Pensieri intorno al volume a cura di Angelo Schillaci “Omosessualità, eguaglianza, diritti” (Carocci editore, Studi superiori, Roma, 2014)

Il lavoro del “curatore” di un volume solitamente non viene apprezzato. Credo che ciò sia dovuto al fatto che il curatore in genere si limita a mettere insieme scritti prodotti intorno a un certo tema. Insomma, il curatore spesso non assolve compiutamente al suo ufficio. Tutto ciò non accade nel caso di Angelo Schillaci, cui va dato subito il merito non solo di sollecitare il lettore con alcune riflessioni autografe contenute nel volume “Omosessualità, eguaglianza, diritti” (Carocci editore, Studi superiori, Roma, 2014), ma di aver strutturato in qualità di curatore un volume corale, in cui da diverse prospettive e con diverse competenze vengono affrontati temi di notevole portata teorica. Leggendo il libro si avverte il lavorio, il pensiero condiviso di chi lo ha realizzato, l’impegno comune come lo definisce icasticamente il curatore nella Premessa, dal momento che questo è un libro che nasce da un’urgenza e da un impegno (p. 17).

L’urgenza (sociale) è quella di dare risposta come studiosi del diritto ai bisogni delle persone e delle famiglie che esse formano. In tutta la prima pagina dell’introduzione non una volta al termine persona e famiglia viene associato l’attributo “omosessuale”. Per trovare questo aggettivo bisogna aspettare cinque pagine. Si dirà: visto il titolo tanto esplicito del volume, sarebbe stato pleonastico precisare l’orientamento sessuale dei soggetti di cui si tratta. Ma l’obiezione non convince. Non è dato sapere se sia stata una scelta consapevole dell’Autore della Premessa, sicuramente però dice molto – fin dalla prima pagina – dell’ottica che lui stesso e il suo gruppo di lavoro hanno scelto. In tutto il volume, non si dimentica mai un dato primigenio, che molti stentano a comprendere e i più tendono a omettere: gli omosessuali e le famiglie che essi formano, sono persone e famiglie come le altre, con gli stessi bisogni e le stesse istanze di tutela. Sono persone e sono famiglie che non possono essere escluse dalla società e quindi dal diritto in quanto marchiate da un certo orientamento sessuale, perché ciò ripugna al concetto di dignità che ha informato di sé a partire dal secondo dopoguerra (esplicitamente o implicitamente) tutte le Carte dei diritti nazionali e sovranazionali. Eppure, allo stato attuale nel nostro Paese, queste persone e queste famiglie possono riconoscersi nell’ordinamento giuridico solo fino a un certo punto: sono lavoratrici e lavoratori, soggetti attivi nella comunità politica, titolari di diritti e di doveri, ma … solo fino a un certo punto (p. 17). L’urgenza, dunque, è quella di colmare un vuoto di tutela, un bisogno di riconoscimento, nella drammatica consapevolezza che migliaia di persone reclamano un’attenzione immediata incompatibile con i tempi lunghi degli esercizi di potere del Palazzo.

