Fissati nuovi paletti alla Consulta a riguardo del rilievo della CEDU in ambito interno (a prima lettura di Corte cost. n. 49 del 2015)

Il presente lavoro del Prof. Ruggeri già pubblicato sulla rivista  Diritto Penale Contemporaneo.

 

Sommario: 1. Una pronunzia da cui traspare una visione piramidale dei rapporti tra Costituzione e CEDU (e, perciò, delle stesse Corti che ne sono garanti), escludendosi assiomaticamente che dalla seconda possa venire una tutela per i diritti ancora più intensa di quella offerta dalla prima. – 2. Il “doppio binario” tracciato dalla Corte per il giudice comune, tenuto a tener ferme le interpretazioni della Convenzione avanzate dalla Corte europea laddove risultino “consolidate” ed abilitato invece a discostarvisi nel caso che non abbiano ancora dato luogo ad un “diritto vivente”. – Il duplice difetto che sta a base di questa ricostruzione, espressiva di un “patriottismo” costituzionale ingenuo ed infecondo. – 3. Le due note salienti che emergono dalla pronunzia in commento, al piano dei rapporti che la Consulta intrattiene, rispettivamente, con la Corte EDU e coi giudici comuni.


 

 1. Una pronunzia da cui traspare una visione piramidale dei rapporti tra Costituzione e CEDU (e, perciò, delle stesse Corti che ne sono garanti), escludendosi assiomaticamente che dalla seconda possa venire una tutela per i diritti ancora più intensa di quella offerta dalla prima

Una pronunzia, la 49 del 2015, complessa, d’impegnativa e incerta lettura, aperta a prossimi sviluppi di vario segno, peraltro quodammodo “condizionata”, non escludendosi anche una significativa inversione di rotta nel caso che la Grande Camera dovesse manifestare un mutamento d’indirizzo rispetto a quello espresso dalla Seconda Sezione in Varvara[1].Una pronunzia, comunque, complessivamente animata dall’intento di porre argini solidi all’avanzata della normativa (e, a conti fatti, della giurisprudenza) convenzionale in ambito interno e, allo stesso tempo, di far luogo a non secondarie precisazioni al piano dei rapporti tra il giudice costituzionale e i giudici comuni: una pronunzia, insomma, che di sicuro non passerà inosservata ed alla quale la stessa Corte potrà in futuro attingere, ponendo in evidenza ora questa ed ora quella sua affermazione e portandola quindi a frutto secondo occasione.

Abile e accorta la mossa giocata dalla Cassazione[2] con l’appuntare la questione di legittimità costituzionale sulla disciplina nazionale, l’art. 44, II c., d.P.R. n. 380 del 2001, anziché sulla legge di esecuzione della CEDU, nella parte in cui immette in ambito interno una norma convenzionale “vivente” sospetta d’incostituzionalità. Avrebbe potuto, infatti, essere il classico uovo di Colombo, al fine di devitalizzare sostanzialmente la norma stessa senza doverla frontalmente attaccare davanti al giudice costituzionale, con la conseguenza di far cadere (non la sola norma ma) la stessa disposizione che la esprime, in ogni suo possibile significato. E ciò, ove si ammetta – come devesi, alla luce del “diritto vivente” ormai invalso – che, per effetto delle pronunzie ablative del giudice delle leggi, per il modo con cui esso è usualmente ricostruito e praticamente inteso e fatto valere, cade la norma e cade però anche la disposizione che quella norma produce. In ogni caso, quando pure quest’esito devastante non dovesse aversi, così come si è ritenuto di dover patrocinare altrove in sede di riflessione teorica a riguardo di oggetto ed effetti delle decisioni della Corte[3], è fuor di dubbio che, puntando diritto contro la norma convenzionale, resa esecutiva in ambito interno, il conflitto istituzionale con la Corte EDU sarebbe stato reso ancora più evidente, esasperato. La qual cosa, invero, non giova a nessuno; e lo stesso giudice costituzionale non ha mancato, quando gliene è stata offerta l’opportunità, di mascherarlo ad arte o, quanto meno, di tenerlo fin dove possibile sotto controllo.

