorizzare i presupposti sostanziali della propria giurisdizione rispetto alle questioni meramente definitorie, prima fra tutte quella attinente alla possibilità di definirsi “autorità giurisdizionale”. Mentre in passato, infatti, la Corte aveva alternato, ad un registro più sensibile alle esigenze sostanziali di interazione (penso all’obiter dictum contenuto nella sent. n. 168 del 1991: “ferma restando la facoltà di sollevare anch'essa questione pregiudiziale di interpretazione ...”), una più netta preclusione al dialogo, incentrata sulla non riconducibilità del suo ruolo a quello di un giudice (più volte ribadita a partire dall’ord. n. 536 del 1995), la strada aperta dalle due pronunce del 2008 (nn. 102 e 103) e ribadita oggi con l’ord. n. 207 cit. mostra una Corte sempre più attenta a tenere in considerazione le conseguenze che potrebbero discendere da un suo rifiuto, sia per la tenuta del rapporto tra i due sistemi (nazionale e dell’Unione), sia per la creazione di eventuali vuoti di tutela. La stessa affermazione secondo cui “deve ritenersi che questa Corte abbia la natura di «giurisdizione nazionale» ... anche nei giudizi in via incidentale”, formulata in termini così apodittici e senza ulteriori spiegazioni, non potrebbe essere compresa se non richiamando quell’esigenza sostanziale, già chiaramente espressa nel 2008 e oggi amplificata, rivolta a salvaguardare la sua interazione con la Corte di giustizia laddove essa si renda necessaria in quanto unico strumento per porre rimedio ad un contrasto tra sistemi. Un’esigenza, quest’ultima, rispetto alla quale l’interrogativo posto in astratto su come la Corte debba qualificarsi perde sempre più di rilievo.

Un’altra conseguenza innovativa, forse la più rilevante, che discende da questa pronuncia riguarda poi la questione della c.d. “doppia pregiudizialità”, intesa in particolare nel senso più stretto dell’espressione, vale a dire come eventualità che il dubbio concernente l’interpretazione di una norma dell’Unione si compenetri con la questione di legittimità costituzionale, entrando così a farne parte. È noto che casi del genere sono stati sinora sempre risolti nel senso dell’inammissibilità, disposta dalla Corte nel presupposto dell’irrilevanza della questione. Al giudice incombeva prima l’onere di rivolgersi alla Corte di giustizia e, solo dopo aver esperito questo rimedio e ricorrendone ancora i presupposti, alla Corte costituzionale. Una scelta, quest’ultima, ritenuta eccessivamente rigida e quindi criticata in dottrina, per la quale ciò nonostante la Corte aveva optato anche in quei casi in cui l’efficacia diretta era tutta da verificarsi, in assenza di una pregressa giurisprudenza sul punto della Corte di giustizia (cfr. ordd. nn. 415 del 2008 e 100 del 2009). Alla luce di ciò, diventa quindi inevitabile chiedersi quale sia la ragione che, nel caso di specie, ha spinto la Corte a superare la propria precedente giurisprudenza restrittiva e a sollevare essa stessa il rinvio pregiudiziale.

La ragione, a ben vedere, merita di essere individuata nella specificità del caso sottoposto al suo giudizio e nel rilievo sostanziale che ad esso deve essere attribuito. La questione sollevata dai giudici a quibus riguarda l’art. 4, commi 1 e 11, della legge 3 maggio 1999, n. 124 che, nel disciplinare il conferimento delle supplenze per la copertura dei posti vacanti dei docenti e del personale ATA della scuola, viene ritenuto in contrasto con la direttiva 1999/70/CE, che chiama gli Stati ad introdurre nel proprio diritto interno norme idonee a prevenire il ricorso continuato a contratti a tempo determinato. Il punto sostanziale attiene alle condizioni e ai limiti di applicabilità dei principi contenuti nella direttiva nel settore pubblico e, in particolare, nell’ambito dell’organizzazione scolastica. Un ambito nel quale – osserva la Corte – insopprimibili esigenze di organizzazione del servizio impongono all’autorità di dotarsi di strumenti, come le supplenze annuali e temporanee, che le consentano di rispondere alle variazioni demografiche della popolazione scolastica e, così, di garantire un più adeguato soddisfacimento del diritto all’istruzione. La questione di costituzionalità, sollevata in relazione ai soli artt. 11 e 117 cit., finisce inevitabilmente per intersecare principi di rilievo costituzionale, primi fra tutti quelli del concorso pubblico e il diritto all’istruzione, e impone di verificare, di conseguenza, se e fino a che punto la salvaguardia di questi ultimi possa valere quale “ragione obiettiva” in grado di giustificare una legislazione statale derogatoria rispetto ai principi della direttiva.

