Obblighi di due diligence per le imprese multinazionali francesi nel difficile bilanciamento fra profitto e responsabilità

L’Assemblea Nazionale Francese ha recentemente approvato una legge in materia di vigilanza, riguardante le imprese multinazionali aventi sede legale in Francia, “Loi relative au devoir de vigilance des sociétés mères et des entreprises donneuses d’ordre”, (n. 2017-399 del 27 marzo 2017). La legge è entrata in vigore, con significativi emendamenti rispetto alla versione originale ed ha condotto alla modifica di alcune norme del code de commerce.
L’intervento normativo si colloca nel solco di quelle misure atte a tentare di arginare i sempre più frequenti e tragici episodi di violazione dei diritti umani, alla stessa stregua della legge britannica anti-schiavitù (Modern Slavery Act del 2015), dell’accordo olandese per la sostenibilità del settore tessile, del partenariato tedesco per un settore tessile sostenibile. Il crollo nel 2013 di un’intera palazzina occupata da lavoratori in un’industria tessile in Bangladesh (noto come il disastro del “Rana Plaza”), rappresenta soltanto il più significativo, in termini di perdita di vite umane, fra gli incidenti che avrebbero potuto essere evitati, se solo fossero state adottate adeguate misure di prevenzione.
L’ordinamento francese si è dunque dotato di un nuovo strumento denominato “Piano di Vigilanza”, finalizzato a garantire l’obbligo di diligenza su tutte le operazioni delle società controllanti e controllate, comprese quelle extra territoriali, nell’ottica di un controllo ad ampio raggio delle cd. catene di approvvigionamento globali dunque estensibile anche alle controllate, subappaltatrici, ecc., che abbiano intrapreso relazioni commerciali con le imprese aventi sede legale in Francia.
La proposta di riferisce in particolare alle imprese che occupano più di 5.000 dipendenti in Francia e 10.000 dipendenti in tutto il mondo e mira sostanzialmente ad un’integrazione delle disposizioni del code de commerce francese, con norme aventi la precipua finalità di imporre alle imprese in questione l'obbligo di sviluppare, diffondere e attuare un piano di vigilanza.  Esso dovrebbe contenere misure ragionevolmente idonee ad identificare i rischi e prevenire le violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali, della salute e sicurezza delle persone, nonché dell’ambiente che possono derivare dalle attività della capogruppo, dalle società da essa controllate e dai loro fornitori e subappaltatori situati in Francia e all'estero.
Il tratto di assoluto rilievo nel panorama normativo europeo, come noto prevalentemente caratterizzato dalla natura volontaria delle misure di responsabilità sociale di impresa, risiede nella vincolatività del piano in questione, con validità sul territorio nazionale e su tutta la catena produttiva delle multinazionali e ciò in linea con le tendenze più recenti espresse in ambito europeo, ma pur sempre con atti non vincolanti (v. da ultimo, la Risoluzione del Parlamento europeo del 27 aprile 2017 sull'iniziativa faro dell'UE nel settore dell'abbigliamento [2016/2140(INI)].
Il piano in questione sembra, infatti, dare forma ad una positivizzazione dei canoni tipici della responsabilità sociale dell’impresa sia nei contenuti, sia nelle modalità procedurali, atteso che viene redatto in collaborazione con le diverse categorie di stakeholders e comprende rilevanti misure di due diligence: una mappa dei rischi; procedure di valutazione della situazione delle società controllate, subappaltatori o fornitori; azioni di mitigazione del rischio o prevenzione di danni gravi; un meccanismo di allerta e raccolta delle relazioni riguardanti l’esistenza o la realizzazione di rischi, preparata in consultazione con le organizzazioni sindacali; un sistema di monitoraggio dell’effettività di tale strumento.
È inoltre stabilito che un decreto del Consiglio di Stato, in funzione integrativa delle misure sopra menzionate, possa specificare modalità per lo sviluppo e la messa in opera delle medesime. Il piano ed il relativo verbale dovrebbero poi essere incorporati nella relazione annuale e pubblicati.
Quest’ultimo aspetto appare in sintonia con un recente intervento di hard law in ambito domestico, il D.Lgs. del 30 dicembre 2016, n. 254, di attuazione della Dir. 2014/95/Ue (recante modifica della direttiva 2013/34/UE per quanto riguarda la comunicazione di informazioni di carattere non finanziario e di informazioni sulla diversità da parte di talune imprese e di taluni gruppi di grandi dimensioni), anch’esso indirizzato alle imprese di grandi dimensioni.
