La questione catalana e la forza perduta del diritto

Ortega y Gasset lo sapeva bene: la questione catalana, sosteneva nel 1932, “no se puede resolver”. Le ragioni delle istanze separatiste, che non potranno mai cogliersi del tutto sino in fondo, sono connesse, direttamente o indirettamente, a fattori antropologici e psicologici: mentre alcuni popoli desiderano ardentemente fondersi in grandi unità storiche, in nazioni di ampie dimensioni, altri, “por una misteriosa y fatal predisposición”, vivono continuamente l’ansia di distinguersi, di non confondersi. Le richieste di indipendenza catalane – concludeva Ortega saggiamente – possono per questi motivi solo essere tollerate e, diremmo noi, a distanza di ottant’anni, gestite.
Il primo ottobre è mancato proprio questo: la cultura politica della mediazione, la gestione organizzata, strategica, matura e consapevole della crisi istituzionale. La scelta governativa di reprimere violentemente la provocazione referendaria del governo catalano rappresenta, a mio avviso, un chiarissimo errore prospettico: alimentare il mai sopito fuoco del nazionalismo indipendentista non è stata certamente una buona idea.
Un dato deve essere infatti chiaro: in epoca contemporanea l’unità di uno Stato democratico-costituzionale non può conservarsi con la repressione delle istanze popolari, per quanto manipolate o manipolabili, suggestionate o suggestionabili. Una nazione matura confida, infatti, sempre nella forza del diritto e degli operatori giuridici, delegati a garantire l’effettività delle pronunce giurisdizionali nazionali e internazionali. Uno Stato responsabile, al tempo stesso, affida alla negoziazione politica il delicato compito di incanalare le istanze radicali (come avvenuto nel caso scozzese); si dimostra, infine, capace di comprendere la portata delle controversie e le ragioni della frustrazione popolare, specie se storicamente ricorrenti e per certi aspetti ragionevoli.
Le scelte, strumentali e molto più che discutibili, compiute dal Parlamento e dall’esecutivo catalano in merito al processo soberanista, la violazione consapevole e reiterata della Costituzione, dello Statuto catalano e della stessa normativa adottata in tema di referendum, il mancato rispetto delle decisioni adottate dal Tribunal Constitucional, la clamorosa Ley de Transitoriedad, approvata in evidente spregio delle prerogative dell’opposizione parlamentare, avrebbero dunque dovuto trovare una fermissima e convinta risposta nelle ragioni del diritto, che, ripeteva Kelsen, è, appunto, forza organizzata, senza cedimenti.
Se ciò non è avvenuto o, comunque, non è avvenuto sino in fondo, è perché la cultura giuridica è strettamente connessa alla superiore legalità costituzionale. Quanto emerge dal processo in corso è – al contrario – una certa fragilità del modello disegnato dal costituente nel 1978. Sembrano lontani i tempi in cui i catalani salutavano con favore la nascita della Carta, deputata a garantire, assieme, libertà e autonomia. La sentenza del Tribunal constitucional del 2010 (n. 31/2010) ha inferto – nella prospettiva dei cittadini della Catalogna – il colpo di grazia a un modello di Stato in discussione, per ciò che attiene la configurazione territoriale, sin dal momento della sua elaborazione. Nel de-qualificare la posizione dello Statuto nel sistema costituzionale, il Tribunal Constitucional ha indossato, a partire da quel momento, la maschera dell’odiato nemico statalista, rappresentativo di un centro che, in fondo – si è potuto pensare – non ha mai definitivamente abbandonato la sua ispirazione autoritaria (i continui riferimenti al franchismo seguiti ai fatti del primo ottobre scorso simboleggiano, appunto, questa proiezione).
La conseguenza più grave di quella pronuncia – che ha dato avvio alla deriva indipendentista – è stata la definitiva conversione della Costituzione in strumento di agone politico, con il portato, per certi versi paradossale, di tramutare in paladini della Carta soggetti politici, come i popolari, storicamente ambivalenti circa la sua effettiva portata democratica.
Come insegna la storia, ogni limite può tuttavia tramutarsi in possibilità. Così proprio la riforma della Costituzione potrebbe essere, per quanto detto, l’oggetto della mediazione tanto evocata in questi giorni. Le tensioni di questi ultimi anni dimostrano, infatti, l’urgenza di addivenire a riformare il quadro costituzionale, magari condividendo un modello di organizzazione federalista per la Spagna del futuro. Altra possibilità – esposta da parte della dottrina costituzionalistica – è connessa al recupero di un modello bilaterale di relazioni con lo Stato, già presente nel progetto statutario del 2006. Per quanto siano note le difficoltà di giungere a una revisione costituzionale, per via delle scelte in tal senso compiute dal Costituente nel 1978 (cfr. J. Pérez Rojo, La reforma constitucionale enviable, Madrid, 2015), la strada maestra per una trattativa politica non può che essere questa.
In tal senso, il nazionalismo indipendentista è certamente un movimento conservatore: il permanere di posizioni separatiste nei territori rallenta, infatti, processi di auspicabile renovación del quadro politico-istituzionale, cui, come si diceva, una nazione come la Spagna moderna può certamente aspirare.
In tale contesto, altre provocazioni del Govern catalano, come la Dichiarazione unilaterale di indipendenza, giuridicamente inefficaci ma politicamente assai rilevanti, produrrebbero certamente ulteriori degenerazioni del quadro complessivo e divisioni dolorose in seno alla stessa società catalana. La speranza è che il senso di responsabilità prevalga e che si riesca a comprendere che una buona autonomia sarebbe obiettivo preferibile rispetto a una indipendenza dal futuro certamente incerto.

 

* Pubblicato sulla rivista Il Mulino il 9 ottobre 2017