La Corte costituzionale e l’accesso (negato) della donna single alla pma
Con la sentenza n. 69 del 22 maggio 2025, la Corte costituzionale è stata chiamata a valutare la legittimità dell’art. 5 della legge n. 40 del 2004, nella parte in cui esclude l’accesso alla procreazione medicalmente assistita (d’ora in poi ‘pma’) per le donne senza marito o partner convivente. La questione è stata sollevata, nell’ambito di una lite (poco) strategica dell’Associazione “Luca Coscioni”, dal Tribunale di Firenze (ordinanza n. 193/2024), nel contesto del ricorso proposto da una donna – E. B. – cui un centro pma aveva rifiutato l’avvio del trattamento per mancanza del requisito di coppia eterosessuale, richiesto dalla norma. Nel caso di specie, però, si bypassa il requisito oggettivo di accesso alla pma ex art. 4 della legge 40, tanto che la stessa Corte costituzionale osserva che «il petitum formulato dal giudice a quo non è riferibile ai soli casi di sterilità o infertilità patologica ovvero a quelli di trasmissibilità di malattie genetiche da parte di donne singole ed esclude, comunque, di poter delimitare un proprio eventuale intervento a donne che versino in dette situazioni» (par. 7 considerato in diritto). Fra le righe della Corte, mi pare, si possa intravedere la possibilità di un esito differente per l’ipotesi, circoscritta, in cui concretamente una donna single si trovi in una impossibilità patologica di avere figli…ergo una prossima lite strategica potrebbe tentare di porsi in questo specifico perimetro indicato dai giudici costituzionali stessi. Invero, a parità di patologia della singola donna, il bilanciamento sul diritto alla salute (e non già all’autodeterminazione) renderebbe particolarmente irragionevole la discriminazione fra donna con e donna senza partner maschile.
La disposizione impugnata (art. 5) prevede, ad ogni modo, che possano accedere alle tecniche di pma solo “coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi”, escludendo esplicitamente le persone singole. Tale esclusione è stata contestata in riferimento agli articoli 2, 3, 13, 32 e 117 della Costituzione, nonché agli articoli 8 e 14 della CEDU e agli articoli 3, 7, 9 e 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, per il contrasto con il diritto all’autodeterminazione procreativa, alla salute, all’eguaglianza e al rispetto della vita privata.
I giudici costituzionali hanno dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge n. 40/2004 in riferimento agli artt. 13 e 117, primo comma, Cost., e infondate le questioni di costituzionalità del medesimo articolo della legge n. 40 in riferimento agli artt. 2, 3, 32 e 117, primo comma, Cost.
Il caso solleva una questione di fondo che trascende il singolo dato normativo: se l’accesso alla genitorialità, in un contesto in cui la tecnologia medica lo rende possibile anche al di fuori del modello di coppia, debba continuare a essere subordinato a una visione normativa eterosessuale e bigenitoriale della famiglia. In particolare, ciò che è in gioco è la possibilità per le donne singole di diventare madri mediante pma, senza dover necessariamente simulare o instaurare una relazione di coppia per soddisfare un requisito normativo che molti ritengono superato dalla realtà sociale (Aa.Vv., 2004).
Lo scollamento fra legge n. 40/2004 e Paese reale, invero, emerge cristallinamente dai dati fotografati di recente dall’ISTAT, secondo cui oltre il 10% delle famiglie italiane è oggi composto da madri sole, per un totale che supera i 2,2 milioni di nuclei (vedi G. Cannizzaro, 2025). Ciò impone una riflessione critica sul disallineamento fra la rappresentazione normativa della famiglia contenuta nella legge n. 40/2004 e le configurazioni familiari effettivamente esistenti nella società contemporanea. Tale dato non è solo una statistica: è la materializzazione di un mutamento profondo nelle relazioni di cura, che ha ormai definitivamente tolto il primato al paradigma della famiglia nucleare eterosessuale fondata sul matrimonio, dislocandolo dal centro della normatività giuridica.
La crescita delle famiglie monogenitoriali, e in particolare delle madri sole, non rappresenta un’anomalia da contenere ma una figura strutturale del diritto di famiglia contemporaneo, ove spesso la stessa conflittualità e violenza subita spinge le donne a crescere da sole i propri figli (su come la violenza domestica abbia finito per investire direttamente i rapporti – intergenerazionali e di genere – fra i membri delle famiglie in quanto individui e i loro diritti fondamentali, dall’incolumità psico-fisica, alla salute, alla dignità cfr. diffusamente il volume curato da M. R. Marella, 2025a).