È principalmente in virtù del coinvolgimento di questi principi, pertanto, che si può comprendere la scelta della Corte di non sanzionare con l’inammissibilità la mancata attivazione del rinvio da parte dei giudici, ma anzi di fare proprio il dubbio interpretativo e di innestare in esso ragioni di ordine propriamente costituzionale, in quanto tali non adeguatamente veicolabili dai rimettenti che, nella loro prospettiva, giustamente avevano ritenuto “non esserci dubbi interpretativi sulla pertinente normativa comunitaria tali da richiedere il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia”. L’attivazione del rinvio da parte della Corte costituzionale, in altre parole, si giustifica in ragione del rilievo costituzionale dei beni e dei principi che si contrappongono al dispiegarsi del contenuto della direttiva nel diritto interno: beni e principi che richiedono di essere portati all’attenzione della Corte di Giustizia da chi, per il ruolo che assolve, è in grado di difenderne in modo più pieno le ragioni.

Ma se quindi è il coinvolgimento, nella soluzione della controversia, di questioni di ordine costituzionale a giustificare l’attivazione del rinvio pregiudiziale da parte della Corte invece che da parte dei giudici (come avvenuto sinora), proprio perché qui si riflette la specificità del suo ruolo, è legittimo allora chiedersi se sia ragionevole che questo strumento di interazione resti confinato al solo caso in cui vengano in discussione norme prive di efficacia diretta e non debba operare anche in quei casi, che sembrerebbero restare esclusi dalla ordinanza in questione, dove si verte intorno a norme comunitarie dotate di effetto diretto. E se ciò si dovesse ritenere inevitabile in base alla stessa impossibilità, in casi del genere, di instaurare il giudizio davanti alla Corte (in osservanza ai dettami posti con la sent. n. 170 del 1984), non può non osservarsi come il presupposto su cui quell’indirizzo si fonda – cioè l’autonomia del circuito giudici nazionali-Corte di giustizia rispetto alla Corte costituzionale – troverebbe una ulteriore, significativa, smentita proprio in questa ordinanza, che ha dimostrato come il coinvolgimento di principi costituzionali rappresenta una ragione sufficiente per far rientrare la Corte costituzionale in quel circuito (senza, per questo, arrivare all’ipotesi estrema e sempre più depotenziata dei controlimiti).

Un ultimo punto, destinato verosimilmente a sollevare molti interrogativi, riguarda infine la natura obbligatoria o facoltativa del rinvio pregiudiziale effettuato dalla Corte costituzionale in quanto giudice nazionale di ultima istanza. Il riconoscimento di un obbligo, in capo alla Corte, di effettuare il rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, par. 3, TCE (oggi art. 267, par. 3, TFUE) veniva giustificato nel 2008 dalla peculiare natura del giudizio in via principale, nel quale la Corte è ritenuta giudice non solo di ultima, ma di unica istanza, sia perché contro le sue decisioni non è ammessa alcuna impugnazione, sia perché in quel giudizio “manca un giudice a quo abilitato a definire la controversia” (punto 8.2.8.3. della sent. n. 102 del 2008).

Ora, nel caso del giudizio in via incidentale, sussiste solamente uno di questi due requisiti che portano a ritenere “di ultima istanza la sua giurisdizione”, tenuto conto che in capo al giudice a quo rimane sempre la facoltà (e in taluni casi l’obbligo) di farsi carico di effettuare il rinvio pregiudiziale. Seppure, in questa chiave, si potrebbe dubitare della piena equiparazione tra un giudizio che è e resta incidentale, qual è quello della Corte, ad un giudizio di unica (e quindi ultima) istanza, sembrerebbe che la questione sia stata risolta dalla stessa ordinanza n. 207 del 2013, secondo la quale “deve ritenersi che questa Corte abbia la natura di «giurisdizione nazionale» ai sensi dell’art. 267, terzo comma, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea anche nei giudizi in via incidentale”.