Anche nella decisione odierna, la Corte non ha ritenuto di spostare motu proprio l’oggetto del giudizio dalla fonte interna a quella convenzionale[4], da cui la norma è stata attinta, operazione invero alquanto ardita pur se forse non impossibile da realizzare, ed ha dichiarato inammissibile per plurime ragioni la questione sollevata per sbaglio sull’una fonte, laddove avrebbe piuttosto dirigersi avverso l’altra.

In realtà, nulla a mia opinione nella circostanza si opponeva a che il giudice a quo puntasse il mirino sia sull’una che sull’altra fonte, una volta ridotte ad unità al piano interpretativo. Poi, è pur vero che il giudizio si sarebbe concluso comunque con una pronunzia d’inammissibilità (o, forse, d’infondatezza), per mancato esperimento del tentativo d’interpretazione conforme. La Corte dà infatti del punto di diritto enunciato in Varvara una lettura conciliante, costituzionalmente orientata, muovendo appunto dall’assunto – come subito dirò, discutibile – che la CEDU, in quanto fonte subcostituzionale, si presti e debba sempre prestarsi, in ambito interno, ad interpretazione costituzionalmente conforme. O, meglio, la Corte distingue tra due casi: che si dia ovvero non si dia un consolidato indirizzo interpretativo del dettato convenzionale: nell’una evenienza, l’adattamento interpretativo è – a quanto pare – precluso e non resta perciò che l’alternativa del ricorso al giudice delle leggi, una volta non andato a buon frutto il tentativo di riconciliare le due Carte dei diritti al piano interpretativo, assumendo la Costituzione a parametro e la Convenzione ad oggetto; nell’opposta evenienza, invece, l’adattamento stesso può aver luogo, ed il giudice è senza indugi sollecitato ad operarlo, confidando che vi riesca.

Torna – come si vede – ad emergere, prepotente, quella visione piramidale dei rapporti tra le Carte stesse (e – piaccia o no – in buona sostanza delle Corti…), tanto secondo la teoria delle fonti quanto secondo la teoria dell’interpretazione, che, già rappresentata sin dalle sentenze “gemelle” del 2007, non è mai uscita di scena e che, però, è parsa all’indomani delle “gemelle-bis” del 2009 poter talora recedere a fronte della diversa visione “orizzontale” (e, a conti fatti, “circolare”), che considera tutte le Carte abilitate a concorrere su basi paritarie alla tutela dei diritti in campo. Una visione, quest’ultima, già da tempo affacciata in Corte cost. n. 388 del 1999, laddove è efficacemente delineato l’indirizzo metodico secondo cui la Costituzione e le Carte internazionali dei diritti “si integrano reciprocamente nella interpretazione”, e che tuttavia ha avuto alterne vicende nel corso del frastagliato (e non sempre, per vero, lineare) andamento della giurisprudenza costituzionale, senza mai riuscire ad affermarsi appieno.

La Corte, insomma, è restia a disporsi nell’ordine di idee secondo cui Costituzione e CEDU (e, a mia opinione, ogni altra Carta dei diritti) possono e devono soggiacere a reciproca (“circolare”, appunto) interpretazione conforme: una interpretazione – è superfluo dover qui nuovamente rammentare – assiologicamente orientata ed ispirata a quel canone della massimizzazione della tutela dei diritti e, in genere, degli interessi costituzionalmente protetti nel loro fare “sistema” che – come si è tentato di mostrare in altri luoghi – si pone quale l’autentica Grundnorm delle relazioni intersistemiche o – se più piace – il Grundwert che dà modo a tutte le Carte, senza alcun ordine precostituito di formale fattura, di potersi affermare al meglio di sé, magis ut valeant. E mi corre l’obbligo qui di rammentare nuovamente un dato elementare, che ai miei occhi appare essere d’immediata evidenza, secondo cui, quando pure dovesse darsi la precedenza ad una norma convenzionale rispetto ad una costituzionale (e, perciò, in buona sostanza, ad un orientamento giurisprudenziale rispetto all’altro), non soltanto la Costituzione non ne soffrirebbe ma, di contro, ne risulterebbe ancora meglio valorizzata, laddove ciò dovesse giovare allo scopo di servire al meglio, alle condizioni oggettive di contesto, la coppia assiologica fondamentale di cui agli artt. 2 e 3, nelle loro mutue ed inscindibili implicazioni e nel loro fare “sistema” coi valori fondamentali restanti.