Il fenomeno è diffuso nei Paesi della Tradizione giuridica occidentale ed ormai ben conosciuto e approfondito dalla dottrina giuridica nordamericana, che ha mostrato come nei contesti segnati da crescente disuguaglianza e precarietà maschile, le donne – in particolare nei ceti medi e popolari – optino sempre più spesso per la maternità fuori dal matrimonio e dalla convivenza come strategia di resilienza. Lungi dall’essere una scelta ‘egoistica’, si tratta di una forma di investimento responsabile in sé stesse e nei figli/nelle figlie, in risposta alla scarsità di partner affidabili e alla destrutturazione del modello di “padre breadwinner” (cfr. N. Cahn-J. Carbone, 2015).
La norma della legge n. 40/2004, espressione di (bio)politica del diritto, che nega alla donna single la possibilità di ricorrere alla pma, pur a fronte di una società che legittima e protegge milioni di madri single, produce una frattura interna al discorso giuridico, che da un lato riconosce e tutela sempre più la monogenitorialità nei suoi effetti (economici, assistenziali, educativi), ma dall’altro la stigmatizza nella sua origine, ponendola al di fuori dei confini della generazione autorizzata.
Ciò che viene in gioco non è, evidentemente, solo il diritto della donna all’autodeterminazione, ma la possibilità stessa di decostruire un ordine simbolico che continua a produrre vulnerabilità ed esclusione. La retorica del “figlio con un padre e una madre” non è che il volto più pervasivo di una normatività familiare che sopravvive grazie alla sua capacità di invisibilizzare ogni altro possibile progetto di cura e di filiazione. Le donne senza partner, in questo quadro, sono figure eccedenti, che rompono la finzione dell’ordine familiare patriarcale come spazio esclusivo della coppia o, meglio, del padre.
La Corte costituzionale tuttavia, pur riconoscendo la rilevanza delle questioni sollevate, ha scelto di non dichiarare l’illegittimità della norma, ribadendo l’assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata in materia di bioetica e procreazione assistita (come già fatto rispetto alla medesima richiesta da parte della coppia di donne nella sentenza n. 221/2019), e di conseguenza riconoscendo al legislatore un ampio margine di configurazione delle opzioni regolative, anche alla luce del margine di apprezzamento ammesso dalla Corte EDU in decisioni come S.H. c. Austria (2011).
La sentenza n. 69/2025 rivela, in filigrana, la persistenza di una concezione condizionata del diritto alla genitorialità, subordinata non tanto alla responsabilità individuale o alla capacità di cura (come pur farebbe credere il diverso e coraggioso orientamento espresso nella sentenza n. 68/2025), quanto alla conformità con un modello normativo di famiglia fondato sulla coppia eterosessuale. Modello che risulta patriarcale nella stessa motivazione della sentenza n. 69, dove il padre viene evocato non per la sua presenza effettiva o relazionale, ma come necessità strutturale dell’ordine procreativo legittimo: l’interesse del minore, in tal senso, non è determinato dalla relazione reale ma dalla sua compatibilità con la coppia eterosessuale, in cui la figura paterna – anche solo in potenza – deve presiedere l’atto generativo. La Corte costituzionale è saldamente legata alla ‘presenza’ del padre, il quale occorre ci sia davvero solo al momento del consenso informato ex art. 6 legge n. 40/2004, dato che una volta formato l’embrione esso non può revocare il consenso e la sua responsabilità genitoriale rimane giuridicamente ben fissa, anche qualora di fatto sparisse dalla vita del/la minore (vedi Corte cost., sentenza n. 161/2023, sulla quale cfr. S. Niccolai, 2023, in questo blog).
Riconoscere alle donne senza partner il diritto di accedere alla pma avrebbe significato non solo sanare una disparità formale che ostacola il libero sviluppo di alcune donne, ma anche disarticolare il dispositivo stesso che produce tale disuguaglianza, nonché restituire alla maternità la sua dimensione autodeterminata, sottraendola all’obbligo eteronormativo della coppia.