L’effetto che ne deriverebbe è, con tutta evidenza, quello di una Corte costituzionale sempre soggetta all’obbligo di effettuare il rinvio, con tutte le conseguenze problematiche che si possono immaginare in termini di irrigidimento dei rapporti (ancora esili ed incerti) tra le due Corti. Ciò nonostante, anche in questo caso il problema, rimasto finora tutto di definizione dell’identità del giudizio incidentale, può essere in fondo sdrammatizzato, come dimostrano le applicazioni pratiche successive al 2008, in cui non mancano casi in cui la Corte ha variamente richiamato, nei giudizi in via principale, le ipotesi previste dalla giurisprudenza della Corte di giustizia (in particolare le dottrine dell’acte claire e dell’acte éclairé) per sottrarsi all’obbligo di rinvio (ad es. sentt. nn. 439 del 2008 e 16 del 2010).


Il valore emblematico del superamento del giudicato nei conflitti intorno ai diritti in Europa. A margine del libro di Vincenzo Sciarabba, Il giudicato e la CEDU. Profili di diritto costituzionale, internazionale e comparato, CEDAM, 2012 (I-XXVII, 1-272)

A chi osservi la giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni in merito all’efficacia della CEDU nel diritto interno non può sfuggire come i percorsi di questa integrazione siano sempre più evidentemente segnati da conflitti di natura sistemica. Con essi intendo quei casi in cui alla Corte costituzionale, per il tramite delle relative questioni di legittimità, viene addossato l’onere di risolvere contrasti tra norme di legge e CEDU che si allontanano dal canone del giudizio di costituzionalità, perché l’input proveniente dal diritto convenzionale richiede un nuovo inquadramento di interi settori normativi ormai consolidati nell’interpretazione costituzionale e nell’applicazione giudiziaria, quando non una loro ricalibratura alla luce di nuovi termini e tecniche di bilanciamento. In questi casi appare costante, in altre parole, una vocazione delle singole questioni in giudizio a rimettere in discussione valutazioni e scelte ordinamentali il più delle volte connesse con la salvaguardia di interessi costituzionalmente rilevanti, che la Corte è sollecitata in vario modo a riconfigurare in modi nuovi rispetto al passato. E se ciò, in certa misura, avviene spesso nel giudizio di costituzionalità, la peculiarità di questi casi è che qui a venire in contatto sono propriamente le diverse grammatiche dei diritti veicolate dalle due Corti: diversità che può preludere ad un avvicinamento del diritto interno alla Convenzione nelle vesti di un riequilibrio di sistema del primo alla seconda, come anche al perdurare di contrasti (che nella giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni ha preso le sembianze del rinvio al “margine d’apprezzamento interno”).

Esempi di questi orientamenti possono essere fatti rinviando alla giurisprudenza sull’art. 6 CEDU e sul connesso (tendenziale) divieto di leggi di interpretazione autentica nonché sull’art. 7 CEDU e il connesso diritto a giovarsi della retroattività in mitius, in cui com’è noto persiste un contrasto tra le due Corti legato ad una radicale diversità di prospettive. Si possono poi richiamare casi che presto occuperanno la scena, come quello scaturente dalle condanne subite dall’Italia per violazione dell’art. 3 CEDU in ragione delle condizioni inumane in cui sono ridotti i detenuti (che ha spinto il Tribunale di Sorveglianza di Venezia, a seguito della sentenza pilota resa dalla Corte di Strasburgo nel caso Torreggiani c. Italia, a sollevare q.l.c. dell’art. 147 c.p. “nella parte in cui non  prevede, oltre ai casi ivi  espressamente  contemplati,  l'ipotesi  di  rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena quando essa debba svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanità”).