L’impegno (metodologico) si incentra nel tentativo di aprire il metodo giuridico alla considerazione dell’esperienza, della pluralità di situazioni concrete che danno corpo, in una materia come quella da lui affrontata, alla fenomenologia dell’umana dignità (p. 19). Il tema prescelto da questo punto di vista è uno dei tanti temi che oggi il giurista ha sul tavolo. Diversi tra loro per le dimensioni esistenziali che evocano, ma accomunati da una caratteristica: la materialità, la fattualità prorompente che mette in crisi le geometrie del diritto (fecondazione medicalmente assistita, diritti dei malati terminali, tutela internazionale dei migranti, disoccupazione, intersessualità, condizione degli anziani, lavoro minorile, schiavitù sessuale, e purtroppo si potrebbe continuare lungamente). E qui si intenda il “diritto” come un aspetto della cultura di una società, che gli steccati disciplinari non riescono a contenere. Probabilmente un libro come quello che ci ha offerto il privilegio di leggere, Angelo Shillaci non avrebbe potuto scriverlo da solo. Questi temi sollevano questioni che possono essere compiutamente affrontate solo con quelle interazioni (p. 20) che si sperimentano nel volume. E così la riflessione costituzionale esonda dai confini statali in un’ottica comparatistica capace di arricchire in maniera decisiva i percorsi di riconoscimento di differenti itinerari di esperienze di vita e, con essi, la costruzione dei processi di integrazione della comunità politica che ruotano attorno alla Costituzione (p.21). Il metodo comparatistico diventa gesto di apertura all’esperienza, attualizzando l’invito di un Autore che per primo ha indicato la proficuità di questo percorso rispetto al tema indagato nel volume[1]. Convitati dal curatore sono altresì il penalista, l’internazionalprivatista, lo studioso di diritto dell’Unione europea, lo studioso straniero, perché ci racconti in presa diretta le questioni nuove che si aprono in un Paese come la Spagna che ai nostri occhi sembra aver già risolto ogni dubbio giuridico in materia, segno che il diritto compartecipa alle dinamiche della storia di una società e non tollera la parola fine. Se facessi notare l’assenza del civilista potrebbe sembrare una difesa corporativa. Non è questo il motivo per cui evito di farlo. L’assenza del civilista è purtroppo emblematica.  La maggior parte dei cultori del diritto civile ormai svolge con scrupolo solo la funzione di chiosatore di testi legislativi o giurisprudenziali, dimenticando completamente la dimensione sapienziale del diritto. Diversamente da chi ha ideato il volume che ci occupa, essi trascurano che il diritto, per la sua tensione a incarnarsi, prima di essere potere, norma, sistema di categorie formali è esperienza, è cioè una dimensione della vita sociale[2].

Forse lo si può dire di ogni libro, ma sfogliando le pagine di Omosessualità, eguaglianza, diritti,  si ha l’impressione – anche per la completezza e la quantità dei materiali che documentano le riflessioni degli Autori – che un libro così non poteva essere scritto in un momento diverso. È figlio del suo tempo, verrebbe da dire. E ciò nonostante non si pone al di fuori del tempo (basti solo il cenno al saggio di Francesco Saitto, su cui tornerò più avanti) né si limita a prendere atto supinamente del tempo che scorre.

Due idee percorrono il volume fin dalla Presentazione di Paolo Ridola. Forse queste idee qua e là erano già emerse nella letteratura giuridica che si è occupata del tema, ma a mia memoria non sono mai state prima espresse e argomentate con altrettanta chiarezza. Mi riferisco alla valenza teorica delle questioni giuridiche legate all’omosessualità, definite una spia per cogliere importanti scenari di trasformazione dei diritti fondamentali del costituzionalismo contemporaneo (p. 14); e alla funzione counter-majoritarian che la giurisprudenza ha svolto altrove e che (forse) potrebbe (dovrebbe?) svolgere anche nel nostro Paese. Il lavoro di advocacy che nel libro si ricorda essere alla base delle conquiste in Corte da parte delle e degli esclusi in ragione del loro orientamento sessuale ha portato anche nel nostro Paese alla creazione di una parte del materiale di cui proficuamente gli Autori si servono. L’appello a rendere effettivo il godimento di diritti fondamentali anche per le persone omosessuali è stato rivolto ai giudici nazionali proprio nell’ottica di un contenimento dello strapotere della maggioranza. Questo libro ci ricorda con soddisfazione che il tempo non è passato invano.

Finalmente entriamo nel vivo del volume, che è diviso in tre parti. I temi trattati nelle prime due ce li preannuncia il curatore nella Premessa: Persone e Famiglie. Individuo e collettività, singolare e plurale. A partire dall’esperienza, dal fatto, si  riflette giuridicamente, separando nell’analisi, ma congiungendo nella prospettiva argomentativa, la dimensione personale e quella famigliare. E questa inversione tra fatto e diritto rispetto al solito procedere dei giuristi italiani, si rivela proficua, come vedremo passando in rapida rassegna i singoli contributi al volume. La terza parte  è icasticamente intitolata Argomenti. È la parte che ho trovato più stimolante sotto il profilo intellettuale. Cosa c’è dietro le norme, dietro le sentenze, dietro le linee di politica del diritto? È come un pungolo a cui lo stesso Angelo Schillaci, Renato Ibrido e Andrea Romano sentono di non poter sfuggire. In questi anni mi sono abituato a leggere sentenze, commenti a sentenza, saggi in cui i NO alle richieste di tutela delle persone omosessuali e delle loro famiglie sono per lo più motivate con alcuni noti adagi: “la tradizione impone questa regola”, “il legislatore è l’unico detentore del potere di modificare le cose in questo ambito”, “la giurisprudenza non può essere creativa” e così via elencando. Mai uno sforzo per rispondere nel merito a domande di giustizia che nascono dai bisogni concreti delle persone, che vivono e muoiono mentre chi può fare qualcosa rassegnatamente stringe le spalle. La terza parte del volume mette a nudo la debolezza – prima di tutto giuridica – dell’attendismo fattosi regola nelle nostre aule di giustizia dinanzi alle richieste di tutela delle persone omosessuali. E ancora una volta si ha l’impressione che questo tema sia l’occasione per un discorso più ampio e più generale su cosa sia e su come si formi il diritto nel nostro sistema giuridico, al di là di una visione stereotipata (aggiungerei, imbalsamata) della teoria delle fonti.