La Corte, tuttavia, fatica ad ammettere che, in una circostanza data ed in relazione a certi interessi in gioco, ab extra possa venire una tutela ancora più avanzata di quella che può aversi in ambito interno, specie dietro indicazione data dalla stessa Corte.

Sta di fatto che del canone fondamentale della miglior tutela qui non v’è esplicita traccia. Né la Corte spende alcuna parola per argomentare dove la tutela stessa si situi e per quale ragione quella risultante dalla sola disciplina interna, senza alcun riferimento a quella convenzionale, debba essere preferita rispetto a quella che invece potrebbe aversi facendo scrupolosa osservanza dell’orientamento manifestato dal giudice di Strasburgo. Tutto il ragionamento si snoda, dunque, lungo il filo composto da argomenti di formale fattura, imperniandosi sul carattere comunque “subcostituzionale” della CEDU. Ciononostante, si lascia chiaramente intendere che, ricalibrando la ricostruzione della norma interna (e, a monte, della stessa norma convenzionale[5]), gli interessi meritevoli di tutela, quelli dell’acquirente in buona fede d’immobile costruito in violazione della normativa urbanistica, sarebbero comunque protetti, non andando soggetto l’immobile stesso a confisca, diversamente dalla condizione dell’acquirente in malafede che invece resterebbe soggetto alla sanzione suddetta. Una condizione, quest’ultima, nondimeno, bisognosa di essere provata e non meramente, ipoteticamente prefigurata, così come invece ha nella circostanza odierna fatto l’autorità remittente, esponendo in tal modo la questione sollevata ad un ulteriore vizio d’inammissibilità per difetto di rilevanza.

Ad ogni buon conto, l’assetto complessivo degli interessi – fa capire la Corte –, quale risultante rispettivamente da una interpretazione convenzionalmente orientata e da una priva di siffatto orientamento, porta a concludere che la miglior tutela si situi presso il secondo corno dell’alternativa.

Forse, sarà pure così. In disparte però la circostanza che non si trovano nel tessuto della parte motiva argomenti a sostegno della tesi preferita dalla Consulta, ciò che solo qui conta è che il ragionamento è tutto svolto lungo il filo di affermazioni di principio, di sistema, chiaramente rivelatrici dell’indirizzo teorico-ricostruttivo patrocinato dal giudice delle leggi, nel senso appunto della ordinazione gerarchica delle Carte (la convenzionale soggiacendo, a motivo della sua insuperabile natura di fonte “subcostituzionale”, alla costituzionale) e, di conseguenza, delle interpretazioni conformi delle leggi (rispettivamente, all’una ed all’altra Carta).

2. Il “doppio binario” tracciato dalla Corte per il giudice comune, tenuto a tener ferme le interpretazioni della Convenzione avanzate dalla Corte europea laddove risultino “consolidate” ed abilitato invece a discostarvisi nel caso che non abbiano ancora dato luogo ad un “diritto vivente”. – Il duplice difetto che sta a base di questa ricostruzione, espressiva di un “patriottismo” costituzionale ingenuo ed infecondo