Il filone giurisprudenziale maggiormente rappresentativo di questo orientamento resta tuttavia quello legato al superamento del giudicato penale di condanna in quei casi in cui esso sia scaturito da un processo ritenuto non equo dalla Corte europea, in violazione dei dettami dell’art. 6 CEDU, su cui ad un riallineamento si è infine giunti con la nota sentenza n. 113 del 2011 della Corte costituzionale. Ed è proprio all’attenta analisi di questo filone, delle sue implicazioni costituzionalistiche come dei suoi riflessi comparatistici e internazionalistici, che è dedicato il recente volume di Vincenzo Sciarabba su “Il giudicato e la CEDU. Profili di diritto costituzionale, internazionale e comparato”. Da anni attento a misurarsi su questo tema, l’autore sceglie meritoriamente di legare innanzi tutto la prospettiva d’indagine incentrata sull’evoluzione registratasi nel diritto interno al complesso quadro che ha sorretto l’elaborazione, a livello internazionale, del principio che impone la restitutio in integrum del soggetto leso nelle sue garanzie processuali, da realizzarsi attraverso la nuova celebrazione del processo (imperniato, oltre che sulle pronunce della Corte, sulle risoluzioni del Comitato dei Ministri). Merita di essere segnalata, da questo punto di vista, l’attenta ricostruzione delle premesse interordinamentali che hanno guidato l’evoluzione interna sino alla citata sent. n. 113, in particolar modo quelle connesse al valore da attribuirsi agli artt. 41 e 46 CEDU, che hanno costituito le basi per assicurare l’efficacia del principio a livello interno e intorno alle quali si è venuta strutturando l’esigenza di superamento del giudicato interno, caratterizzato dall’attribuzione a tali articoli di una particolare efficacia “conformativa” delle decisioni degli organi di Strasburgo (p. 22). Alla luce delle notazioni svolte in apertura, appare infatti emblematica la proposta suggerita da Sciarabba di legare la nozione di “impossibilità giuridica interna imperativa” – che ad avviso del Comitato dei Ministri costituisce l’unica esimente possibile per gli Stati membri rispetto alla mancata restitutio in integrum della riapertura del processo – con il livello costituzionale dei relativi principi che osterebbero a tale soluzione, con l’accortezza, tuttavia, che “anche una simile limitazione ... potrebbe, in alcuni casi limite – che peraltro sarebbero proprio quelli in cui maggiormente si avvertirebbe l’esigenza di un controllo sovranazionale – rivelarsi insufficiente ai fini della piena tutela dei diritti fondamentali” (p. 27).

L’analisi dei profili costituzionali è attentamente condotta mettendo in luce innanzi tutto le diverse strade intraprese dai giudici interni al fine di soddisfare l’imperativo di tutela promanante dalle istituzioni europee e particolarmente interessanti appaiono, in questa chiave, le critiche che vengono rivolte ai tentativi condotti attraverso un’interpretazione analogica dell’art. 670 c.p.p. (sull’ineseguibilità del giudicato) e dell’art. 625-bis c.p.p. (ricorso straordinario avverso le sentenze di cassazione), come avvenuto rispettivamente nei casi Dorigo e Drassich. Soluzioni che, condivisibilmente, vengono ritenute insoddisfacenti sia perché appare assai flebile il collegamento analogico tra le ipotesi ivi contemplate e l’esecuzione delle decisioni europee, sia, soprattutto, perché esse lasciano insoddisfatto l’interesse sostanziale alla rinnovazione del processo (pp. 36 e 51). Su questo scenario, caratterizzato quindi da un legislatore colpevolmente inerte e da una giurisprudenza ordinaria coraggiosa ma forse priva di strumenti per adeguarsi pienamente alle istanze provenienti da Strasburgo (e questo dato potrebbe forse mitigare alcune delle critiche rivolte alle pronunce in questione), l’intervento della Corte costituzionale (affidato alla già ricordata sent. n. 113 del 2011) ha rappresentato, ad avviso dell’autore, un’occasione “epocale” per far prevalere le ragioni della tutela dei diritti fondamentali rispetto ad esigenze di tenuta sistematica degli istituti processuali. In questa chiave, un’attenzione particolare è dedicata alle peculiarità della tecnica decisionale impiegata in quell’occasione, “dotata, dal punto di vista logico-giuridico, di caratteri in parte autonomi rispetto a quella che si concretizza nelle altre sentenze additive (sia quelle tradizionali, sia anche, per certi versi, quelle di principio), proprio per la sua maggiore ecletticità operativa e per il suo svincolarsi in maniera massima da valutazioni relative alla violazione di principi di eguaglianza, ragionevolezza e parità di trattamento di situazioni analoghe” (p. 64). Un esito decisionale, quello della peculiare pronuncia additiva cui la Corte ha fatto ricorso in quel caso, dietro il quale si celano problemi effettivamente molto complessi, primo fra tutti la conformazione che la nuova ipotesi di revisione dovrà avere: problemi che in parte la Corte ha risolto mediante le indicazioni operative rivolte ai giudici, ma che in parte restano affidate proprio a questi ultimi e all’interlocuzione che questi sono chiamati ad avere con gli organi europei quanto all’apprezzamento dei presupposti perché si dia la riapertura del processo (su cui Sciarabba si sofferma con attente precisazioni a p. 73).