La conseguenza di questo modello idealizzato e tenacemente difeso è, però, una netta divisione fra la produzione normativa dello status filiationis e il governo politico della riproduzione: da un lato, una giurisprudenza costituzionale e un seppur tardivo legislatore che riconoscono e proteggono la pluralità dei modelli familiari (dalla sentenza Corte cost., n. 138/2010 alla legge n. 76/2016, e in parte nella stessa sentenza n. 68 della Corte cost.); dall’altro, un sistema di accesso alla genitorialità (tanto medicalmente assistita che sociale ex legge n. 184/1983) rigidamente selettivo e orientato in senso biopolitico (M. R. Marella, 2000; da ultimo cfr. B. Liberali, 2025). La Corte costituzionale, pur consapevole di tale asimmetria, si limita a sollecitare il legislatore a intervenire, come già avvenuto in passato, senza però esercitare una pressione che metta effettivamente in crisi il modello patriarcale escludente incorporato nella legge n. 40/2004.
In tal senso, anche la pronuncia n. 68 della Corte, pur significativa (cfr. A. Schillaci, 2025, in questo blog), appare ancora inscritta in un paradigma giuridico che distingue fra ‘minori da proteggere’ e ‘genitori da contenere’, impedendo una piena riconciliazione fra autodeterminazione riproduttiva e responsabilità genitoriale. È proprio in questa frattura che si rivela la persistenza di un ordine simbolico eterosessuale, che continua a strutturare le politiche della riproduzione e a selezionare – giuridicamente – quali famiglie sono meritevoli di tutela ex ante e quali solo di riconoscimento condizionato al vaglio giurisdizionale.
Ordine simbolico che, difatti, resta il punto fermo della motivazione della sentenza n. 69/2025, motivazione che, in particolare, ruota attorno a un impiego prudenziale del principio di precauzione, secondo cui il legislatore del 2004 avrebbe legittimamente voluto garantire al nascituro la prospettiva di crescere in una famiglia “ad instar naturae”, fondata sulla dualità sessuale.
Nel confronto con la sentenza n. 68/2025, che invece riconosce lo status filiationis del figlio nato in Italia da pma eterologa effettuata all’estero da coppia omogenitoriale femminile, emerge una contraddizione non solo logica ma sistemica. In quel caso, la Corte ha valorizzato la realtà relazionale esistente e ha affermato il diritto del minore a un’identità giuridicamente coerente con il proprio vissuto familiare. Nel caso della donna single, invece, il progetto procreativo è trattato come astratto, potenziale, subordinabile all’interesse pubblico e alla discrezionalità legislativa (sull’utilizzo “a fisarmonica” dell’argomento della discrezionalità del legislatore da parte della Corte costituzionale cfr. A. Ruggeri, 2025). Ne risulta una asimmetria di tutela che sancisce, implicitamente, una gerarchia di legittimità fra diverse forme di maternità e nega alcune soggettività.
Alla luce di ciò, emerge con chiarezza come il diritto di famiglia contemporaneo non sia un ambito neutro di regolazione delle relazioni affettive, ma un luogo di produzione e articolazione del potere e delle soggettività (M. R. Marella, 2025b), dove si decidono riconoscibilità, legittimità, visibilità: chi può essere figlio, chi può diventare genitore, chi deve attraversare confini, chi è riconosciuto dall’ordinamento, chi invece resta sospeso in una zona grigia.
L’assenza o la presenza concreta del/la minore (o anche solo dell’embrione: vedi ancora Corte cost. n. 161/2023) è l’unico criterio che permette di trovare una – seppur fragile – coerenza non solo fra le sentenze n. 68 e 69, ma anche con la recente decisione assunta nella sentenza n. 33/2025, relativa all’adozione internazionale da parte di una persona single, in cui la stessa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 29-bis, comma 1, della legge n. 184 del 1983, nella parte in cui non include le persone singole fra coloro che possono adottare un minore straniero residente all’estero. La ratio della decisione 33, difatti, risiede nell’argomento secondo cui l’interesse del minore (esistente) a trovare una famiglia è talmente fondamentale da non poter essere pregiudicato da un’esclusione basata unicamente sullo stato civile del potenziale adottante. L’importante è che chi adotta sia idoneo, indipendentemente dal fatto che sia coniugato o single, e questa idoneità viene, d’altra parte, accertata in concreto dall’autorità giudiziaria.
Nella sentenza 33/2025, allora, l’interesse del minore agisce in senso diametralmente opposto di quanto fa nella decisione n. 69: non più come argine preventivo all’accesso alla genitorialità, ma come clausola correttiva delle rigidità normative, capace di legittimare soluzioni eccezionali nel nome della solidarietà e della protezione effettiva del/la minore nato/a (si veda M. R. Bianca, 2025).