Il ruolo del giudice viene considerato centrale in tutto il volume. E non potrebbe essere altrimenti se l’obiettivo dichiarato è riattivare un circolo virtuoso tra l’enucleazione della regola di comportamento e le dinamiche della vita materiale[3]. Nella conformazione attuale dell’ordinamento giuridico, il ruolo del giudice non è più e non può essere solo quello di “bocca della legge”. Il diritto inteso come ordinamento è il risultato di un convergere di forze (sociali, culturali, istituzionali)  e non mera dichiarazione del Parlamento, emulo di quel Principe illuminista creatore unico della legge. Per usare le parole di Antonella Ratti (Essere se stessi. La protezione dell’identità sessuale nello Stato costituzionale):  il ruolo dei giudici si fa decisivo. L’attitudine “elastica e inclusiva” propria della giurisprudenza è tale, infatti, da “stemperare le rigidezze della legge”, da correggere i limiti insiti nel procedimento politico di inclusione, posto che proprio sulla funzione giurisdizionale – che finisce per scaricarsi l’onere di giustificare perché alcuni individui debbano essere esclusi dal godimento dei diritti che lo Stato riconosce alla maggioranza dei consociati (p. 33). Secondo l’Autrice, il dovere di sostenere gli individui nel loro processo di ricerca e di attuazione del loro modo di essere – efficacemente sintetizzato con l’espressione pluralismo dei percorsi di vita – è un portato del principio di laicità, cifra distintiva di un sistema democratico e liberale, che non si può esaurire in un mero obbligo di astensione, di non intromissione nelle scelte dei singoli, anche riguardo alla sfera sessuale, da parte dell’autorità statale.

L’inclusione dei gruppi socialmente esclusi nelle dinamiche politiche, economiche e sociali riguarda le persone e non solo i cittadini, sicché Antonello Ciervo (Un diritto silenzioso. Asilo politico dell’orientamento sessuale) a ragione legge criticamente lo stratificarsi nel tempo della giurisprudenza della Cassazione italiana in tema di protezione internazionale, approdata solo nel 2012 alla conclusione che la stessa esistenza di una norma penale che punisca l’omosessualità sia di per sé una condizione generale di privazione del diritto fondamentale di vivere liberamente la propria vita sessuale e affettiva. Un altro saggio pienamente inserito nel flusso del tempo, visto è solo di qualche giorno fa l’ultima sentenza della Corte di giustizia UE in materia di asilo per le persone omosessuali[4].

Pluralismo, rispetto delle minoranze e uguaglianza sono i termini che ricorrono anche nel contributo di Andrea Cerrone (Punire l’odio? La repressione dell’omofobia e la tutela delle minoranze). Qui è il penalista ad avere voce, sensibile ai profili di rilevanza costituzionale della fattispecie e abile nell’uso del metodo comparatistico. Date queste premesse non stupisce – almeno chi scrive – l’impietoso giudizio dell’Autore sul progetto di legge attualmente pendente in Senato in materia di contrasto all’omofobia e alla transfobia.

