Mandato d’arresto europeo e primo rinvio pregiudiziale del TCE: la via solitaria della Corte di giustizia

Con la sentenza Melloni (del 26 febbraio 2013, C-399/11), la Corte di Giustizia dell’Unione europea è tornata a pronunciarsi sulla compatibilità del mandato d’arresto europeo (MAE) con i diritti e i principi delle costituzioni nazionali. Diversamente dal filone giurisprudenziale che ha valorizzato il nesso tra residenza e principio di reinserimento del condannato (v., da ultimo, con riferimento alle condanne in absentia, sent. 21 ottobre 2010, C-306/09, I.B.), questa decisione omette di considerare questioni interpretative emblematiche di un sistema di protezione “cooperativo” dei diritti in Europa (v. già la controversa sent. 3 maggio 2007, C-303/05, Advocaten voor de Wereld). La sentenza Melloni si segnala inoltre perché essa costituisce l’esito del primo rinvio pregiudiziale sollevato dal Tribunale costituzionale spagnolo (TCE).

Il caso riguardava un MAE, emesso dall’autorità giudiziaria italiana e indirizzato all’autorità giudizaria spagnola in seguito ad una condanna contumaciale. Il sig. Melloni, assente dal proprio processo, aveva prima conferito e poi revocato il mandato a due difensori, i quali avevano ricevuto le notifiche di rito ed erano comparsi in giudizio. Invocando il diritto di difesa e facendo leva sull’impossibilità di ottenere un nuovo processo in Italia, Melloni aveva impugnato con recurso de amparo la decisione dell’Audiencia Nacional che aveva disposto l’esecuzione del MAE.

Mentre il testo originario della decisione quadro sul MAE prevedeva la facoltà, per lo stato membro di esecuzione e nei casi di condanna in absentia, di subordinare l’esecuzione del mandato d’arresto alla condizione della celebrazione di un nuovo processo nello stato di emissione (art. 5 d.q. 2002/584 GAI), una modifica recente ha circoscritto in maniera sensibile tale ipotesi (art. 4 bis, introdotto dalla d.q. 2009/299 GAI). Tra le varie innovazioni, le nuove norme hanno previsto l’esecuzione obbligatoria del MAE qualora l’interessato, pur non comparso personalmente al processo, venendo a conoscenza di esso abbia conferito il mandato a un difensore e questi abbia patrocinato l’imputato in giudizio.

L’ordinanza di rinvio del TCE (ATC 86/2011, del 9 giugno 2011, con voto particular di Pérez Tremps) ha ricostruito l’interpretazione dell’art. 24 della costituzione spagnola sul diritto di difesa, ha rilevato un possibile contrasto con la decisione quadro e ha sottoposto alla Corte di Giustizia alcuni dubbi interpretativi relativi sia alla portata dei corrispondenti diritti fondamentali dell’UE (art. 47 e  48, comma 2 CDFUE) sia al significato delle clausole orizzontali della carta europea (art. 52, comma 2 e 53 comma 3 CDFUE) (sull’ordinanza, v. il commento di Augusto Aguilar Calahorro).

Il TCS ha riconosciuto una diversa valenza del diritto alla difesa ab intra e ab extra del territorio spagnolo: nella seconda ipotesi, che investe direttamente il potere pubblico di altri stati e indirettamente le autorità spagnole, non operano tutte le garanzie elencate all’art. 24 CE ma solo il contenuto essenziale del diritto, inerente alla dignità della persona e determinato alla luce dei trattati internazionali in materia (art. 10, commi 1 e 2 CE). In tale nucleo essenziale, è compreso il diritto a partecipare al dibattimento orale e a difendersi personalmente. Esso non è soltanto un risvolto del principio del contraddittorio, ma costituisce uno strumento per l’esercizio del diritto di autodifesa (che implica la possibilità di ammettere o contestare l’accusa, interrogare i testimoni, concordare la strategia difensiva con il difensore ed esercitare il diritto all’ultima parola). Date queste premesse, il TCE ha ritenuto illegittima l’estradizione incondizionata (cioè, non subordinata alla condizione della richiesta di un nuovo processo) per violazione indiretta dell’art. 24 CE (STC 91/2000).

