Il diritto di voto dei cittadini britannici residenti all’estero nel referendum Brexit del 23 giugno.

Il 28 aprile 2016 la High Court di Londra ha stabilito che la sec. 2 dello European Referendum Act del 2015 non costituisce una restrizione del diritto alla libera circolazione dei cittadini europei (Shindler,  MacLennan v.  Chancellor of the Duchy of Lancaster, Secretary of State for Foreign and Commonwealth Affairs, [2016] EWHC 957 (Admin)).

Il nocciolo della questione riguarda la decisione di far coincidere l’elettorato attivo per il referendum sull’Unione Europea con l’elettorato attivo per l’elezione del Parlamento, con la conseguente esclusione dei cittadini residenti all’estero da oltre 15 anni (rectius: la cui ultima iscrizione nel registro elettorale del luogo di residenza nel Regno Unito risale ad oltre 15 anni addietro, ai sensi della sec. 1(3)(c) del Representation of the People Act del 1985).

La controversia è simile a quella definita dalla Court of Appeal in Preston nel 2012 con riferimento all’estensione dell’elettorato attivo per le elezioni parlamentari. Si legge nella motivazione di Preston: “la sospensione del diritto di voto dei cittadini britannici che volontariamente hanno deciso di risedere in un altro Stato membro per oltre 15 anni può essere definita uno ‘svantaggio’. Tuttavia, non ne consegue che ogni svantaggio legato alla residenza al di fuori del Regno Unito sia una restrizione o un ostacolo alla libertà di circolazione” (par. 79). Inoltre “ogni cittadino britannico sa che, dopo un arco temporale di 15 anni, la sua vita potrà essere influenzata da circostanze imprevedibili, combinazioni di circostanze e modificazioni di circostanze talmente numerose per cui è semplicemente impossibile per una corte, come per chiunque altro, giungere alla conclusione che la regola dei 15 anni possa scoraggiare i cittadini britannici dal risiedere e lavorare in altri Stati membri dell’Unione Europea” (par.  80). In quel caso la Corte ritenne quindi di non poter riscontrare una effettiva limitazione in concreto del diritto alla libera circolazione dei cittadini europei ad opera del legislatore nazionale.

In Shindler la High Court è stata ora chiamata a valutare la limitazione del diritto di voto in occasione di un referendum e la conclusione – rispetto alla libera circolazione dei cittadini – è ancor più netta: infatti il Signor Preston lamentava la sua impossibilità ad esercitare il diritto di voto in elezioni parlamentari che regolarmente si succedono ad intervalli massimi di cinque anni, e “se l’impossibilità di partecipare la voto in queste elezioni non è stata considerata idonea a dissuadere o scoraggiare i cittadini britannici dall’esercitare il loro diritto di libera circolazione, è difficile immaginare che l’impossibilità di votare in un referendum ad hoc sulla partecipazione all’Unione Europea possa essere considerata la causa di tale effetto” (par. 32).

Nella prospettiva dei ricorrenti, il carattere referendario della consultazione e il coinvolgimento diretto dei cittadini britannici residenti in altri Paesi membri dell’Unione Europea, che – a loro dire – più di altri subirebbero le conseguenze del referendum, dovrebbero portare ad una estensione dell’elettorato attivo in analogia con le argomentazioni di chi ritiene legittima una restrizione dell’elettorato ai residenti per le elezioni parlamentari in quanto il Parlamento (e il Governo) prendono decisioni che hanno una ricaduta diretta principalmente sui residenti nel Regno Unito.

Tuttavia, tale argomento può avere un impatto solo sulle scelte di politica legislativa e la Corte ne nega la fondatezza non condividendo l’idea che “le persone nella loro posizione [di residenti all’estero] siano necessariamente le più direttamente interessate dal risultato del referendum sull’Unione Europea. Quale che sia l’esito del referendum, le conseguenze giuridiche, economiche e sociali saranno probabilmente tanto rilevanti per i cittadini britannici residenti nel Regno Unito quanto per quelli residenti all’estero” (par. 52).

La passione politica  e il legame dei ricorrenti con la madrepatria è uno dei temi che emergono fra le righe delle loro argomentazioni giuridiche: in particolare, il Signor Shindler, nato a Londra nel 1921, è stato sino all’età della pensione un membro delle forze armate britanniche, è un veterano dello sbarco di Anzio, è stato insignito del titolo onorifico di Member of the Order of the British Empire per i suoi servizi nelle relazioni fra Italia e Regno Unito. È già stato il promotore di un ricorso davanti alla Corte EDU con cui ha contestato – senza successo – la limitazione del diritto di voto dei cittadini britannici residenti all’estero da oltre 15 anni (Shindler v. The United Kingdom del 2013).

Sulla base di questi elementi sembra che si voglia quasi suggerire l’esigenza di una valutazione caso per caso del legame dell’elettore con la madrepatria in contrasto con il criterio standard dei 15 anni che, a dire dei ricorrenti, è arbitrario e sproporzionato.

La High Court ribadisce però che, pur in presenza di possibili soluzioni legislative alternative, una linea di demarcazione è necessaria poiché “un approccio casistico basato sulla valutazione delle situazioni individuali sarebbe del tutto impraticabile. Il fatto che alcuni cittadini abbiano mantenuto stretti legami con il Regno Unito non mina la validità di una norma di carattere generale che non ammette margini di discrezionalità nella sua applicazione” (par. 56).

Inoltre, proprio il carattere politico della decisione che scaturirà dal referendum Brexit e la sua ricaduta sui cittadini britannici residenti in altri Paesi dell’Unione Europea (che in assenza di rilevazioni ufficiali sono approssimativamente stimati fra uno e due milioni) suggerisce alla Corte di sottolineare che una questione costituzionale di tale portata non può che spettare al Parlamento “and very considerable respect must to be given to the legislative choices it makes on the issue” (par. 52). E il Parlamento avrebbe potuto legittimamente ampliare l’esercizio dell’elettorato attivo a tutti i cittadini residenti in altri Paesi europei, ma non lo ha fatto; pertanto, sotto questo aspetto le norme costituzionali  applicabili ai sensi dell’art. 50 TUE sono quelle ricavabili dallo European Referendum Act del 2015 e dal Representation of the People Act del 1985.

In definitiva, con questa decisione nel Regno Unito si riafferma il principio per cui l’esercizio del diritto di voto è subordinato al mantenimento di un legame concreto con il Paese di origine. In altra sede ho avuto modo di definire tale criterio “un punto di equilibrio ragionevole” (A. Gratteri, La legittimazione democratica dei poteri costituzionali, Napoli, 2015, p. 37). Tuttavia è opportuno ricordare che il 29 gennaio 2014 la Commissione Europea ha adottato una raccomandazione (Addressing the consequences of disenfranchisement of Union citizens exercising their rights to free movement, C(2014) 391 final) in cui si chiede agli Stati membri di far sì che i cittadini che dimostrino di avere interesse a mantenere un legame politico con lo Stato di appartenenza e ad esercitare il diritto di voto possano farlo, anche superando il criterio della residenza. Secondo la Commissione Europea questa esigenza potrebbe infatti essere soddisfatta consentendo agli interessati di presentare periodicamente una domanda di iscrizione nelle liste elettorali, al fine di meglio proteggere il diritto alla libera circolazione dei cittadini europei.

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