Al saggio di Juan Luis Jiménez Ruiz (Paradossi del riconoscimento. La protezione dei dati personali relativi all’identità sessuale in Spagna) ho già fatto cenno. Qui merita qualche parola, non foss’altro perché in prima battuta non si capisce molto bene il senso della sua introduzione nel volume. Infatti, il punto di vista di tutti gli altri interventi è comunque quello italiano, sia pure declinato con metodo comparatistico e tenendo conto delle fonti normative sovranazionali. Da qui nasce l’impressione di disorientamento alla prima lettura del saggio. Eppure, il lettore non potrà non riflettere – anche de jure condendo – sulla attuale situazione di un Paese che, alle soglie del decimo anniversario dall’introduzione del matrimonio egualitario, ancora affronta questioni applicative come l’indiretta possibilità per lo straniero di essere additato come omosessuale a causa della menzione sulla sua carta di identità dei dati personali del coniuge o del partner. Una prassi addirittura contra legem secondo l’Autore, ma che una volta di più dimostra come il diritto sia avvinto ai fatti della vita materiale, in alcuni casi in maniera perniciosa.

La seconda parte del volume si apre con il saggio di Francesca Angelini (Quando dirsi “sì” fa la differenza. Modelli di famiglia è orientamento sessuale). Il filo rosso che attraversa tutto il libro emerge nuovamente nella trama di questo contributo: il ritardo dell’intervento legislativo in materia di famiglie LGBTI ha come conseguenza la sostituzione della tutela giudiziaria, più vicina e attenta all’evoluzione della realtà sociale (p. 93). È certamente vero che senza il ricorso alla magistratura alcune acquisizioni in questo ambito non sarebbero tra gli strumenti a disposizione delle cittadine e dei cittadini LGBTI per tutelare le loro famiglie, come pure Francesca Angelini nota nelle attente pagine di analisi della giurisprudenza nazionale di ogni ordine e grado. Eppure, siamo ben lontani da quella “sostituzione”. Nei fatti essa è più un’aspirazione che una realtà.

Mi permetto qui di esprimere una mia personale convinzione, su cui le pagine di Francesca Angelini mi hanno dato modo di riflettere nuovamente. Sintetizzare il rapporto tra norma di fonte legislativa e norma di fonte giurisprudenziale in termini di alternatività o al più di supplenza della seconda rispetto al deficit della prima non convince. E ciò soprattutto in materie legate al flusso del tempo e ai cambiamenti sociali, come quelle civilistiche. Continuare a considerare la legge come unico strumento per elaborare un diritto privato “al passo con i tempi” significa non prendere atto di come si sia modificata la dinamica delle fonti del diritto. L’accelerazione della vita quotidiana di tutti noi, l’universalizzazione in cui siamo immersi, la complessità che contraddistingue le nostre società sono ingestibili con un metodo ormai vetusto di creazione della norma. In questi ultimi dieci anni, non è praticamente passato giorno in cui – occupandomi con assiduità di questioni legate al mondo LGBTI – non abbia dovuto rivedere le priorità del giorno prima, pressato dalla realtà che avanza. Un esempio valga per tutti. Qualche giorno fa mentre con i Colleghi e le Colleghe di Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford stavamo preparando le memorie per l’udienza pubblica in Cassazione sulla questione delle pubblicazioni matrimoniali, ci è stato chiesto come sia possibile divorziare in Italia nel caso in cui due cittadini italiani abbiano contratto matrimonio in Portogallo. Mentre noi pensiamo (ancora!) alle pubblicazioni matrimoniali, c’è gente che si è sposata all’estero e pensa già di divorziare. Di esempi simili potrei farne a centinaia. Si aggiunga che, nel caso di specie, ossia l’esclusione dal matrimonio delle persone dello stesso sesso, non è una norma espressa a dover essere sottoposta a revisione da parte del legislatore, bensì un’inveterata interpretazione sistematica dell’ordinamento che aveva ragione di sussistere in altre epoche storiche e alla luce di un contesto normativo indifferente alle sopravvenienze del diritto sovranazionale e comunitario, ma che riproposta oggi si presta a facili confutazioni.

