Una sentenza (auspicabilmente) storica: la Corte limita l’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione civile

1. – Ho sempre avuto qualche remora a definire «storica» una decisione: la retorica di cui l’aggettivo è permeato lo rende, a mio avviso, frequentemente abusato. Eppure, leggendo la sentenza della Corte costituzionale 22 ottobre 2014, n. 238, la tentazione di utilizzarlo è stata più forte del rischio di cadere in una retorica, che, peraltro, i contenuti della pronuncia potrebbero anche, almeno in parte, giustificare. La Corte ha infatti stabilito che l’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione civile per gli atti compiuti nell’esercizio di poteri sovrani (jure imperii), riconosciuta dal diritto internazionale, non può valere ad escludere l’accesso alla giurisdizione di fronte ai giudici italiani in relazione ad azioni per danni derivanti da crimini di guerra e contro l’umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona.

Nel decidere una questione di legittimità costituzionale resa complessa dalla pluralità di fonti denunciate, riconducibili al diritto internazionale generale di matrice consuetudinaria ed a disposizioni legislative di esecuzione di trattati internazionali, la Corte ha operato un bilanciamento tra l’osservanza di un principio tradizionale del diritto internazionale – di recente corroborato da una pronuncia della Corte internazionale di giustizia che ne ha ribadito l’assolutezza (CIG, 3 febbraio 2012, Germania c. Italia) – e la garanzia di diritti fondamentali(ssimi) quali la dignità umana (art. 2 Cost.) e la tutela giurisdizionale effettiva (art. 24 Cost.). Il risultato è stato quello di riconoscere la prevalenza dei secondi, allorché la gravità delle condotte poste in essere renderebbe l’opposizione dell’immunità una protezione accordata, non già in ragione della «funzione», bensì per «comportamenti che non attengono all’esercizio tipico della potestà di governo» (Cons.dir., par. 3.4.).

2. – Storica, la sentenza, lo è – o, almeno, così appare – per diverse ragioni.

Innanzi tutto, perché il principio che ha posto segna una rottura profonda rispetto all’opinione dominante, in giurisprudenza, a livello internazionale e nazionale. Certo, non sono mancate, fino ad oggi, prese di posizione critiche nei confronti dell’assolutezza dell’immunità civile per atti adottati jure imperii da Stati esteri: la dottrina è andata anzi propugnando con sempre maggior vigore un superamento dell’approccio tradizionale in favore di una maggiore sensibilità nei confronti dei diritti individuali delle vittime (per una recente rassegna delle posizioni al riguardo, v., anche per ulteriori riferimenti, A. Bulatov, The Alleged Possibility of State Immunity Waiver for Breach of Jus Cogens Human Rights Rules by Acts Jure Imperii, Central European University, March 28, 2014, http://www.etd.ceu.hu/2014/bulatov_alexey.pdf); a livello giurisprudenziale, qualche decisione di rilievo si è segnalata in questa prospettiva (si pensi, in particolare, alla giurisprudenza della Corte di cassazione italiana che si è collocata nel solco della sentenza delle sezioni unite dell’11 marzo 2004, nel caso Ferrini; ma ad analoghe conclusioni si giunge osservando la giurisprudenza greca, ed in particolare la sentenza resa dalla Corte di cassazione il 4 maggio 2000, nel caso Prefettura di Voiotia c. Repubblica federale di Germania).

La statuizione di una corte costituzionale è, però, un’altra cosa, dotata com’è dell’autorevolezza che è propria del massimo interprete della Costituzione e dell’efficacia erga omnes di cui sono dotate le sue pronunce caducatorie. Ora, nel panorama comparatistico, a quanto consta, nessuna corte era giunta a risolvere il suddetto bilanciamento tra prerogative sovrane e diritti individuali nei termini prospettati dalla Corte italiana. Significativo, in tal senso, è che la sentenza n. 238 segua di pochi giorni quella resa, il 10 ottobre, dalla Corte suprema canadese nel caso Kazemi Estate v. Islamic Republic of Iran (2014 SCC 62), in cui una giurisdizione autorevole ed attenta alla dimensione garantistica, quale quella di Ottawa, si è per l’essenziale uniformata alla doctrine tradizionale, non andando oltre l’apertura nei confronti di un possibile futuro intervento legislativo con cui il Parlamento nazionale decidesse di porre limiti ad una immunità altrimenti assoluta.

