L’Assault Weapon Ban di Obama ed i recenti sviluppi giurisprudenziali del “diritto di portare armi”

Al centro del dibattito pubblico americano è tornato, sull’onda della strage nella scuola elementare di Newtown, il tema mai sopito della limitazione al possesso delle armi.

Il 24 Gennaio 2013, la senatrice democratica californiana Dianne Feinsteine ha deposito presso la camera alta un disegno di legge (“Assault Weapons Ban”), recante una serie di misure volte a rafforzare i controlli sulla vendita delle armi e ad escludere del tutto la possibilità per i privati di acquistare, trasferire od importare armi automatiche e semiautomatiche.

Benché il Presidente Obama sia sceso in campo in prima persona per sostenere la proposta, mettendo in gioco una quota significativa del credito politico maturato, l’iter parlamentare si presenta quantomai accidentato: è già nitido il profilarsi della consueta contrapposizione fra consensi e dissensi trasversali, la quale, lungi dal risolversi sull’asse partitico, mobilita lobbies organizzate ed influenti, movimenti, municipalità, che si scontrano sullo sfondo di interessi politici ed economici del più vario segno e sotto la scure delle midterm elections.

Non meno significativi e problematici sono i profili giuridici che la questione evoca: non è senza significato che la genesi del  dibattito sul “diritto di portare armi” rimonti già al decennio successivo la ratifica del Secondo Emendamento.

Un tassello fondamentale ai fini della comprensione di  questo quadro controverso è senz’altro rappresentato da due “sentenze gemelle”: District of Columbia v. Heller (554 U.S. 570) del 2008 e McDonald v. Chicago (561 U.S. 3025) del 2010. L’agenda politica degli ultimi mesi ha riportato all’attualità tali pronunce, per alcuni versi sottovalutate dalla riflessione scientifica; una breve analisi se ne rende, dunque, opportuna, per tematizzare alla luce della più recente giurisprudenza in materia i termini dell’odierno, aspro confronto.

Nella sentenza District of Columbia v. Heller, la Corte Suprema scioglie per la prima volta ex professo un plurisecolare nodo interpretativo, ricostruendo i rapporti che legano la prima (cd.prefatory clause: “A well regulated militia being necessary to the security of a free state, …”) e la seconda (cd.operative clause: “… the right of the people to keep and bear arms shall not be infringed.” ) clausola del Secondo Emendamento.

Ad avviso della maggioranza, guidata dal giudice Scalia, la “prefatory clause” si limita programmaticamente ad enunciare uno, all’epoca della stesura del testo il più sentito, fra i fini cui il diritto di possedere e portare armi sarebbe preordinato, senza con ciò in alcun modo limitarlo od estenderlo; di talché, il diritto in parola sarebbe una situazione giuridica autonoma da ogni connessione col servizio nei ranghi della milizia statale, inestricabilmente connessa alla fondamentale istanza di auto-difesa.

A siffatto approdo, secondo gli stilemi argomentativi tipici dell’originalismo, la Corte giunge mercé l’analisi delle costituzioni statali anteriori e posteriori rispetto alla Carta di Filadelfia, dei dibattiti congressuali che accompagnarono la formulazione e poi la ratifica del Secondo Emendamento, delle letture invalse nella dottrina coeva.

Né ad esso si oppone quanto importanti precedenti statuiscono: non United States v. Cruikshank (92 U. S. 542) del 1876 o Presser v. Illinois (116 U. S. 252) del 1886, che anzi collocano il diritto di possedere e portare armi nell’ambito delle garanzie pre-giuridiche; non United States v. Miller (307 U. S. 174) del 1939, in cui la portata prescrittiva della “prefatory clause” viene declinata non già come funzionalizzazione del diritto a possedere armi alla prestazione del servizio nei ranghi della milizia, ma come limite al novero di armi ricompreso nella garanzia del Secondo Emendamento, che coprirebbe solo quelle di uso comune nel periodo storico di riferimento.

La Corte ha poi cura di puntualizzare che il rango di diritto fondamentale non esclude margini conformativi per il legislatore, purché essi non si risolvano in una ingiustificata compressione o in una indebita ablazione. Quantomeno singolare, tuttavia, è l’omissione dei giudici di maggioranza, che deliberatamente non indicano quale sia il livello di scrutinio da applicarsi nel sindacato avente ad oggetto leggi in potenza lesive del Secondo  Emendamento; viene tuttavia esclusa expressis verbis l’utilizzabilità del deferential review: se si sfumasse la garanzia apprestata dalla previsione costituzionale in un mero divieto di misure manifestamente irragionevoli, si renderebbe questa ridondante, la relativa situazione giuridica trovando già tutela sotto la dottrina del due process sostanziale.

La posizione della maggioranza non è condivisa dalla nutrita “pattuglia” dei quattro giudici dissenzienti, per lo più di estrazione democratica: nelle due dissenting opinions (redatte dai giudici Breyer e Stevens) per un verso si contesta la cesura fra la “prefatory clause” e la “operative clause”, per altro verso si ritiene potenzialmente foriera di esiti paradossali la conferma del criterio già individuato nel caso Miller, alla stregua del quale la garanzia coprirebbe le armi di utilizzo comune in un dato momento storico.