La parte centrale del volume è poi dedicata, sulla base dell’analisi svolta sino a quel punto, ad indagare le soluzioni accolte in tutti gli ordinamenti dei quarantasette paesi membri della CEDU in merito ad una serie di aspetti problematici che Sciarabba isola e distingue attraverso una scomposizione dei momenti, dei presupposti e degli effetti della complessiva procedura di riapertura del processo richiesta dagli organi di controllo europei, mostrando in ciò una notevole padronanza del metodo di indagine comparatistica di natura tipologica. L’esito della ricerca comparata è di notevole interesse, soprattutto tenendo conto del fatto che “pressoché tutti, se non proprio tutti, i paesi aderenti alla CEDU hanno conosciuto nella prassi giurisprudenziale e/o specificamente disciplinato nei propri testi legislativi e/o considerato in via di principio ammissibili forme di riapertura del giudicato a seguito di decisioni della Corte di Strasburgo” (pp. 166-167). A partire dalla ricchezza e multiformità delle soluzioni accolte nei vari paesi, vengono ricostruiti i tratti comuni e i principali problemi applicativi riscontrati a partire dai singoli tratti della disciplina della riapertura, così come precedentemente isolati. Per fare un esempio tra i molti spunti che provengono dalla ricerca, tenendo anche conto delle prospettive che su questo punto dischiude la sent. n. 113 del 2011, ricordo solamente quello relativo al novero dei soggetti che possono beneficiare dell’effetto “espansivo” delle sentenze europee che hanno accertato una violazione: è possibile, e se sì in che termini, che a beneficiarne siano soggetti che non abbiano fatto ricorso ma che si trovino nelle stesse condizioni di un loro connazionale che ha fatto ricorso con successo alla Corte europea? E se la violazione, in situazioni ed in termini analoghi, è stata riscontrata nei confronti di un soggetto che ha fatto ricorso avverso un diverso Stato membro?

Da questo e dai molti altri spunti che vengono al lettore si può desumere quanto un simile orientamento rappresenti uno degli aspetti centrali e più interessanti dell’intera ricerca, perché consente di vedere all’opera un’attenta indagine microcomparatistica (ma con importanti riflessi “di sistema”) volta all’individuazione degli aspetti maggiormente problematici del rimedio forgiato dagli organi europei, per come essi sono stati rielaborati a livello nazionale, con l’obiettivo di enucleare – a partire dai risultati acquisiti – dei punti fermi da cui muovere nell’adozione di una normativa interna che nel nostro ordinamento, malgrado i molti disegni di legge presentati, è ancora assente.

In conclusione, quella su “Il giudicato e la CEDU” rappresenta una ricerca doppiamente interessante per il lettore attento alle vicende dell’attuazione e della garanzia dei diritti. Da un lato, perché ha ad oggetto una vicenda sicuramente paradigmatica delle difficoltà dell’integrazione tra diritto interno e sovranazionale, che però al tempo stesso mostra la ricchezza e la molteplicità dei canali di dialogo e di interazione tra gli attori coinvolti. Dall’altro lato, perché rivela brillantemente quanto anche in una materia tradizionalmente ritenuta coessenziale alle prerogative più riposte della sovranità statale come la firmitas del giudicato, l’imperativo della tutela dei diritti sia in grado di affermarsi in presenza di un’attività di lenta e complessa elaborazione di un principio comune di garanzia.

 


Ancora sull’ordinanza n. 150 del 2012 della Corte costituzionale: alcune ragioni per fare di necessità virtù.

Il contributo di Antonio Ruggeri pubblicato nei giorni scorsi su diritticomparati.it ha messo in luce i più rilevanti profili critici che emergono dalla lettura dell’ordinanza n. 150 del 2012, con cui – lo ricordo – la Corte costituzionale ha restituito gli atti ai tre tribunali rimettenti (Firenze, Catania e Milano) che avevano sollevato la questione di legittimità costituzionale delle norme della legge n. 40 del 2004 che vietano la fecondazione eterologa. Restituzione motivata dalla Corte richiamando lo jus superveniens costituito dalla decisione della Grande Camera della Corte di Strasburgo del 3 novembre 2011, S.H. et autres c. Autriche, con cui è stata ribaltata la decisione di accoglimento adottata dalla prima Sezione della Corte nel 2010 la quale, in vario modo, era stata largamente richiamata dalle tre ordinanze introduttive a supporto dell’incostituzionalità della normativa interna.