Così stando le cose, obbligato è l’esito cui la Corte linearmente (dal suo punto di vista) perviene, secondo cui, dimostrandosi infruttuoso il tentativo d’interpretazione della legge in senso conforme a Convenzione e sospettandosi l’incompatibilità di quest’ultima con la Carta costituzionale, è giocoforza sollevare una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la legge di esecuzione “nella parte in cui…”. Un esito, questo, ancora da ultimo prefigurato nella sent. n. 311 del 2009 e però, dopo di essa, non più riproposto, perlomeno in modo esplicito; tanto da indurre alla previsione, oggi rivelatasi troppo ottimistica, di ritenere che, forse, a giudizio della Corte, in caso di contrasto tra CEDU e Costituzione, avrebbe potuto concludersi per la mera “irrilevanza” della prima in relazione al caso, siccome appunto inidonea ad integrare il parametro costituzionale. Una soluzione, questa, che ho ritenuto di dover caldeggiare già all’indomani delle “gemelle-bis[6], al fine di fugare il rischio della esasperazione del contrasto stesso e della conseguente caducazione della norma convenzionale (e, come si diceva, della stessa disposizione che la esprime) con effetti definitivi. E però una soluzione che torna ora a riaffacciarsi solo in parte, per un certo verso, nella trama di una pronunzia che non si fa cura di tenere sotto traccia gli eventuali conflitti con la Corte EDU e che, anzi, potrebbe, sia pure involontariamente, incoraggiarli, proprio con la fissazione dei “paletti” entro cui il diritto convenzionale è tenuto a stare al momento del suo ingresso in ambito interno.

In realtà, la Corte delinea un doppio binario lungo il quale il giudice sarebbe tenuto a muoversi a seconda del tipo di conflitto che abbia in concreto a determinarsi tra diritto convenzionale “vivente” e diritto interno. E lo fa, evocando in campo un criterio discretivo attinto dalla sua precedente giurisprudenza ma fin qui in modo sibillino enunciato e solo oggi invece messo a punto nei suoi contorni essenziali: quello della “sostanza” della giurisprudenza EDU[7].

Questi infatti i due corni dell’alternativa.

Ove si sospetti un’antinomia con norma convenzionale espressiva della “sostanza” in parola, siccome consolidata nella giurisprudenza europea (tanto più se avvalorata da una decisione della Grande Camera o concretatasi in una sentenza-pilota), ebbene in tal caso, coinvolgendo l’antinomia stessa la Costituzione, sarebbe giocoforza chiamare la Consulta a pronunziarsi sulla legge di esecuzione della Convenzione “nella parte in cui…”. E ciò, per la ragione che la legge non potrebbe, in siffatta evenienza, sottrarsi alla sua interpretazione convenzionalmente orientata; solo che l’interpretazione conforme a CEDU si troverebbe costretta a recedere davanti all’interpretazione conforme a Costituzione, in forza di quella sistemazione piramidale delle fonti cui si faceva cenno poc’anzi, disvelando così il conflitto con la stessa legge fondamentale della Repubblica.

Qualora invece la norma convenzionale non rispecchi la “sostanza” dell’indirizzo giurisprudenziale, in considerazione degli indici al riguardo elencati nella decisione qui annotata, ebbene il giudice che si avveda che interpretando la legge alla luce della norma stessa perverrebbe ad un esito non compatibile con la Costituzione, sarebbe tenuto ad abbandonare il riferimento alla giurisprudenza EDU, rileggendo il disposto legislativo sì da renderlo compatibile con la Costituzione, quanto meno fin dove ciò si dimostri possibile[8].

Il difetto dell’impostazione ora descritta sembra tuttavia duplice, investendo la stessa prospettiva metodica dalla quale riguardare ai rapporti tra CEDU e Costituzione.

Per un verso, appare infatti schematica e artificiosa la distinzione e la stessa contrapposizione “secca” tra l’una e l’altra specie d’interpretazione. Singolare è il percorso interpretativo delineato nella decisione in commento, lungo il quale dovrebbe incamminarsi il giudice, portato in un primo momento a ricostruire il significato della legge alla luce della Convenzione; in un secondo momento, a leggere quest’ultima alla luce della Costituzione e, infine, tornando sui propri passi, a leggere nuovamente la legge, abbandonando il precedente itinerario ed intraprendendone un altro che collega direttamente ed esclusivamente la legge alla Costituzione. Il giudice, insomma, dovrebbe andare avanti e indietro, porre a confronto gli esiti di diverse e reciprocamente separate interpretazioni e determinarsi di conseguenza avendo per specifico obiettivo quello dell’affermazione e salvaguardia della nostra legge fondamentale, il solo punto fermo, l’autentica stella polare che ne illumina e guida il cammino, specie nei suoi più sofferti ed impegnativi passaggi. Si trascura tuttavia in tal modo di considerare che le Carte si immettono tutte in un unico circuito interpretativo ed unico è pertanto il processo ricostruttivo attraverso il quale le Carte stesse prendono forma, si traducono in norme, s’inverano nell’esperienza.