Al netto di questa riflessione critica, che nulla toglie al valore del saggio di Francesca Angelini, occorre sottolineare ancora una volta come lo sguardo attento alla condizione concreta delle famiglie LGBTI si riveli prezioso. Nota l’Autrice: la mancanza di garanzie legislative trasforma la quotidianità delle coppie omosessuali che vivono nel nostro Paese in una ripetuta esperienza di lesione di diritti fondamentali che attengono certamente la vita materiale, quali il diritto all’abitazione e al trattamento previdenziale e fiscale, ma anche e soprattutto la sfera privatissima della vita affettiva, ostacolata dall’impossibilità di riconoscimento giuridico e sociale dell’unione con il proprio partner (p 99). Una fotografia nitida della realtà che stiamo vivendo in questi anni. Ma il passaggio che mi preme maggiormente additare all’attenzione del lettore concerne l’analisi della sentenza della Corte costituzionale n. 138/2010. Il legislatore attuale è convinto di non poter aprire il matrimonio in senso egualitario anche in forza di questa sentenza. Francesca Angelini rimuove tale alibi precisando che nella sentenza si esclude che le nuove garanzie da predisporre possano essere “realizzate soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio”: si aprono, dunque altre possibilità quali la disciplina delle unioni fra omosessuali, accanto alla prima che rimane comunque percorribile. Diversa sarebbe stata infatti l’indicazione finalizzata ad escludere tout court l’equiparazione fra unione matrimonio, per la quale sarebbe bastato alla Corte eliminare l’avverbio “soltanto” dalla frase appena citata per trasformarla di fatto in senso preclusivo (p. 105).

Con il saggio di Maria Chiara Vitucci (In viaggio per i diritti. Coppie omosessuali e diritto internazionale privato) si compie quel “viaggio per i diritti” che il curatore promette al lettore in apertura. Si tratta di un’analisi che procede in una triplice direzione: il riconoscimento dello status acquisito all’estero, la trascrizione in Italia del matrimonio contratto all’estero, il riconoscimento ed esecuzione delle decisioni estere connesse alle unioni. C’è un dato sociologico implicito in questo saggio: l’assenza di risposta in termini di tutela per le coppie LGBTI (sia da parte del legislatore, sia da parte della giurisprudenza) non riesce a bloccare la vita delle persone, che – avendone i mezzi – emigrano alla ricerca di ordinamenti in cui realizzare il loro progetto di vita. Emerge con forza, nelle pagine di Maria Chiara Vitucci, la consapevolezza che i cittadini italiani partecipano di una doppia cittadinanza essendo al contempo cittadini europei. Non è un dato formale, perché sul piano concreto ciò comporta che in Italia si possano produrre effetti connessi da un lato all’acquisizione all’estero di un certo status familiare e dall’altro all’applicazione di norme di origine comunitaria che quello status presuppongono. Così come nel saggio di Francesca Angelini, anche qui, con riferimento alla sentenza della Corte di cassazione n. 4184/2012, si revoca in dubbio un’acquisizione ermeneutica che molti considerano indiscutibile. L’Autrice, analizzando la giurisprudenza comunitaria e nazionale di merito, sottolinea come i giudici fanno valere taluni diritti derivanti dallo status acquisito all’estero per pretese di natura privatistica (nome, diritti successori o alimentari), o pubblicistica (carta di soggiorno). Tale evidenza conduce l’Autrice ad affermare recisamente che la nuova categoria elaborata dalla Corte di cassazione sulla assoluta inidoneità di un matrimonio omosessuale a dispiegare effetti giuridici mostra quindi tutta la sua inadeguatezza. Assistiamo infatti alla produzione di alcuni effetti giuridici (p. 127).

È questa cittadinanza europea la ragione che dovrebbe spingere maggiormente gli interpreti a non separare nettamente il piano nazionale dal piano europeo. Il trincerarsi degli Stati nazionali dietro le regole della ripartizione di competenze, qualora renda ineffettivo il diritto dell’Unione, ostacola la costruzione di quella cittadinanza. È quello che dimostra, con una scrupolosa ricostruzione della giurisprudenza della Corte di giustizia, il saggio di Davide Sardo (Percorsi della differenza. L’orientamento sessuale nella giurisprudenza della Corte di giustizia). Il richiamo ai diritti fondamentali spesso ha (anche) una funzione retorica: serve in altri termini a legittimare scelte interpretative di rottura. Ma con altrettanta frequenza, a chi conosca anche sommariamente la giurisprudenza in materia di orientamento sessuale, nemmeno il richiamo ai diritti fondamentali sembra bastevole. Si assiste a una sospensione della logica giuridica, cioè ad una lettura razionale dei fatti attraverso la lente dei principi e dei valori diffusi nel sistema, per far posto sia pure in maniera inespressa al pregiudizio. La questione dei figli delle coppie dello stesso sesso è emblematica al riguardo, come emerge dallo scritto di Giorgio Repetto (Figli irriconoscibile. Le adozioni omoparentali davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo) che analizza la giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di omogenitorialità. Il ruolo centrale che in quella giurisprudenza ha il best interest of the child si smarrisce immediatamente in presenza di due genitori dello stesso sesso. L’Autore non riesce a darsene (comprensibilmente) ragione: stupisce l’incapacità della Corte di dare sino a oggi un autonomo rilievo al profilo dell’interesse del minore quando a venire in discussione siano famiglie omoparentali (p. 167).