La normativa italiana, però, in linea con quanto prescritto dalla menzionata direttiva europea, ha una portata ben più limitata. In questo caso, infatti, l’aspetto vincolante attiene alla mera rendicontazione ossia alla circostanza di comunicare in modo trasparente nell’ambito del bilancio di sostenibilità gli indici di natura non finanziaria che l’impresa abbia adottato. Le imprese, tuttavia, conservano un ampio margine di discrezionalità nel definire il contenuto delle loro strategie; in altri termini non sono tenute ad adottare una politica di sostenibilità, ma hanno invece l’obbligo di rendere una «dichiarazione di carattere non finanziario». Laddove dunque non adottino la suddetta politica sono tenute esclusivamente a spiegare, secondo il noto meccanismo comply or explain, il motivo di tali scelte.
La strada che invece la Francia aveva tentato di intraprendere si prefigurava molto più incisiva, ma l’iniziale contenuto della proposta legislativa è stato sensibilmente ridimensionato dall’intervento tranchant della loro Corte Costituzionale.

Resta ferma la possibilità di intraprendere un ricorso per il risarcimento dei danni dinanzi al tribunale competente da qualsiasi persona portatrice di interesse ed il giudice può inoltre ordinare la pubblicazione della decisione o di parte di essa. Qualora il danno sia direttamente correlato alla mancata esecuzione o alla violazione del piano di sorveglianza attuato dal Gruppo, la capogruppo si impegna a riparare i danni subiti dalle vittime. Queste ultime hanno l’onere di dimostrare il nesso di causalità fra il danno e l’inadempimento. Nella specie si tratta di responsabilità civile contrattuale per colpa, negligenza o imprudenza, con riferimento ai principi generali di cui agli artt. 1240 e 1241 del codice civile francese. L’obbligazione della capogruppo non è strutturata quale obbligo di risultato, dal momento che si reputa che la capogruppo non possa avere il controllo operativo sulle controllate e i loro partners economici, ma si configuri piuttosto quale dovere di ragionevole diligenza.
La censura operata dalla Corte costituzionale ha riguardato prevalentemente il piano sanzionatorio: la proposta di legge stabiliva, infatti, che in caso di trasgressione delle regole in parola, dopo un iniziale ammonimento disatteso, l’impresa potesse essere condannata al pagamento di una sanzione pecuniaria fino a 10 milioni di euro; multa che poteva essere triplicata, a seconda di gravità e circostanze della violazione.
La Corte, con decisione n. 2017-750 del 23 marzo 2017, dichiarando incostituzionale la menzionata proposta, nella parte in cui prevede la possibilità di irrogare multe per la commissione di abusi su diritti umani e libertà fondamentali da parte delle imprese di grandi dimensioni, ha probabilmente minato il fattore di effettività e deterrenza cui la legge mirava.
Molti sono stati i rilievi mossi dal Consiglio costituzionale che hanno condotto al rigetto di quella porzione dell’atto legislativo, pur ammettendosi la rilevanza dell’interesse pubblico perseguito. L’aspetto che tuttavia emerge con maggior vigore è l’eccessiva vaghezza dalla quale sarebbero afflitte le norme proposte.
L’indeterminatezza delle prescrizioni, secondo la Corte, caratterizzano tanto le misure di due diligence, quanto la portata delle azioni finalizzate a fronteggiare e mitigare il rischio. A ciò si accompagna la consueta difficoltà nell’identificare con esattezza la nozione di violazione di "diritti umani" e "libertà fondamentali".
Invero la richiamata decisione costituisce lo spunto per richiamare l’attenzione sulle criticità da sempre ascritte al tema della responsabilità sociale di impresa.
Se, per un verso, infatti è comprensibile che l’irrogazione di una sanzione debba conseguire all’esatta individuazione della violazione commessa e soprattutto del soggetto (per ipotesi controllato o subappaltatore) effettivamente imputabile, per l’altro è altresì corretto rilevare che la statuizione di un obbligo, privato della relativa sanzione, rischi di divenire una pura enunciazione di principio.
Sì ha il sentore che la Corte - in linea del resto con le consuete preoccupazioni che accompagnano tradizionalmente lo stesso percorso di puntualizzazione delle misure di responsabilità sociale – abbia inteso dare voce al timore degli imprenditori francesi di subire un pesante svantaggio competitivo, in assenza della imposizione di corrispondenti obblighi a carico delle imprese concorrenti.