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Il sindacato sulle revisioni costituzionali tra teoria e comparazione. In margine ad un recente libro di Sabrina Ragone

È un tema formidabile quello preso in esame nella recente monografia di Sabrina Ragone, I controlli giurisdizionali sulle revisioni costituzionali. Profili teorici e comparativi (Collana “Ricerche di diritto comparato”, Bononia University Press 2011, 203 pp.), e non solo perché interseca una serie di problemi centrali del dibattito costituzionalistico moderno, dalle metamorfosi del potere costituente al continuo riassestarsi dei rapporti tra potere legislativo e corti costituzionali. Il merito dell’autrice sta nell’aver ripreso temi così ampi e complessi ed aver applicato ad essi gli strumenti epistemologici della ricerca comparatistica, che finora si era occupata solo incidentalmente del problema, proponendo da par suo una ri-classificazione delle funzioni dei tribunali costituzionali prendendo come parametri di riferimento il fondamento, le modalità di esercizio ed i limiti del sindacato da parte di questi ultimi sulla costituzionalità delle revisioni costituzionali.

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Il triangolo andrà considerato. In margine al caso Scattolon

Soprattutto dopo che la Corte di Strasburgo, il 14 dicembre u.s., ha reso noto il rigetto della domanda di rinvio alla Grande Camera avanzata dall’Italia in relazione alla ormai nota sentenza Agrati¸ diventa ancora più importante riflettere sulla portata e sul significato della querelle riguardante il trattamento retributivo del personale scolastico ATA, considerato che da essa sono venuti contributi importanti all’assestamento dei rapporti tra ordinamento italiano e sistemi comunitario e CEDU.

L’intera vicenda, forse lo si ricorderà, muove dalla decisione del legislatore italiano nel 1999 (presa con l’art. 8 della legge n. 124) di trasferire alle dipendenze dello Stato il personale scolastico ATA sino a quel momento alle dipendenze degli enti locali, previo riconoscimento a fini giuridici ed economici dell’anzianità maturata presso l’ente di provenienza.

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You can even do what I do. L’annullamento di atti delle istituzioni comunitarie per violazione di diritti fondamentali nella recente giurisprudenza della Corte di giustizia

Uno dei tradizionali cavalli di battaglia dei critici della Corte di giustizia riguarda la riluttanza di quest’ultima ad annullare atti delle istituzioni comunitarie per lesione dei diritti fondamentali. Omissione ritenuta tanto più grave, quanto più invece la Corte non ha mai mancato di colpire, per la stessa ragione, gli atti degli Stati membri. Ed anche se questa riluttanza è stata spiegata con la difficoltà di invalidare atti promananti da organi che offrivano una sponda “istituzionale” all’opera di progressiva comunitarizzazione dei diritti nazionali, essa non poteva non esporre i giudici comunitari all’accusa di ipocrisia avanzata da tanta parte della dottrina (“don’t do what I do, do what I tell you to do”, secondo la formula di Joseph Weiler, ma con lui v. anche Mancini, Pinelli e Cartabia).

In ogni caso, se un orientamento del genere poteva ancora comprendersi in una fase in cui la tutela dei diritti non aveva assunto, almeno formalmente, un’autonoma consistenza rispetto alle finalità dei Trattati, esso si rivela difficilmente difendibile in una fase in cui, parafrasando la celebre formula di Bogdandy, i diritti si insediano nel cuore dell’ordinamento comunitario.

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Prove di "entente cordiale" tra le due Corti europee

Il 24 gennaio di quest’anno, a seguito di uno dei sempre più frequenti incontri informali tra le delegazioni delle due Corti europee di Strasburgo e Lussemburgo, i Presidenti Costa e Skouris hanno rilasciato il comunicato congiunto che segue, tradotto in italiano per agevolarne la lettura ai visitatori di www.diritticomparati.it.

Il comunicato interviene nel corso delle trattative diplomatiche sull’adesione dell’UE alla CEDU – avviate, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il 7 luglio del 2010 con le prime consultazioni tra la Commissione europea e il Consiglio d’Europa – per manifestare l’opinione delle due Corti sui fronti dell’interpretazione della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e della sussidiarietà procedurale tra giudizio comunitario e giudizio convenzionale.