Al saggio di Francesco Saitto (Finché “divorzio imposto” non vi separi. Famiglia, rettificazione di sesso e scioglimento ex lege del matrimonio) si è già accennato. È una vicenda giudiziaria ancora sub iudice quella al centro delle riflessioni dell’Autore, concernente il divorzio imposto alla persona transessuale coniugata prima della rettificazione anagrafica del genere. Il giudizio è stato riassunto dinanzi alla Corte di cassazione dopo la sentenza n. 170/2014 della Corte costituzionale, emanata mentre il volume era in corso di stampa tanto da costringere l’Autore (e in un altro saggio il curatore) a un’integrazione dell’ultimo minuto. Il saggio dimostra in maniera ineccepibile come un diverso percorso argomentativo, alternativo a quello seguito dalla Consulta, sia possibile pur nel rigoroso rispetto della Costituzione e dei precedenti della Corte in materia di famiglia e di matrimonio, purché si sia disposti a porre l’accento sul principio di autodeterminazione e di non discriminazione.

Dalla lettura congiunta dei saggi di Maria Chiara Vitucci, Davide Sardo e Francesco Saitto emerge un punto comune nella giurisprudenza delle Corti presa in esame. I giudici tendono a concentrare l’attenzione sullo status e sulla sua predicabilità all’interno di un certo ordinamento, piuttosto che sulla tutela dell’interesse concreto a esso sotteso, quand’anche questo assurga autonomamente a posizione giuridicamente tutelata. Il risultato di un tale approccio ermeneutico è il sacrificio sull’altare della tenuta istituzionale dell’ordinamento (sia dal punto di vista pubblicistico per una certa visione ingessata dei rapporti tra potere giudiziario e potere legislativo; sia dal punto di vista privatistico per una certa visione eterosessista del matrimonio) della dignità, della libertà e del riconoscimento  di migliaia di cittadine e cittadini.

L’ultima parte del volume è dedicata agli Argomenti. Una scelta felice, prima di tutto perché rende evidente quale sia la funzione sociale che il giurista può svolgere in un ambito in cui le opinioni espresse nello spazio pubblico, il più delle volte, non sono frutto di una motivazione razionale, oggettiva, ma di una giustificazione emotiva, soggettiva.

Il primo saggio è a firma dello stesso curatore (Costruire il futuro. Omosessualità è matrimonio). La garanzia di istituto con riferimento all’art. 29 Cost. viene riletta in un’ottica promozionale , giacché essa conserva una relazione profonda con la dimensione individuale di esercizio del diritto fondamentale e ha senso solo se si traduce in uno strumento di approfondimento della protezione dei diritti, immergendoli in una rete di relazioni sociali (p. 200). A sostenere questo argomento sovviene l’uso della comparazione, in particolare delle decisioni in materia del Tribunale costituzionale spagnolo e della Corte suprema degli Stati uniti. Ambienti giuridici diversi, ma questioni sul tappeto simili a partire dallo spazio che deve avere nel lavoro dell’interprete la consapevolezza di incidere sulla vita delle persone (non solo delle parti del processo, ma della collettività nel suo complesso). C’è una frase contenuta nelle conclusioni che non posso non sottolineare, perché mai prima d’ora ho letto un giudizio tanto netto, convinto, chiaro (oltre che assolutamente condivisibile) sui progetti oggi in campo per “risolvere” la questione delle famiglie formate da persone dello stesso sesso. Queste le parole di Angelo Schillaci: bisogna, dunque, guardarsi dal rischio che l’unione civile diventi una struttura di tolleranza della diversità, laddove l’estensione del matrimonio può rappresentare uno spazio di libertà nell’uguaglianza, che, non a caso, la nostra Costituzione definisce in termini di pari dignità sociale. Affermare che due omosessuali hanno diritto di sposarsi significa riconoscere loro la possibilità di partecipare con pari dignità alla costruzione della società civile.

