La distanza (troppo) breve dalla Consulta al Quirinale
Sono tanti i nomi di giuristi – soprattutto costituzionalisti e magistrati – che circolano in questi giorni di bollente “toto-nomine” per la successione di Giorgio Napolitano al Quirinale. L’opinione pubblica si rivolge alla scienza giuridica ed agli uomini di legge alla ricerca di competenze e rigore morale da contrapporre alla deludente stoffa della classe politica: la Costituzione è considerata dalla gran parte degli italiani come patrimonio da custodire, ed il Capo dello Stato come suo supremo garante. Ma gli stessi partiti aspirano ad eleggere al Quirinale una figura capace di maneggiare un codice neutrale rispetto alla contesa politica, vuoi in chiave di garanzia reciproca, vuoi per scongiurare intromissioni nel merito delle politiche di governo e maggioranza.
Il dato più interessante delle cronache odierne riguarda però il coinvolgimento di giuristi attualmente componenti della Corte costituzionale, o da poco cessati dalla carica di giudice costituzionale. I nomi che circolano – in ordine alfabetico: Amato, Cartabia, Cassese, Mattarella; ma anche De Siervo e Zagrebelsky tra quelli cessati dalla carica da più tempo – sono tutti di straordinario profilo, ed ognuno di loro svolgerebbe in modo eccellente l’incarico.
Il punto è un altro: se passa l’idea che i giudici costituzionali sono a disposizione della politica per l’elezione a cariche istituzionali durante il mandato o a breve distanza dalla sua scadenza, ad essere minata sarà l’indipendenza della Corte nel suo complesso e per diversi anni a venire. La Corte costituzionale negli anni recenti è stata troppo spesso attratta nel recinto della lotta politica, in occasione di casi delicati e difficili: Antonio Ruggeri ha illustrato col consueto rigore le ragioni sistematiche del nuovo contesto dei rapporti tra Consulta e sistema politico nel suo la “Corte costituzionale ai tempi del maggioritario” (Quad. Cost., 2/2011), mentre Gustavo Zagrebelsky, in un intervento significativamente intitolato “La Corte in-politica”, ma più in generale nei suoi recenti lavori sulla giustizia costituzionale, ha più volte indicato l’esigenza di distinguere le ragioni della politica dalla logica del giudice costituzionale.
A mio avviso, non giova alla difesa dell’indipendenza della Corte costituzionale che i suoi componenti siano coinvolti o possano essere coinvolti nella complesse strategie per ricoprire diversi incarichi istituzionali. Ben vengano politici alla Corte: essi possono portare una sensibilità essenziale per le complesse ponderazioni della Consulta. È successo in passato tante volte, succede oggi, succederà ancora. Non so se siano veri i racconti che circolano, secondo cui i giudici “politici” appena nominati abbiano platealmente stracciato le loro tessere di appartenenza. Ma convince il messaggio che questi racconti trasmettono. Una volta entrato alla Consulta, il politico deve spogliarsi definitivamente dei suoi vecchi abiti, rinunciando anche alla partecipazione alla selezione della classe politica ed istituzionale, che ne costituisce parte essenziale e tutt’altro che disprezzabile. Il giudice costituzionale, insomma, deve essere inattaccabile dalla critica dell’aver agito prefigurando un tornaconto. E ciò si ottiene anzitutto escludendone il coinvolgimento dal gioco delle nomine, durante il mandato e a mio avviso anche dopo. La mancanza di un previsione costituzionale che esplicitamente contempli un’incompatibilità post-funzionale di ragionevole durata è un limite a cui ben si potrebbe rimediare in sede di riforma; ma al di là del vincolo espresso, esso sembra radicato nell’istanza di equilibrio e separazione tra poteri di garanzia e poteri politici: il Presidente della Repubblica si colloca a cavallo tra questi due ambiti, ed è bene che si mantenga equidistante dagli uni e dagli altri, sin dall’inizio.
Andrea, condivido totalmente i tuoi dubbi. Aggiungerei anche una ulteriore argomentazione. Nel ridurre la durata dell’ufficio di giudice costituzionale da 12 a 9 anni e nel prevedere l’immediata cessazione senza possibilità di prorogatio, la l. cost. n. 2/1967 ha chiaramente esplicitato il principio del divieto, da parte del giudice scaduto, di continuare a influire sulla attività della Corte. Ora, nel caso di un giudice costituzionale in carica (o cessato da poco tempo) eletto come Presidente della Repubblica, si avrebbe invece una influenza fortissima in virtù del potere presidenziale di nomina dei giudici costituzionali. Tutto questo è opportuno? Secondo me, bisognerebbe evitarlo. Non credo si possa invocare a questo proposito il precedente di Charles Evans Hughes, Associate Justice in Corte Suprema dal 1910 al 1916, e poi dimessosi per sfidare Woodrow Wilson alle elezioni del 1916, perché in questo caso le dimissioni dalla carica di giudice furono precedenti la competizione elettorale. Né si potrebbe invocare il precedente di William Howard Taft, Presidente degli U.S.A. dal 1909 al 1913 e poi Chief Justice della Corte Suprema dal 1921 al 1930, se non altro perché la carica politica è stata precedente quella di giudice e non successiva, e poi perché c’è una garanzia ulteriore data dalla nomina a vita. Tornando al caso italiano, una possibile soluzione potrebbe essere riportare la durata dell’ufficio a 12 anni, fermo restando il divieto di prorogatio, e l’esplicito divieto di concorrere a cariche pubbliche per un certo numero di anni. Mi rendo conto, però, che queste sono questioni più de iure condendo che di diritto positivo, però debbo dire che ho trovato singolare che tutti coloro che si dichiarano contro l’introduzione della opinione dissenziente in Italia, con la motivazione che esporrebbe politicamente la Corte, non abbiano detto nulla su questo punto…..
Andrea Ridolfi