Assegni di natalità e maternità e cittadini stranieri con permesso unico: la Corte di giustizia si pronuncia sul rinvio pregiudiziale della Corte costituzionale

Con sentenza del 2 settembre 2021 (causa C-350/20, O.D. e altri c. INPS), la Corte di giustizia, pronunciandosi sul rinvio pregiudiziale attivato dalla Corte costituzionale italiana con ordinanza del 30 luglio 2020, n. 182, ha affermato l’incompatibilità tra la disciplina italiana in materia di assegni di natalità e maternità e la direttiva 2011/98/UE del Parlamento europeo e del Consiglio. La normativa nazionale, infatti, non consentendo la fruizione di tali prestazioni ai cittadini stranieri in possesso del c.d. permesso unico di lavoro, viola il diritto alla parità di trattamento sancito dall’art. 12, paragrafo 1, lett. e) di detta direttiva.
La questione di legittimità costituzionale alla base del rinvio pregiudiziale in esame, avente ad oggetto un settore “segnato dall’incidenza crescente del diritto dell’Unione”, era stata sollevata dalla Corte di Cassazione, la quale annoverava tra i parametri invocati in relazione all’art. 117 Cost. gli artt. 20, 21, 24, 33 e 34 della Carta di Nizza-Strasburgo.
La Corte costituzionale, dal canto suo, sceglieva di adire la Corte di giustizia riunendo la trattazione degli assegni di natalità e degli assegni di maternità in quanto, pur diversi nella disciplina, per la fruizione di entrambi l’ordinamento italiano richiede il possesso del c.d. permesso di soggiorno UE (vale a dire, della carta di soggiorno di cui all’art. 9 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286), escludendo dunque i soggetti in possesso del permesso unico previsto dalla direttiva 2011/98/UE.
La questione si inserisce in un quadro giurisprudenziale in fermento, che ha dato luogo a diversi rinvii pregiudiziali attivati da giudici italiani e culminati con le sentenze decise nelle cause C-302/2019 e C-303/2019 della Corte di giustizia (cfr. F. Masci): una situazione d’incertezza per il “settore nevralgico della politica comune dell’immigrazione dell’Unione europea” (punto 8. del Considerato in diritto dell’ordinanza di rinvio) giudicata tale da giustificare una richiesta, da parte della Corte costituzionale, di attivare la procedura accelerata ex art. 105 del regolamento di procedura della Corte di giustizia. Poco importa, per quel che qui interessa, che tale richiesta sia stata respinta: ciò che in questa sede preme sottolineare è che si tratta di un tema la cui complessità è testimoniata dal rifiuto delle pubbliche amministrazioni italiane di seguire l’orientamento prevalente nella giurisprudenza di merito, che attribuisce efficacia diretta al principio di parità di trattamento affermato dall’art. 12 della direttiva 2011/98/UE. Un dato che non può certo sorprendere, atteso che si tratta di un settore che richiede di coniugare la spinta europea verso la creazione di uno spazio inclusivo per i cittadini di Paesi terzi con le limitate disponibilità finanziarie (cfr. F. Masci; G. Pistorio).
Quanto al quadro normativo sovranazionale rilevante per la vicenda, tre sono i dati da ricordare. Il primo è che l’art. 11, par. 1, lett. d) della direttiva 2003/109/CE stabilisce il principio di parità di trattamento per i soggiornanti di lungo periodo per quanto concerne “le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della legislazione nazionale”; il secondo è che la direttiva 2011/98/UE prevede l’applicazione delle prestazioni sociali definite dal regolamento (CE) n. 883/2004 anche ai titolari di permesso unico di lavoro oggetto della stessa; il terzo è che, nonostante ciò, quest’ultima direttiva considera i soggiornanti in territorio europeo titolari di un permesso unico dotati di uno status parzialmente diverso (si legga: meno privilegiato) rispetto a quello dei soggiornanti titolari di un permesso di lungo periodo (c.d. soggiornanti di lungo periodo UE, che la direttiva 2011/98/UE “non dovrebbe riguardare”, secondo quanto previsto dal Considerando n. 8).
Atteso che le garanzie sovranazionali “si riverberano sul costante evolvere dei precetti costituzionali, in un rapporto di mutua implicazione e di feconda integrazione”, è agevole comprendere le ragioni sottese ai dubbi della Consulta e della Cassazione relativamente alla compatibilità tra la disciplina italiana ed il diritto europeo: se la direttiva 2011/98/UE estende ai titolari di permesso unico le prestazioni sociali garantite ai cittadini europei, è necessario chiarire se tra le garanzie previste dall’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali in materia di sicurezza ed assistenza sociale possano essere annoverati gli assegni di natalità e maternità oggetto del giudizio in via incidentale.
In caso di risposta affermativa al quesito – si legge nell’ordinanza n. 182 del 2020 – è evidente che la disciplina di recepimento italiana, escludendo i cittadini stranieri titolari di un permesso unico dalla fruizione degli assegni di natalità e di maternità, risulterebbe in contrasto con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Il che, com’è ormai noto da alcuni anni, consentirebbe alla Corte costituzionale di procedere con una dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme oggetto di giudizio, sulla scorta di quanto statuito in occasione della celebre sentenza del 14 dicembre 2017, n. 269, in cui la Consulta ha precisato che “le violazioni dei diritti della persona postulano la necessità di un intervento erga omnes (…) anche in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 Cost.)” (5.2. del Considerato in diritto).