Per un altro verso, discutibile è la partenza stessa del ragionamento, costituita dalla ordinazione gerarchica delle Carte, con la qualifica di “subcostituzionale” della CEDU (e, a quanto pare, di ogni altra Carta resa esecutiva con legge comune). Una sistemazione, questa, che non persuade già al piano della teoria delle fonti (perlomeno, di una teoria assiologicamente ispirata, quale quella nella quale da tempo mi riconosco) ma, più ancora, a quello della teoria dell’interpretazione, laddove non può darsi alcun prius o posterius (in via generale e, specificamente, laddove si abbia a che fare con documenti normativi espressivi di diritti fondamentali).

Che le cose stiano così ne dà conferma proprio quel canone fondamentale della miglior tutela che la stessa Corte dichiara stare a base delle relazioni tra CEDU e Costituzione (e diritto interno in genere) e che – come si diceva – è imposto dai valori fondamentali di libertà ed eguaglianza, nel loro fare “sistema” coi valori costituzionali restanti. Un canone, dunque, che, seppur non esplicitamente enunciato nella nostra Carta, a differenza di quanto è espressamente stabilito nell’art. 53 della CEDU e nello stesso art. della Carta dei diritti dell’Unione (col configurare quale meramente “sussidiario” il ruolo giocato dalle Carte stesse al piano della salvaguardia dei diritti rispetto al modo con cui quest’ultima è data in ambito interno), è linearmente deducibile dai valori suddetti, i quali anzi non avrebbero senso alcuno né offrirebbero alcuna effettiva garanzia qualora non dovesse darsi seguito al canone stesso, col quale fanno tutt’uno, assicurandosene il rispetto alle condizioni oggettive di contesto.

In realtà, l’intera pronunzia qui a prima lettura annotata si fa portatrice di un nazionalismo costituzionale esasperato, di un “patriottismo” costituzionale altrove definito “ingenuo ed infecondo”[9], dando ad intendere che ciò che solo conta è, sempre e soltanto, il nostro punto di vista, in vista dell’esclusivo appagamento delle istanze facenti capo alla nostra Carta costituzionale. Peccato però che così la Corte, pur predicando di voler sempre assicurata la realizzazione della Costituzione come “sistema” e magis ut valeat, a conti fatti non intenda la Costituzione in modo pienamente… sistematico e non ammetta che i principi di cui agli artt. 2 e 3 possano essere ancora meglio serviti e svolti da altra Carta (e, segnatamente, dalla CEDU) di come faccia la stessa Costituzione, perlomeno in relazione ad alcuni ambiti materiali di esperienza e ad alcuni diritti. Quasi che la nostra Carta sia sempre perfetta, monda di ogni pecca, a differenza delle altre… (una idea, questa, che traspare dalla stessa sent. n. 388 del 1999, sopra già richiamata, che in un significativo passo precedente quello sopra trascritto rileva che in ogni caso “i diritti umani, garantiti anche da convenzioni universali o regionali sottoscritte dall’Italia, trovano espressione, e non meno intensa garanzia, nella Costituzione”).

Un nazionalismo o patriottismo che porta la Corte a spingersi fino al punto di stabilire essa soltanto quali possano essere gli indici utili a designare la “sostanza” della giurisprudenza europea[10], senza minimamente interrogarsi su cosa quest’ultima intenda per la propria “sostanza”, come far luogo al suo riconoscimento, come farla valere nelle pratiche giuridiche in cui si faccia questione della sua applicazione[11]. È vero – fa notare di passaggio, ma non casualmente, la decisione qui annotata – che un domani potrà soccorrere il nuovo strumento di cooperazione apprestato dal prot. 16, che dà modo ai massimi organi giudiziari di diritto interno (e tra essi, verosimilmente, la Corte annovera anche se stessa) di interpellare il giudice di Strasburgo e di acquisirne le letture quasi “autentiche” della Convenzione. La Corte tiene però a rammentare che i pareri emessi a Strasburgo non sono comunque vincolanti[12] e che, ad ogni buon conto, l’ultima parola in ambito interno circa il modo giusto con cui la Convenzione debba essere intesa la danno i giudici comuni, segnatamente laddove non sia in gioco la “sostanza” della giurisprudenza EDU, la quale – come si diceva – risulta da indici demandati alla esclusiva gestione degli stessi giudici e, in ultima istanza, del giudice costituzionale, laddove investito di questioni di “convenzionalità” o, seppur in casi ritenuti eccezionali, di questioni di costituzionalità aventi ad oggetto la stessa CEDU.