Viceversa, nella sentenza n. 69/2025 si legittima, oltre che il turismo procreativo che a breve vedremo, anche un effetto simbolico perverso che finisce per comportare la non nascita di minori, dato che il/la minore non ancora nato/a (né ‘concepito’ in embrione) è proiettato/a in una dimensione ideale, immaginata e rigidamente conforme a un modello di famiglia “ad instar naturae”: se tale contesto non è garantito dall’inizio del progetto genitoriale, la soluzione ritenuta più tutelante è paradossalmente …la non-nascita.
Si produce così una distorsione profonda: il principio dell’interesse del minore, tradizionalmente rivolta alla salvaguardia concreta di soggetti già esistenti, viene utilizzata per negare la possibilità stessa della nascita, in assenza di requisiti relazionali e strutturali imposti ex lege.
Nello stesso momento i dati ISTAT ci restituiscono l’immagine di una Italia che invecchia e dove si cristallizza il progressivo calo delle nascite (vedi ISTAT, Indicatori demografici 2024, 31 marzo 2025): la contrazione dei tassi di natalità, aggravata dalla crescente instabilità economica, dalla precarizzazione del lavoro e dalla trasformazione dei modelli familiari, pone in crisi il presupposto implicito della sentenza n. 69/2025, secondo cui sarebbe legittimo escludere dalla pma le donne single per ragioni di ordine precauzionale. La narrazione giuridica che si rifugia nel principio di precauzione – invocando la necessità di garantire al nascituro “le migliori condizioni possibili” secondo un modello familiare idealizzato – risulta quindi fortemente disallineata rispetto alla realtà sociale. I dati mostrano che la natalità è in costante calo da oltre un decennio, e che questa tendenza è particolarmente accentuata fra le donne in età fertile che si trovano fuori da relazioni stabili o eterosessuali. In questo contesto, il divieto normativo si traduce non solo in una compressione della libertà riproduttiva, ma anche in una scelta di policy regressiva, che ostacola l’unico segmento demografico potenzialmente in grado di invertire la tendenza: donne adulte, autonome, spesso culturalmente e professionalmente qualificate, che intendono assumersi volontariamente e consapevolmente la responsabilità di un progetto genitoriale.
Ed allora, se come ci ricorda condivisibilmente Silvia Niccolai (op. cit.) «scegliere la vita invece della morte non è una scelta tragica», nella sentenza 69, invece, la Corte costituzionale compie proprio una tragic non-choice.
Sotto altra prospettiva, poi, la discriminazione che la Corte costituzionale non rileva non si esaurisce nella violazione dell’uguaglianza fra donne con partner e donne single. Essa si amplifica quando si considera il piano materiale: l’esclusione dall’accesso alla pma in Italia spinge le donne single che ne hanno i mezzi economici a ricorrere a centri esteri, dove il trattamento è consentito. Si ricrea e si incentiva, insomma, un “turismo del diritto” che conduce a forme censitarie di cittadinanza (S. Rodotà, 2009, p. 68 ss.). Chi non dispone di risorse economiche e/o culturali è costretta a rinunciare al proprio progetto genitoriale, con ripercussioni psicologiche spesso molto gravi. Di ciò i giudici ne sono consapevoli, ma liquidano l’argomento col sostenere che tale lamentela «non è imputabile alla disciplina statale censurata, ma è semmai la naturale conseguenza della presenza di legislazioni straniere che dettano differenti regole».
Resta l’incapacità politica e istituzionale di riconoscere, da una parte, che nell’attuale assetto costituzionale le aspirazioni personali dei membri delle famiglie, anche in campo riproduttivo, sono sempre meno subordinate a interessi pubblici e sempre più espressione di libertà (G. Ferrando, 1999), e dall’altra parte che la genitorialità oltre il binarismo eterosessuale non è un orizzonte futuro, ma è una realtà già esistente che il diritto deve imparare a rendere visibile.
Tanto la sentenza n. 68 che la n. 69 del 22 maggio 2025 della Corte costituzionale ci restituiscono allora la complessità di una transizione ancora incompiuta, che segna un ulteriore passaggio nel conflitto giuridico e culturale fra i modelli familiari emergenti e una tradizione giuridica che si ostina a proiettare l’idealtipo della famiglia coniugale eterosessuale come unico orizzonte legittimo del diritto della filiazione e della genitorialità.
La Corte costituzionale, pur consapevole di tale tensione, sceglie di non scioglierla, demandando ancora una volta al Parlamento il compito di restituire coerenza costituzionale a un’area del diritto civile che, nella sua forma attuale, si fa veicolo di esclusione più che di tutela.
Con tutto ciò che comporta, hic et nunc, il rinvio al legislatore in materia di diritti civili e sociali.