Il secondo saggio è a firma di Renato Ibrido (Costituzione in cammino. Argomento sociologico e orientamento sessuale). L’Autore dimostra come il ricorso ai “dati sociali”, nelle motivazioni dei giudici, non sia di per sé risolutivo, ma che anzi si presti – pur dinanzi allo stesso problema e a dati sociali simili – a sorreggere decisioni diametralmente opposte. È certo però che chi sia convinto della virtuosità del rapporto tra norma e vita materiale non può non preoccuparsi del se e del come l’interprete conosca la realtà su cui inciderà performativamente la sua lettura delle norme. Nell’indicare i meccanismi di permeazione del dato sociale nei giudizi di costituzionalità, si indica nel ricorso alla categoria processualistica del  “fatto notorio” quello utilizzato dalla nostra Corte costituzionale. Questa è la dimostrazione che i nostri giudici delle leggi siano sciolti da qualsiasi indagine obiettiva sul reale e che fondino la loro decisione, in ultima istanza, sull’idea che essi stessi (più o meno scrupolosamente) si sono fatti di una certa situazione sottesa alla questione giuridica da affrontare. Chi condivida l’affermazione che la Costituzione non è un comando eteronomo ma al contrario va identificata con un processo culturale il quale coinvolge l’intera collettività (p. 232), dovrebbe seriamente porre la questione di come l’intera collettività possa essere concretamente rappresentata nel giudizio di costituzionalità, possibilmente senza attendere che sia il legislatore a risolvere il problema, ma rileggendo le norme di funzionamento della Corte e insistendo sul ruolo dell’intervento di parti estranee al giudizio a quo.

Chiude la terza parte il saggio a firma di Andrea Romano (Diritti e dissenso. Pluralismo politico e resistenze argomentative nella giurisprudenza sul matrimonio tra omosessuali) che mette a confronto le opinioni di maggioranza e le opinioni dissenzienti contenute in alcune sentenze straniere sul tema del matrimonio tra persone dello stesso sesso. Purtroppo – e per la sentenza n. 138/2010 sarebbe stato di estrema utilità – la mancata previsione della dissenting opinion è un altro aspetto nel funzionamento della nostra Corte costituzionale che prima o poi andrà rivisto. La sua utilità a mio avviso non riposa solo nel ruolo riconosciutole da Andrea Romano di mediazione di conflitti connessi a determinate questioni giuridiche, ma si coglie altresì in una prospettiva di costruzione argomentativa del diritto[5]. Conoscere perché certi argomenti siano stati preferiti ad altri contribuirebbe ad affinare l’interpretazione delle norme e a stimolare il lavoro dei teorici del diritto.

La gratitudine verso Angelo Schillaci per averci dato tanti spunti su cui riflettere non è giustificata solo dall’interesse di chi scrive per la “questione omosessuale”. I nodi teorici che i vari saggi affrontano e le prospettive di lettura del sistema che il volume nel suo insieme sollecita costituiscono una traccia di lavoro per i prossimi anni e un impegno civile per i giuristi consapevoli dell’importanza della dimensione sapienziale del diritto, lontani da una visione del diritto quale comando rivolto da un superiore (il detentore momentaneo del potere politico) a un inferiore (il cittadino)[6].


[1] Il riferimento è a Raffaele Torino, La tutela della vita famigliare delle coppie omosessuali nel diritto comparato, europeo e italiano, Torino, Giappichelli, 2012. Non bisogna però dimenticare che il metodo comparatistico è stato applicato all’indagine sul tema anche da altri in precedenza, sia pure con una finalità meramente ricostruttiva. Penso ad esempio al volume di Matteo Bonini Baraldi, La famiglia de-genere. Matrimonio, omosessualità, Costituzione, Milano, Mimesis, 2010.

[2] Paolo Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, Giuffré, 2001, 52

[3] Un tema che è all’attenzione dei giuristi italiani da tempo come dimostra il volume Il diritto e la vita materiale, Atti del Convegno dell’Accademia nazionale dei Lincei, Roma 1984.

[4][4] Corte di giustizia UE (Grande Sezione), A (C148/13), B (C149/13), C (C150/13) contro Staatssecretaris van Veiligheid en Justitie, 2 dicembre 2014.

[5] Su cui si rinvia al volume di Aurelio Gentili, Il diritto come discorso, Giuffrè, Milano, 2013.

[6] Su cui si rinvia alle belle pagine del già citato volume di Paolo Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, Giuffré, 2001.