Affermando la soggezione delle stesse pronunzie della Corte europea ad “interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata”, la Corte ribadisce dunque con forza il primato culturale e positivo a un tempo del diritto interno sul diritto convenzionale e, per ciò stesso, della giurisdizione nazionale (specie, appunto, costituzionale) sulla giurisdizione convenzionale. Non casuale è, al riguardo, il richiamo all’art. 101, II c., cost., con la sottolineatura della centralità della legge nazionale quale prioritario, seppur non esclusivo, punto di riferimento per coloro che in ambito interno sono chiamati a somministrare giustizia, “nessun’altra autorità” potendo “dare al giudice ordini o suggerimenti circa il modo di giudicare in concreto”[13].

Qui, per vero, il discorso si fa più sfumato ed articolato, sollecitandosi il giudice comune a ricercare un delicato (e, verosimilmente, problematico) equilibrio tra la salvaguardia della propria autonomia interpretativa, quale riconosciuta e protetta dal disposto costituzionale ora cit., e il dovere di cooperazione con la Corte di Strasburgo, risultante dall’art. 117, I c. Un “coordinamento” tra principi costituzionali – secondo il cauto linguaggio della decisione in commento – o, se più piace dire così, un “bilanciamento” che tuttavia, nei fatti, comporta per il giudice unicamente l’obbligo di tener conto (di non “ignorare”) l’interpretazione della Corte EDU, in vista dell’appagamento della “primaria esigenza di diritto costituzionale che sia raggiunto uno stabile assetto interpretativo sui diritti fondamentali”.

3. Le due note salienti che emergono dalla pronunzia in commento, al piano dei rapporti che la Consulta intrattiene, rispettivamente, con la Corte EDU e coi giudici comuni 

Concludendo. Due, a mia opinione, le note salienti emergenti dalla trama alquanto articolata e composita della pronunzia qui annotata, l’una apprezzabile sul versante dei rapporti di diritto interno e l’altra su quello dei rapporti intersistemici (non dico “interordinamentali” per non dispiacere alla Corte, che esclude – come si sa – il carattere istituzionale della Convenzione e la conseguente sua “copertura” da parte dell’art. 11 cost., pur non essendo convinto della bontà del suo punto di vista[14]).

Al primo piano, il giudice costituzionale, a un tempo, responsabilizza i giudici comuni e promuove e rimarca la centralità del proprio ruolo quale “gestore” dei rapporti in discorso, perno del “sistema di sistemi” che dai paletti fissati dalla Consulta si tiene, dando quindi modo ai rapporti stessi di svolgersi in modo congruo con l’esigenza di preservare l’indeclinabile funzione della Costituzione quale “Carta delle Carte”, punto esclusivo di integrazione-unificazione del sistema medesimo. Promuove il sindacato diretto dei giudici comuni, chiamandoli ad un’opera di “filtraggio” della giurisprudenza convenzionale ed abilitandoli, in buona sostanza, a discostarvisi ogni qualvolta non risulti acclarata – sulla base degli “indici” messi a punto nella pronunzia qui annotata – la formazione di un indirizzo convenzionale consolidato, un autentico “diritto vivente” la cui sostanza, a motivo della sua strutturale rigidità, non si presta a manipolazioni in sede interpretativa da parte degli operatori di diritto interno.