Venendo ad esaminare la sentenza McDonald v. Chicago del 2010, merita premettere che essa si pone in un nesso di stretta continuità, fattuale e giuridica, con la sentenza Heller: originata da una controversia promossa il giorno dopo il deposito di quest’ultima, con lo scopo dichiarato dei ricorrenti di giungere alla declaratoria d’incostituzionalità di un insieme di misure adottate dalla città di Chicago restrittive del diritto di portare armi, la pronuncia in commento contribuisce a far luce su ulteriori, e complementari, profili relativi alla previsione di cui al Secondo Emendamento. Peraltro, la continuità cennata in premessa è confermata una volta di più dalla circostanza che nell’un caso e nell’altro la Corte si è spaccata abbastanza nettamente sul cleavage repubblicani/democratici, con i medesimi giudici che hanno confermato gli avvisi espressi in precedenza.

Se la sentenza Heller muove dal rango di diritto fondamentale della garanzia per sceverarla dalla funzionalizzazione al servizio nei ranghi della milizia, valorizzandone così i profili individualistici, la sentenza McDonald fa leva sul medesimo assunto per “incorporare” la previsione, rendendola così azionabile non solo nei confronti della Federazione (destinataria ab origine dei vincoli posti dal Bill of Rights) ma anche degli stati membri. Il caso si inscrive dunque a pieno titolo nel filone giurisprudenziale dell’Incorporation,  che, come noto, intreccia le grandi aree tematiche dei diritti e del federalismo.

Ai fini della decisione, la maggioranza della Corte, guidata dal giudice Alito, procede, secondo lo schema consolidato nei giudizi in cui si faccia questione di Incorporation,  a verificare se il diritto invocato sia qualificabile come fondamentale, sulla base del  “Nation’s scheme of ordered liberty” e del suo radicamento nella storia e tradizione.

Ricorrendo ancora una volta ai moduli logico-argomentativi dell’originalismo, sulla base di una serie di evidenze storiche che spaziano dalle origini del Bill of Rights inglese del 1689 alle costituzioni attuali degli stati membri, la Corte conclude in senso positivo la sua analisi.

I giudici dissenzienti, di nuovo guidati da Stevens e Breyer, redigono due dissenting opinions nelle quali, in aggiunta ad alcune critiche svolte sul piano dell’equilibrio dei rapporti centro-periferia, viene recuperata la tesi della funzionalizzazione del diritto di portare armi alla dimensione “collettivistica” della milizia.

Nel tentativo di tracciare un sintetico bilancio delle ricadute sistemiche ed applicative delle sentenze Heller e McDonald, possono individuarsi due livelli d’analisi.

Sul piano giuridico, le pronunce hanno diradato le ombre che, fin dalla “Creation”, circonfondono  una delle più importanti e controverse disposizioni costituzionali, valorizzando i profili individuali e garantistici del Secondo Emendamento. Ciò è icasticamente evidenziato in un commento del Senior Attorney Clark Neily: «America went over 200 years without knowing whether a key provision of the Bill of Rights actually meant anything. We came within one vote of being told that it did not, notwithstanding what amounts to a national consensus that the Second Amendment means what it says: the right of the people to keep and bear arms shall not be infringed. Taking rights seriously, including rights we might not favor personally, is good medicine for the body politic, and Heller was an excellent dose».

La lettura fornita dalla Corte è stata accolta in modo tutt’altro che piano: accanto a chi lamenta la eccessiva compressione dei margini per interventi regolatori, non è mancata la critica di parte conservatrice, la quale accusa i giudici di aver celato dietro  gli strumenti argomentativi originalisti un’operazione di legislazione “from the bench”, espressiva di ben precise opzioni valutative.

Le critiche conducono la riflessione su un secondo piano d’analisi, relativo ai concreti risvolti applicativi: in tale prospettiva, se la portata delle pronunce è assai significativa in punto di principio, pare esserlo di meno per quanto attiene da un canto il livello della tutela garantita, dall’altro i limiti al potere conformativo del legislatore.

E invero, la Corte con le sue statuizioni ha creato una stridente ambiguità, non traendo, dal riconoscimento del diritto di portare armi come diritto fondamentale, la conseguenza dell’applicabilità del più stringente test di giudizio alle misure di esso limitative: sicché il grande momento dell’affermazione di principio  si traduce in un rialzo dell’asticella delle garanzie tutto sommato modesto rispetto a quella già assicurata dal sindacato di non manifesta irragionevolezza del due process sostanziale. Peraltro, l’aver perimetrato l’ambito della garanzia in modo da ricomprendervi le sole armi comunemente impiegate per la difesa personale nel contesto storico di riferimento,  lascia impregiudicata la possibilità per il legislatore di apporre penetranti limitazioni, o in ipotesi sostanziali divieti, al possesso di categorie di armi diverse.

Viene dunque da chiedersi se non siano proprie queste alcune delle ragioni alla base di quel fuoco di sbarramento cui l’Assault Weapons Ban dell’Amministrazione Obama sembra inesorabilmente destinato ad andare incontro nell’iter parlamentare: una volta licenziato dai due rami del Congresso, infatti, le ben calibrate misure da esso recate non è affatto scontato cadano sotto la scure degli Old Nine.