3. – Ora, proprio l’«unicità» che caratterizza la sentenza in commento nel contesto attuale della giurisprudenza delle corti costituzionali e supreme è, di per sé, un altro fattore potenzialmente idoneo a renderla «storica». Nella motivazione, si è indugiato, non senza un pizzico di compiacimento, sul ruolo decisivo avuto dalla giurisprudenza italiana dei primi decenni del XX secolo ne «la progressiva affermazione del limite […] all’applicazione della norma sull’immunità» consistente nella esclusione della stessa per gli acta jure gestionis (c.d. tesi italo-belga: Cons.dir., par. 3.3.). E, chiarito che spetta, naturalmente, ai giudici nazionali la valutazione circa la sussistenza o meno della propria giurisdizione («lasciando agli organi internazionali la cognizione della prassi ai fini della rilevazione delle norme consuetudinarie e della loro evoluzione»: ibid.), si è concluso affermando che, in un ordinamento a Costituzione rigida, quelle valutazioni che avevano connotato la giurisprudenza dei giudici comuni italiani di un secolo fa non possono non essere proprie della Corte costituzionale, cui spetta «in via esclusiva il compito di assicurare il rispetto della Costituzione ed a maggior ragione dei suoi principi fondamentali», anche nell’ottica di «concorrere […] ad un’auspicabile e da più parti auspicata evoluzione dello stesso diritto internazionale» (ibid.).

Sull’enfasi posta sul monopolio della Corte, che si è associata ad una rivendicazione forte del carattere accentrato del sistema di giustizia costituzionale (Cons.dir., par. 3.2.), qualche riserva ben potrebbe essere espressa, non foss’altro alla luce del cospcuo rafforzamento degli elementi di «diffusione» emergenti dalla prassi degli ultimi quindici/venti anni (cfr., ex plurimis, A.M. Nico, L’accentramento e la diffusione nel giudizio sulle leggi, Torino, Giappichelli, 2007; AA.VV., Corte costituzionale, giudici comuni e interpretazioni adeguatrici, Atti del Seminario di Roma, 6 novembre 2009, Milano, Giuffrè, 2010). A prescindere, però, da questo rilievo, sembra di dover cogliere, tra le righe di questa rivendicazione forte del proprio ruolo, la dimensione «storica» in cui la Corte stessa ha collocato la sentenza, e che si traduce nell’aspirazione a porsi come il punto di partenza di una nuova fase, marcata dal progressivo emergere di nuove limitazioni all’immunità dalla giurisdizione civile degli Stati stranieri, limitazioni non più giocate unicamente sul crinale che separa gli atti esercitati jure imperii dagli acta gestionis, ma che incide direttamente sui primi, comprimendone la valenza «in un contesto istituzionale contraddistinto dalla centralità dei diritti dell’uomo, esaltati [, del resto, proprio] dall’apertura dell’ordinamento costituzionale alle fonti esterne» (Cons.dir., par. 3.3.).

Se la sentenza n. 238 possa effettivamente definirsi «storica», nella prospettiva ora indicata, sarà soltanto il futuro prossimo a dirlo: la sua unicità la rende sospesa tra l’essere l’antesignana di una nuova doctrine destinata ad imporsi internazionalmente (come lo fu a suo tempo quella emersa nella giurisprudenza ordinaria italiana) oppure nulla più che una rimarchevole eccezione, nella quale l’attenzione ai diritti inviolabili avrà occasionalmente prevalso su logiche diverse, non ultima quella «del mantenimento di buoni rapporti internazionali» (Cons.dir., par. 3.4.).

4. – L’aleatorietà relativa alla qualifica di «storica» riferita all’evoluzione del diritto (transnazionale e) internazionale svanisce per quanto attiene ad un’altra angolazione da cui può guardarsi la sentenza n. 238. La Corte si è con frequenza riservata il potere di pronunciare l’«ultima parola»: lo ha fatto in merito ai c.d. «controlimiti» che si oppongono al diritto comunitario e dell’Unione europea (in part., sentenze nn. 183 del 1973, 170 del 1984, 232 del 1989; più di recente, sentenza n. 227 de 2010), lo ha fatto per il diritto internazionale, generale (con la sentenza n. 48 del 1979, su cui tornerò tra breve) e pattizio (in relazione ai Patti lateranensi: sentenze nn. 30 e 31 del 1971, 18 del 1982), lo ha fatto anche opponendo l’esistenza di «principi supremi» idonei a limitare finanche l’operato del legislatore costituzionale (sentenza n. 1146 del 1988). Seguendo percorsi diversi, tutte queste affermazioni, che nella sentenza sono state opportunamente accomunate nell’individuazione de «gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale» (Cons.dir., par. 3.2.), si sono sintetizzate in un potere di intervento concepito alla stregua di una extrema ratio. Un potere finalizzato alla protezione, da parte del massimo interprete della Costituzione, di principi ed istituti cardine dell’ordinamento costituzionale (in primis, ovviamente, i diritti inviolabili); un potere notevolissimo, in linea teorica, e più di ogni altro qualificante per il ruolo che la Corte si è attribuita (o, per dirla in termini più corretti, che la Corte ha ricavato dai postulati stessi del costituzionalismo e segnatamente – a mio parere – dall’art. 1, 2° comma, Cost., che esplicita la posizione sovraordinata della Costituzione persino rispetto all’estrinsecazione della sovranità).