Allo stesso tempo, sul medesimo piano la Corte riserva a se stessa la funzione di primario rilievo di verifica ultima della correttezza delle operazioni poste in essere dai giudici comuni, sempre che appunto gliene sia offerta la possibilità. Non dimentichiamoci che un’intera esperienza di rapporti intersistemici potrebbe esaurirsi in seno all’ordine giudiziario, senza alcun coinvolgimento della Corte, la quale nondimeno, una volta adita, potrebbe essa stessa riallacciare il dialogo con la Corte EDU, pur laddove questa opportunità non sia stata sfruttata dai giudici comuni (e, segnatamente, dal giudice della legittimità) facendo uso dello strumento di cui al prot. 16.

Al secondo piano, a prescindere dalle risorse offerte da quest’ultimo strumento, la Corte con vigore sottolinea, ancora una volta, la centralità del proprio ruolo e, di conseguenza, il carattere inevitabilmente subalterno di quello della Corte EDU. Spia emblematica di questo stato di cose, dell’aspirazione cioè della Corte costituzionale a proporsi quale “Corte delle Corti”, l’unica abilitata ad enunciare verità indiscutibili in ordine ai diritti fondamentali ed ai modi della loro tutela, è data da quel singolare, tortuoso percorso delineato per lo svolgimento dei processi interpretativi, sopra sinteticamente descritto: dapprima separati, essendo – come si è veduto – il giudice comune chiamato a far luogo a distinte interpretazioni conformi delle leggi, rispettivamente, a Convenzione ed a Costituzione, e di poi riunificati, con l’assoggettamento dell’interpretazione dell’una a quella dell’altra.

Assai arduo, in conclusione, è dopo la decisione di oggi tenere accesa la fiammella della speranza che il solco tracciato alla Consulta entro cui dovrebbero scorrere tutti tali rapporti, a mia opinione complessivamente deviante tanto dalle indicazioni date dalla CEDU quanto da quelle risultanti dai principi fondamentali della stessa Costituzione, possa essere opportunamente raddrizzato ed orientato nel verso giusto, sì da far finalmente convergere le Carte e dar loro modo di sorreggersi paritariamente a vicenda, alimentandosi e rigenerandosi nei fatti interpretativi ed offrendo così ai diritti il servizio che da esse si aspettano. E, tuttavia, poiché la Corte ci ha abituato, nel corso degli anni trascorsi dalle “gemelle” del 2007, che non secondarie precisazioni dell’indirizzo in esse delineato possono non di rado aversi, inviterei a non considerare chiusa la partita una volta per tutte.

Stiamo dunque a vedere cosa ci riserverà il futuro che è ormai alle porte.


[1] Scrive la Corte, al p. 6.2 del cons. in dir.: “Allo stato, e salvo ulteriori sviluppi della giurisprudenza europea (in seguito al deferimento alla Grande Camera di controversie attinenti a confische urbanistiche nazionali, nei ricorsi n. 19029/11, n. 34163/07 e n. 1828/06), deve perciò ritenersi erroneo il convincimento, formulato dai rimettenti come punto di partenza dei dubbi di costituzionalità, che la sentenza Varvara sia univocamente interpretabile nel senso che la confisca urbanistica possa essere disposta solo unitamente ad una sentenza di condanna da parte del giudice per il reato di lottizzazione abusiva” (mio, ovviamente, il corsivo; sul punto si tornerà a breve).

[2] All’esame della questione sollevata dal giudice della legittimità la Corte affianca quello di altra questione rimessa dal Tribunale di Teramo, tuttavia dettata da ben altro intento di quello che ha determinato l’iniziativa processuale della Cassazione, secondo quanto ora rilevato da F. Viganò, La Consulta e la tela di Penelope. Osservazioni a primissima lettura su Corte cost., sent. 26 marzo 2015, n. 49, Pres. Criscuolo, Red. Lattanzi, in materia di confisca di terreni abusivamente lottizzati e proscioglimento per prescrizione, in www.penalecontemporaneo.it, 30 marzo 2015, e, nella stessa Rivista, M. Bignami, Le gemelle crescono in salute: la confisca urbanistica tra Costituzione, CEDU e diritto vivente.