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Gli Stati signori dei propri bilanciamenti? A proposito di una recente sentenza della Corte di Strasburgo in tema di aborto

La conformità alla CEDU della normativa nazionale irlandese in tema di aborto torna all’attenzione della Corte di Strasburgo, diciotto anni dopo il caso Open Door, nella recente decisione della Grande Camera del 16.12.2010 nel caso A. B. and C. v. Ireland (ric. n. 25579/05).

La controversia, ora come allora, nasce dalla circostanza che l’art. 40.3.3 della Costituzione irlandese prevede un divieto di interruzione di gravidanza, i cui contorni – soprattutto in relazione ai limiti cui questo divieto va incontro quando viene in questione la salute o la vita stessa della madre – non sono stati fino ad oggi chiariti in nessuna norma di attuazione. Di conseguenza, essi sono rimasti affidati ad una giurisprudenza oscillante che, oltre a questa difficoltà, si è trovata a dover fare i conti una normativa penalistica risalente, particolarmente severa nei confronti di qualsiasi ipotesi di aborto volontario. Altrettanto incerta, poi, è stata la sorte dei due emendamenti al testo costituzionale approvati in seguito all’adozione della citata sentenza Open Door: per porre rimedio alla violazione dell’art. 10 CEDU, che come si ricorderà discendeva dal divieto di pubblicizzare l’attività di cliniche operanti in altri stati e che praticavano operazioni non disponibili in Irlanda, è stata riconosciuta la possibilità di espatrio alle donne incinte e la possibilità di ottenere in patria informazioni su dove e come abortire in un altro paese. Alla proclamazione nel testo costituzionale non ha fatto tuttavia seguito, anche in questo caso, una legislazione di attuazione e, soprattutto, è mancata una prassi amministrativa rivolta a conciliare in modo coerente la possibilità di andare all’estero per abortire, da un lato, con la fitta rete di controlli sanitari e discipline di polizia che gravano sulle donne che manifestano la volontà di abortire.

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Il punto su dialogo e comparazione. Osservazioni su "Oltre il dialogo tra le Corti" di Giuseppe de Vergottini (e un invito al dibattito...)

Il dibattito costituzional-comparatistico della seconda metà degli anni duemila è stato in larga parte segnato dai Leitmotive del dialogo tra i giudici e della comparazione come vettore di constitutional conversations. Dopo un’iniziale fase di assestamento, gli ultimi esiti del confronto non sembrano tuttavia indenni da una certa ridondanza, se solo si tiene conto che sotto questo cappello si tende sempre più spesso a far rientrare temi e problemi molto diversi tra loro. Sul filone di studi più risalente, quello riconducibile alle transjudicial communications (penso agli studi pionieristici di Anne Marie Slaughter), si sono infatti via via innestati i problemi connessi al superamento del paradigma originalistico nella giurisprudenza statunitense, alla creazione di reti dialogiche tessute da corti supreme e costituzionali di paesi di recente democratizzazione (il Sudafrica tra tutti, ma anche le nuove corti est-europee), sino ad arrivare al peculiare atteggiamento dialogante e comparativo delle corti sovranazionali, come la Corte di Strasburgo, quella di Lussemburgo o quella interamericana. Ed anche sugli stessi argomenti, le prospettive d’indagine più strettamente comparatistiche si intersecano in modo sempre più evidente con quelle politologiche e con quelle più lato sensu teoriche: solo per stare al terreno europeo, basti pensare alle matrici diversissime degli studi di Alec Stone Sweet o di Mireille Delmas-Marty sul pluralismo giurisdizionale in Europa.
Uno scenario intricatissimo, quindi, in cui si sono incrociate e sovrapposte prospettive d’indagine molto diverse, spesso acriticamente accomunate dall’essere riconducibili ad un “dialogo” tra corti o all’”uso del comparato” da parte del giudice, sia esso nazionale o sovranazionale, ordinario o di costituzionalità. Va quindi salutato con estremo interesse Oltre il dialogo tra le Corti. Giudici, diritto straniero, comparazione (il Mulino, Bologna, 2010, pp. 217, euro 22), il volume che Giuseppe de Vergottini ha recentemente dedicato a questi argomenti ed in cui si propone di cartografare il dibattito degli ultimi anni al fine di – per stare ancora alla metafora nautica – fare il punto della situazione e individuare le linee di sistematizzazione dei molti e complessi problemi ancora aperti.

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