Amleto a Strasburgo, post scriptum

Nel suo post, dal titolo Il tratto (in)umano della giurisprudenza della Corte dei diritti umani?, Roberto Conti, profondo conoscitore e sensibile studioso della giurisprudenza europea, svolge alcuni rilievi che sollecitano un’attenta valutazione, sia per gli argomenti che per i riferimenti addotti a loro sostegno. Conti ha ragione da vendere quando rileva in partenza del suo articolato e fine ragionamento la necessità di “filtri” per la Corte di Strasburgo chiamata a gestire domande vieppiù numerose e pressanti che provengono da territori anche molto distanti tra di loro, espressivi di culture parimenti varie e differenziate.


La questione di un’articolazione del giudice europeo su basi territoriali è assai impegnativa e richiede sedi ben diverse da questa per essere convenientemente trattata. In ogni caso, quand’anche un domani dovesse essere presa in considerazione, un punto mi parrebbe doversi tenere fermo; ed è che la composizione delle “sezioni” (o com’altro le si voglia chiamare) della Corte dovrebbe in ogni caso riprodurre su scala ridotta quella che è oggi propria del plenum, venendo altrimenti pregiudicato il carattere “europeo” del giudice. È poi da studiare attentamente quale possa essere il ruolo di tali articolazioni territoriali, il cui compito potrebbe restare circoscritto al solo vaglio in limine litis delle questioni manifestamente inammissibili (o, più largamente, inammissibili tout court), nel mentre ove lo si estendesse altresì al merito non dovrebbe, a mio modo di vedere, restare comunque preclusa l’eventualità dell’appello alla sede centrale. Conciliare in modo adeguato il bisogno di preservare la funzionalità complessiva dell’organo col bisogno, non meno impellente, di salvaguardare le aspettative di giustizia (in senso materiale) dei soggetti che si rivolgono al giudice europeo è il punctum crucis della questione, di scottante attualità, ad oggi aperta e che in termini ancora più stringenti si porrà per l’avvenire, sulla quale occorre confrontarsi senza alcun preorientamento, ideologico o di dottrina: al solo fine di offrire un servizio, per quanto possibile adeguato, alla istituzione e, per suo tramite, ai soggetti che ad essa fiduciosi si rivolgono.
Ugualmente pertinenti sono, poi, le notazioni svolte da C., laddove rileva le differenze, che ovviamente non mi nascondo, di struttura e funzione che si hanno tra i giudizi in genere (dunque, anche quelli d’inammissibilità) della Corte costituzionale e quelli della Corte EDU, così come – può aggiungersi – quelli dei giudici comuni. Non v’è dubbio che il filtro esercitato da questi ultimi ove siano investiti dalle parti di questioni di costituzionalità giova a non poco, per quanto – come si sa – non rare volte il giudice delle leggi si sia trovato (e si trovi) costretto a rilevare l’inammissibilità, “manifesta” e non, della questione in modo improvvido rimessagli.
Tutto ciò posto, resta tuttavia in piedi la questione di fondo, che ho inteso portare all’attenzione col mio intervento del 18 giugno scorso, relativamente all’obbligo ineludibile di motivazione di qualsiasi provvedimento giudiziario che aspiri a connotarsi come propriamente “giurisdizionale”. Se ne ha lampante conferma dallo stesso intervento dell’ex Presidente Costa dell’ottobre 2007, cui C. si è opportunamente richiamato. È vero che in esso si fa notare come non tutte le motivazioni debbano essere dettagliate e riferite ad ogni argomento addotto dalla parte a sostegno della propria pretesa. Che si diano “gradi” diversi della motivazione, in ragione dei casi, è un dato, già evocato nel mio scritto, talmente evidente e su cui – credo – tutti conveniamo, da non richiedere che su di esso si debba ulteriormente indugiare.
Ancora Costa rammenta come l’obbligo di motivazione non sia necessariamente funzionale all’esercizio della facoltà d’impugnazione, rispondendo altresì a scopi diversi, primo su tutti quello della trasparenza della giustizia “per evitare eventuali sospetti di arbitrarietà”. Un’affermazione che sottoscrivo senza riserva o condizione alcuna e che, anzi, mi permetto di “rilanciare”. D’altronde, ancora da ultimo nel mio scritto di qualche giorno addietro (e già in precedenti riflessioni), ho tenuto a mettere in evidenza che proprio per gli organi le cui pronunzie non soggiacciono ad impugnazione (e, tra questi, la Corte costituzionale, ex art. 137, ult. c., con le precisazioni fatte in merito ai suoi rapporti con le Corti europee) l’onere della motivazione si fa ancora più stringente, al fine di fugare quei “sospetti di arbitrarietà”, cui si è giustamente richiamato Costa, o – piace a me dire – di evitare che il giudice si commuti, snaturandosi senza riparo, in un anomalo e mostruoso potere costituente permanente. Ed è ancora l’ex Presidente della Corte a rilevare che “tra le implicazioni che si sono ricavate dalla nozione di processo equo rientra certamente l’obbligo di motivare le decisioni giudiziarie”. E ancora, poco più sotto: “la Corte di Strasburgo continua a lottare contro l’arbitrarietà che può risultare dall’assenza di motivazione. E questo è il fulcro dell’equo processo” (mia la sottolineatura).
Ora, proprio qui è il cuore della questione oggi nuovamente trattata. Sarebbe a dir poco singolare che il giudice garante al piano europeo dell’equità del processo, nelle sue plurime espressioni in ambito nazionale, possa sottrarsi in occasione dei giudizi che è chiamato ad emettere (magari, proprio in relazione all’art. 6 della Convenzione…) all’osservanza dei canoni che stanno a presidio dell’equità stessa.
Nessuna pretesa, dunque, di una dettagliata motivazione anche dei ricorsi manifestamente irricevibili, che contrasta con la natura dei giudizi in limine litis, ma solo la richiesta, a mia opinione fondata, di un pugno di indicazioni essenziali, delle quali non può ad ogni buon conto farsi a meno, a pena dello smarrimento irrimediabile del tratto qualificante, indefettibile della “giurisdizionalità”.
In una stagione nella quale i giudici sono fatti oggetto di duri e reiterati attacchi e di una vera e propria manovra di accerchiamento soffocante proveniente praticamente da tutte le parti, una stagione nella quale si levano critiche, non di rado scomposte e strumentali, avverso il c.d. (supposto) “Stato giurisdizionale” e che hanno in non poche occasioni coinvolto anche i giudici costituzionali (in senso materiale, riferito agli stessi giudici europei), credo che siano proprio i giudici a dover, col loro quotidiano e sofferto impegno al servizio dei diritti e della giustizia – come sa fare, in modo esemplare, R. Conti –, rendere costante e limpida testimonianza di intendere e praticare il loro ruolo in modi nettamente distinti rispetto a quello dei decisori politici.
La motivazione è il solo strumento di cui dispongono per farlo, in modo giusto.