Ebbene, come si diceva in apertura, il chiarimento della Corte di giustizia è giunto il 2 settembre 2021 e risulta sorprendentemente imperniato non già sulla portata dell’art. 34 CDFUE “letto alla luce del diritto secondario”, bensì sul solo diritto derivato rilevante per la questione (sul punto, si veda D. Gallo).
L’aspetto maggiormente posto in risalto dai giudici di Lussemburgo è quello della qualificazione delle prestazioni oggetto della vicenda sottostante: le “prestazioni familiari” ai sensi dell’art. 3, paragrafo 1, lett. j) del regolamento n. 883/2004, infatti, sono rappresentate da quelle prestazioni destinate a compensare il carico familiare che: i) siano “attribuite ai beneficiari, prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle loro esigenze personali, in base ad una situazione definita ex lege”; ii) rispondano a criteri obiettivi riguardanti in particolare le dimensioni delle famiglie beneficiarie, il loro reddito e le loro risorse di capitale (paragrafi 52-75 della sentenza). E a tali criteri rispondono senz’altro sia gli assegni di natalità che quelli di maternità sottoposti ad esame: il dato che essi presentino anche una finalità premiale (diretta, cioè, ad incentivare la natalità), contrariamente a quanto sospettato dalla Consulta nell’ordinanza di rinvio, non è sufficiente ad escludere la riconducibilità degli stessi alle “prestazioni familiari” nel senso anzidetto.
Tanto premesso, se la Repubblica italiana non si è formalmente avvalsa della facoltà, pur garantita dall’art. 12, lett. b) della direttiva 2011/98/UE, di limitare le prestazioni previdenziali previste a favore dei cittadini di Paesi terzi, la disciplina nazionale, non estendendo ai cittadini in possesso del permesso unico le provvidenze previste a favore dei cittadini titolari di permesso di soggiorno UE, risulta incompatibile con la medesima direttiva.
La vicenda in commento si presenta interessante sotto più d’un punto di vista.
La Corte costituzionale italiana continua, sulla scia della vicenda CONSOB, a farsi promotrice di una rete di diritti comuni nello spazio europeo, da tessere instaurando una più stretta collaborazione con la Corte di giustizia che, per la prima volta in questa occasione, ha visto i due giudici confrontarsi sul tema dei diritti sociali.
A chi scrive pare che lo spirito di cooperazione che ha animato la Corte costituzionale negli ultimi anni sia condiviso dalla Corte di giustizia. La vicenda qui in commento, infatti, poteva senz’altro prestarsi ad offrire a Lussemburgo la possibilità di pronunciarsi sul punto della confermata competenza – segno di una “deferenza tutt’altro che sottomessa”, secondo la visione di S. Sciarra – della Corte costituzionale ad intervenire in merito a violazioni di norme sovranazionali, ancorché di diritto derivato, che coinvolgano i diritti fondamentali (cfr. Corte cost., sent. 21 febbraio 2019, n. 20). Ma la Corte di giustizia, nella sentenza del 2 settembre, ripercorre il passaggio dell’ordinanza che conferma l’accentramento del giudizio di costituzionalità in materia di diritti fondamentali senza formulare osservazioni sul punto. Il che sembra suggerire che anch’essa consideri una relazione intrisa di uno spirito di leale collaborazione con i giudici costituzionali troppo preziosa per lasciarsi andare a prese di posizione nel senso d’una chiusura nei confronti del proprio interlocutore (sul favore per l’atteggiamento collaborativo della Consulta anche dal punto di vista dello studioso del diritto sovranazionale, si rimanda a N. Lazzerini).
Sino a questo momento, tra precisazioni e rassicurazioni da parte della Consulta volte a delineare il perimetro dello spazio di intervento di ciascun operatore giurisdizionale coinvolto,  il dialogo tra la stessa e la Corte di giustizia ha attirato l’attenzione degli studiosi anzitutto per le complesse questioni operative che esso coinvolge. E invero, la più recente indicazione in tal senso è ravvisabile in Corte cost., sent. 30 luglio 2021, n. 182, 4.2. del Considerato in diritto, in cui la Corte ha ribadito che, qualora il giudice a quo evochi disposizioni sovranazionali a tutela di diritti fondamentali garantiti anche dalla Costituzione ed “ove non ricorrano i presupposti della non applicabilità della normativa interna contrastante con quella europea”, essa non intende esimersi dal pronunciarsi “con gli strumenti che le sono propri”, previo eventuale rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.
Tuttavia, le ultime vicende consentono di volgere lo sguardo verso la vera potenzialità del rinvio pregiudiziale nelle mani dei giudici costituzionali: quella di consentire una “fusione degli orizzonti interpretativi” (secondo la lettura di A. Morrone) in grado di stringere le maglie dell’integrazione europea guardando, anzitutto, ai diritti dei cittadini.