[3] Volendo, possono al riguardo vedersi i miei Storia di un “falso”. L’efficacia inter partes delle sentenze di rigetto della Corte costituzionale, Giuffrè, Milano 1990, e Ripensando alla natura della Corte costituzionale, alla luce della ricostruzione degli effetti delle sue pronunzie e nella prospettiva delle relazioni con le Corti europee, in AA.VV., La Corte costituzionale vent’anni dopo la svolta, a cura di R. Balduzzi – M. Cavino – J. Luther, Giappichelli, Torino 2011, 349 ss. Solo che la ricostruzione in questi scritti prospettata dell’oggetto e degli effetti delle decisioni della Corte – come si è appena rammentato – non si è affermata e confesso di non nutrire molte speranze che riesca ad affermarsi in seguito.

[4] … così come ha talora fatto in caso di sostanziale riproduzione della norma oggetto della questione di legittimità costituzionale in fonte diversa da quella indicata nell’atto di proposizione del giudizio davanti alla Corte (a partire dalla sent. n. 84 del 1996). La differenza – convengo, non secondaria – rispetto al caso nostro è che in quest’ultimo non si ha una duplicità di fonti contenenti la medesima norma ma la ricostruzione dell’unica norma, prodotta da atto avente forza di legge, alla luce della giurisprudenza europea.

[5] Significativamente, la Corte insinua il dubbio che le autorità remittenti abbiano inteso nel modo giusto il pensiero della Corte EDU, quale espresso in Varvara. “È perciò da dubitare – scrive il giudice costituzionale (p. 6.1 del cons. in dir.) – che la sentenza Varvara si sia davvero incamminata sulla via indicata da entrambi i giudici a quibus, introducendo un elemento disarmonico nel più ampio contesto della CEDU” (raccolgo l’invito a fermare l’attenzione sul punto da R. Conti).

[6] … nel mio Corte costituzionale e Corti europee: il modello, le esperienze, le prospettive, in AA.VV., Corte costituzionale e sistema istituzionale, a cura di F. Dal Canto – E. Rossi, Giappichelli, Torino 2011, 149 ss., spec. 168 ss.

[7] Considera positiva l’applicazione in ambito europeo del concetto di “diritto vivente” M. Bignami, nello scritto sopra cit., § 2 ss. Non si tratta, nondimeno, di una novità, avendo da tempo – come si sa – la Consulta fatto appello al criterio discretivo della “sostanza” quale fattore di vincolo della giurisprudenza europea per i giudici nazionali. È vero però che ad oggi la Corte non aveva esplicitato in cosa essa consistesse.

[8] Sull’assenza di vincolo interpretativo in difetto di un indirizzo consolidato della giurisprudenza europeo, v., nuovamente, gli scritti dietro richiamati di M. Bignami, § 4, e F. Viganò, § 5 s., il quale ultimo non nasconde la propria preoccupazione davanti allo scenario che veda il singolo giudice abilitato ad opporre i “controlimiti” all’ingresso in ambito interno di un’interpretazione della Corte EDU, pur se non ancora consolidatasi.

[9] Traggo l’espressione dal mio CEDU, diritto “eurounitario” e diritto interno: alla ricerca del “sistema dei sistemi”, in Consulta OnLine, 19 aprile 2013, § 4.

[10] In particolare, si fa riferimento a: “la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano” (p. 7 del cons. in dir.).

[11] Qui, la Corte entra davvero a gamba tesa, commettendo un fallo vistoso, da espulsione, a danno della Corte europea, invadendo il campo riservato all’esclusivo dominio di quest’ultima.

[12] Il che equivale a dire che potrebbero essere considerati inespressivi di quella “sostanza” dell’indirizzo giurisprudenziale delineato a Strasburgo, cui si faceva sopra richiamo.

[13] Ancora p. 7 del cons. in dir., con richiamo di precedenti decisioni.

[14] Basti solo pensare al riguardo che la stessa Corte, in una delle “gemelle” iniziali, la n. 349 del 2007, ha espressamente riconosciuto il carattere “istituzionale” (nella densa accezione romaniana del termine) della CEDU quale “realtà giuridica, funzionale e istituzionale” (punto 6.1 del cons. in dir.).

 

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