Il punto è che all’iterazione delle affermazioni di principio non si era finora associata alcuna ricaduta concreta in termini di sindacato di costituzionalità, con la sola eccezione della declaratoria di incostituzionalità pronunciata nella sentenza n. 18 del 1982 in merito all’esecuzione dei Patti lateranensi. Nonostante quest’ultima eccezione, peraltro ormai ingrigita dal tempo, l’arsenale giuridico che la Corte si era costruita pareva destinato ad una quiescenza pressoché perpetua, sotto il peso, per un verso, della «drammaticità» delle scelte che una declaratoria di incostituzionalità adottata avrebbe imposto e, per l’altro, della impossibilità di prefigurare con un grado accettabile di approssimazione le conseguenze della declaratoria medesima.

Con il passare dei decenni, dunque, era sempre più forte la sensazione che la Corte, nel minacciare interventi estremi, finisse per «abbaiare alla luna» o, tutt’al più, per mostrare i denti senza avere il reale intento di mordere. Con la sentenza in commento, queste illazioni sono state spazzate via: la Corte ha finalmente esercitato il potere che tanto a lungo ha gelosamente custodito senza mostrarne gli effetti; non si è limitata a mostrare i denti, ma ha azzannato con lucida freddezza una tradizione tanto antica quanto ideologicamente vecchia. Nella ricerca di una presa di posizione altrettanto audace (magari, a dire il vero, anche più audace) nei confronti del diritto sovranazionale, il solo esempio che mi viene in mente negli ultimi anni è quello del Lissabon-Urteil del Bundesverfassungsgericht (30 giugno 2009).

5. – Dopo queste considerazioni, una ragione ulteriore che può addursi per giustificare l’importanza della sentenza n. 238 appare difficilmente annoverabile tra quelle suscettibili di renderla «storica». Mi riferisco all’incipit della motivazione, ed in particolare al rigetto della prima eccezione di inammissibilità mossa dall’Avvocatura dello Stato.

L’eccezione si fondava sul precedente rappresentato dalla sentenza n. 48 del 1979, la quale era stata, finora, generalmente interpretata nel senso di aver ricavato dall’art. 10, 1° comma, Cost. un argine all’ingresso nell’ordinamento nazionale di norme internazionali generali lesive di diritti fondamentali che fossero venute in essere successivamente all’entrata in vigore della Costituzione. Per implicito, si era ritenuto che, di contro, il rinvio di cui alla disposizione costituzionale implicasse l’ingresso di tutte le norme consuetudinarie anteriori (sul presupposto che, qualora il Costituente avesse voluto escluderne alcune, lo avrebbe specificato).

La sentenza in commento ha fornito una diversa interpretazione del precedente, ed ha quindi esteso il suddetto argine a qualunque norma internazionale generale (Cons.dir., par. 2.1.). Evidentemente, però, la re-interpretazione non deve essere stata ritenuta di per sé sufficiente, al punto che subito dopo la Corte si è rifatta alla sentenza n. 1 del 1956, per puntellare la propria argomentazione con quella dell’irrilevanza del fattore temporale nella determinazione degli effetti della incompatibilità con la Costituzione.

Nel quadro di una motivazione apprezzabilmente «didattica» che connota tutta la decisione, il richiamo alla sentenza del 1956 finisce per essere un po’ didascalico, se non addirittura fuorviante: il parallelo proposto tra la legislazione e le norme internazionali generali appare invero piuttosto azzardato, giacché allora si trattava di scegliere tra l’applicazione del criterio gerarchico o quella del criterio cronologico di risoluzione delle antinomie tra Costituzione e legge, mentre nel caso presente si trattava di dare una definizione al verbo «conformarsi» che anima il rinvio al diritto internazionale generale e che ha come soggetto l’(intero) ordinamento giuridico, Costituzione compresa, con il che l’obiettivo era introdurre una implicita eccezione all’obbligo di conformarsi, rimasta nella penna del Costituente (che avrebbe quindi omesso di specificare i limiti entro cui l’ordinamento interno si sarebbe conformato). In sostanza, questo significava rovesciare il precedente del 1979.

Senza un tale overruling, al merito della controversia non si sarebbe probabilmente giunti, ed in ogni caso la decisione non avrebbe potuto avere l’impatto che ha avuto (al più, avrebbe condotto all’incostituzionalità di un paio di norme legislative di esecuzione, senza che, tuttavia, la norma consuetudinaria ne risultasse intaccata). L’importanza «storica» della sentenza n. 238 avrebbe senz’altro giustificato l’ammissione della necessità di mutare il precedente orientamento; anzi, forse anche in una tale rottura esplicitata si sarebbe potuta scorgere tutta la carica innovativa di quanto dalla Corte stabilito, con una linearità certamente maggiore rispetto a quella emergente dalla faticosa ricerca di una continuità giurisprudenziale che, nei fatti, non c’è stata. Perché non doveva esserci.