Tale orientamento è stato confermato per la consegna prevista dalla disciplina sul MAE (STC 177/2006). In una pronuncia più recente, il TCE ha rigettato la tesi secondo cui il conferimento del mandato ad un legale e la presenza di questi in giudizio sarebbe stata sufficiente ad escludere una condanna in absentia, dato il valore primario del diritto ad essere presente al dibattimento orale (STC 199/2009).

Nel caso in esame, il TCE ha rilevato che il parametro di costituzionalità (art. 24 CE) avrebbe dovuto essere integrato dalle norme conferenti del diritto dell’Unione europea e che, a tal fine, era imprescindibile che la Corte di Giustizia sciogliesse alcuni nodi relativi all’interpretazione e alla validità della decisione quadro sul MAE (sull’integrazione del parametro costituzionale, con particolare attenzione all’ordinamento spagnolo, v. Angelo Schillaci, Diritti fondamentali e parametro di giudizio, Napoli 2012, 375ss.). Riconoscendosi finalmente “organo giurisdizionale” ai sensi dell’art. 267 TFUE, il TCE ha quindi sollevato un rinvio pregiudiziale avente ad oggetto tre questioni tra loro subordinate: se l’art. 4 bis della decisione quadro potesse essere interpretato, alla luce di un canone testuale o sistematico, nel senso di impedire il diniego dell’esecuzione del mandato ma non anche la consegna condizionata; se l’art. 4 bis violasse gli art. 47 e 48, comma 2 CDFUE, il cui significato e la cui portata corrispondono a quelli dell’art. 6, comma 1 e 3 CEDU come interpretato dalla relativa Corte (art. 52, commi 3 e 7 TUE); se l’art. 53 CDFUE, prevedendo che la Carta dei diritti fondamentali non debba considerarsi «limitativa o lesiva» dei diritti riconosciuti dalle costituzioni nazionali, potesse giustificare, da parte delle autorità spagnole, una consegna condizionata.

L’argomentazione del TCE sulle due clausole orizzontali è molto articolata: per un verso, valorizzando le indicazioni dell’art. 52 comma 3 CDFUE, il Tribunale ha ripreso la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull’art. 6 CEDU, secondo cui la rinuncia a partecipare al proprio processo deve risultare in maniera inequivoca, essendo insufficiente a tal fine la dichiarazione dello stato di latitanza (tra gli altri, cfr. Sejdovic c. Italia, del 1 marzo 2006 e Kwiatokowska v. Italia, del 30 novembre 2000). Per l’altro verso, sottolineando l’importanza fondamentale dell’art. 53 CDFUE nell’ambito di un sistema di protezione dei diritti in Europa, il TCE ha prospettato tre possibili interpretazioni di tale norma: essa può rappresentare una clausola sullo standard minimo di protezione (assimilabile all’art. 53 CEDU), oppure delimitare l’ambito di applicazione della Carta tra l’Unione e gli stati membri (sovrapponendosi all’art. 51 CDFUE), oppure ancora combinare queste due ricostruzioni. In quest’ultima ipotesi, la più dinamica, l’art. 53 CDFUE «opererebbe sia come una clausola di standard minimo di protezione – capace quindi di essere incarnata da una disposizione costituzionale interna che protegga più intensamente il corrispondente diritto fondamentale – sia come una clausola che impone una soluzione comune uniforme su tutto il territorio – anche a costo di determinare … una riduzione del livello di protezione dei diritti fondamentali». In tale prospettiva, acquista un rilievo decisivo il «contesto sotteso al concreto problema» da risolvere, problema che potrebbe avere esiti diversi a seconda che ci si trovi dinanzi a «un conflitto tra diritti fondamentali, o tra un diritto fondamentale e qualche altro principio generale del diritto dell’Unione europea … o che la struttura normativa di ciascuno di essi rilevi in ordine alla possibilità di ammettere un maggior livello di protezione da parte delle costituzioni degli stati membri».

Date queste premesse, la sentenza della Corte di giustizia appare, dal punto di vista dell’argomentazione, alquanto deludente.

Preliminarmente, la Corte supera un’eccezione di procedibilità. Benché la d.q. 299/2009 non sia applicabile ratione temporis all’Italia, la valutazione circa la necessità del rinvio pregiudiziale spetta sostanzialmente al giudice del rinvio, in questo caso il TCE. Il Tribunale costituzionale spagnolo aveva già chiarito l’irrilevanza del fattore temporale, dovendosi avere riguardo, ai fini dell’integrazione del parametro costituzionale, al diritto europeo vigente al momento della decisione. In maniera meno convincente, la Corte insiste (come già aveva fatto in precedenza) sul carattere processuale e non sostanziale della disciplina sul MAE, per giustificarne l’applicazione ai casi pendenti.

Quanto alla prima questione di merito, la Corte interpreta la d.q. 299/2009 enfatizzandone lo scopo: «facilitare e accelerare la cooperazione giudiziaria» in Europa. Sia la lettera che l’analisi sistematica della decisione quadro sono univoche nel delineare una disciplina uniforme delle eccezioni all’obbligo di consegna degli individui condannati in absentia, e tali eccezioni non contemplano la consegna subordinata alla condizione della celebrazione di un nuovo processo.

È negativa anche la risposta alla seconda questione: l’art. 4 bis non viola i diritti all’equo processo e i diritti di difesa protetti dagli artt. 47 e 48, comma 2 CDFUE, poiché tali norme non escludono il processo in absentia quando vi sia stata una rinuncia volontaria ed inequivocabile al processo (in questo senso viene letto anche l’art. 6 CEDU). La d.q. 299/2009 ha tipizzato alcune ipotesi di rinuncia volontaria, tra cui quella del conferimento del mandato ai difensori, e tale atto è per la Corte idoneo a delimitare e definire il contenuto dei diritti summenzionati (sulla mancata lesione degli art. 47 e 48 v. sent. 29 gennaio 2013, C-396/11, Radu),

Infine, i giudici di Lussemburgo ridimensionano la questione relativa all’art. 53 CDFUE: la ricostruzione del TCE non è accettabile, poiché l’applicazione dei diritti costituzionali in nome di uno standard di protezione più elevato sarebbe lesiva del principio del primato e sminuirebbe l’efficacia del diritto dell’Unione. Nemmeno potrebbe operare il margine riconosciuto agli stati membri nell’ambito dell’attuazione del diritto dell’Unione – strumento flessibile utilizzato dalle corti nazionali per preservare l’efficacia dei diritti costituzionali nazionali –, poiché lo impedirebbe la d.q. 299/2009. Avendo questa misura il fine specifico di rimediare alle difficoltà, derivanti dalle differenze di tutela dei diritti fondamentali negli stati membri, del riconoscimento reciproco delle decisioni pronunciate in absentia, essa avrebbe realizzato «un’armonizzazione … che riflette il consenso raggiunto dagli stati membri nel loro insieme». In tale prospettiva, permettere la subordinazione della consegna alla condizione della revisione del processo nello stato di emissione provocherebbe una «lesione dei principi di fiducia e riconoscimento reciproci che [la d.q.] mira a rafforzare e, pertanto, un pregiudizio per l’effettività» di essa.

Putroppo, la Corte di giustizia non si è discostata in maniera apprezzabile dalle conclusioni dell’Avvocato generale Bot, su cui già il prof. Ruggeri e Giorgio Repetto avevano espresso rilievi critici. Preoccupa l’insistenza unilaterale sul principio del primato e sull’efficacia uniforme del diritto europeo, senza il dovuto riconoscimento delle interdipendenze ordinamentali. È da censurare l’uso interpretativo della d.q. 299/2009 (un atto di diritto secondario) per determinare il contenuto dei diritti fondamentali di cui agli art. 47 e 48 CDFUE. Non convince il riferimento alla d.q. 299/2009 come misura di armonizzazione sostenuta da un forte consenso degli stati membri, se si tiene presente che le proposte della Commissione, volte alla definizione di norme minime relative ai diritti processuali, sono state congelate per anni a causa delle diverse concezioni della giustizia penale nei singoli stati (la prospettiva dell’approvazione di alcune direttive in materia è relativamente recente). Infine, manca la consapevolezza della specificità dello “spazio di libertà, sicurezza e giustizia” – e in particolare della cooperazione in materia di giustizia penale e di polizia – nell’ordinamento dell’Unione europea: è un’osservazione ormai condivisa che l’insistenza sul principio del mutuo riconoscimento tende, in quest’ambito, ad enfatizzare la dimensione repressiva a scapito dei diritti di libertà.