L’ergastolo “ostativo” alla prova della Corte EDU. Brevi osservazioni sulla sentenza Viola c. Italia

Nel mese di giugno 2019 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha per la prima volta sottoposto al proprio vaglio la disciplina dell’ergastolo c.d. “ostativo” disciplinato dall’art. 4bis dell’Ordinamento Penitenziario.
In particolare, il ricorso ha trovato origine nelle doglianze di un detenuto, Marcello Viola, le cui condanne nel 1995 e poi nel 1999 all’ergastolo (dovute alla sua appartenenza ad una associazione criminale calabrese di stampo mafioso di cui, peraltro, era risultato a capo e in virtù della quale era stato sottoposto al regime del c.d. “41bis” dal 2000 al 2006) e, soprattutto, l’assenza del requisito di “collaborazione con la giustizia” avevano impedito a più riprese tanto la concessione di permessi premio, quanto l’accesso al beneficio della liberazione condizionale.
L’oggetto del giudizio, sostanzialmente, riguardava l’automatismo legale volto ad impedire ex art. 4bis O.P. ai condannati per determinati gravi reati, di accedere a tutti i benefici penitenziari – che, peraltro, hanno quale unico scopo quello di promuovere la risocializzazione del detenuto a compimento dell’indirizzo costituzionale dettato dal terzo comma dell’art. 23 Cost. – qualora gli stessi non si rendano disponibili a “collaborare con la giustizia” nelle modalità descritte dallo stesso Ordinamento Penitenziario all’art. 58ter.
La sentenza ha quindi finalmente affrontato il nodo problematico dell’impossibilità di concedere qualsiasi provvedimento che influisca positivamente su entità e modalità di esecuzione della pena detentiva ai condannati all’ergastolo per determinati delitti se non “nei casi in cui tali detenuti e internati collaborano con la giustizia” dichiarandone la non conformità al dettato convenzionale.
Va detto che, in Italia, il tema della condanna a vita è stato oggetto di un numero assai copioso di interventi della giurisprudenza costituzionale, di legittimità e di merito. Proprio tale dato, in realtà, rappresenta un allarmante segnale allorché la Corte di Strasburgo, nonostante tale vaglio diffuso della giurisprudenza nazionale, evidenzi criticità tanto serie e gravi quanto quelle emerse nella sentenza in commento.
La Consulta, a ben vedere, è parsa adoperare come un vero e proprio grimaldello il terzo comma dell’art. 27 della Costituzione rileggendo i regimi detentivi “senza fine”, ma anche quello emergenziale disciplinato all’art. 4bis O.P., cercando di ricondurre a Costituzione tutto il sistema penitenziario italiano.
In via generale, nella sent. 313 del 1990 la Corte aveva affermato come la funzione di risocializzazione dovesse sempre e necessariamente accompagnare la pena dalla sua creazione normativa sino alla sua estinzione, ma anche giustificato la pre-condizione per accedere ai benefici penitenziari imposta dall’art. 4bis O.P. alla luce della discrezionalità del legislatore che, con tale disposizione, avrebbe inteso privilegiare la prevenzione generale rispetto alla singola posizione soggettiva di ogni detenuto (sent. 306 del 1993). Ancora, e sempre in relazione all’art. 4bis O.P., la Corte nella sent. 273 del 2001 ha ritenuto compatibile con il terzo comma dell’art. 27 Cost. l’idea che solo attraverso la volontà di collaborare con la giustizia il condannato per determinati e gravi delitti possa concretamente dimostrare la propria volontà di iniziare un percorso di reinserimento. Infine, i giudici costituzionali hanno anche escluso che tale divieto possa essere considerato un automatismo legale, non rappresentando un divieto assoluto ma una condizione necessaria per l’accesso ai benefici (sent. 135 del 2003).
Ebbene, tali indirizzi interpretativi non sembrano però aver incontrato la condivisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Infatti, la Corte sovranazionale ha escluso la conformità ai principi generali di rispetto della dignità dell’uomo della circostanza che alcuni benefici penitenziari possano essere inderogabilmente subordinati ad una condotta attiva di collaborazione con le autorità inquirenti del reo. «Il principio della “dignità umana”», affermano i giudici convenzionali, «impedisce di privare una persona della sua libertà con la costrizione senza operare, nel contempo, per il suo reinserimento e senza fornirgli una possibilità di recuperare un giorno tale libertà» (par. 113).
Di più, la nozione di “collaborazione” individuata nell’ordinamento italiano non può in alcun modo essere considerata quale sintomo di un percorso di reinserimento e rieducazione libero e consapevole, rappresentando al contrario l’“unica opzione aperta al ricorrente” dallo Stato, che influisce direttamente su beni fondamentali come la libertà personale e la libera autodeterminazione dell’individuo ristretto(«Se è vero che il regime interno offre al condannato la scelta se collaborare o meno con la giustizia, la Corte dubita della libertà di tale scelta, così come dell’opportunità di stabile un’equivalenza tra la mancanza di collaborazione e la pericolosità sociale del condannato», par. 116).
Nel ragionamento della Corte, peraltro, si è coerentemente inserita una variabile specifica relativa alla tipologia di ambiente criminale nel quale si sviluppano i reati più gravi individuati dall’art.4 bis O.P.: la minaccia di violenza, ritorsione e aggressione ai familiari ed ai congiunti del potenziale “collaboratore”.
Non solo, quindi, la scelta di collaborare non sarebbe di per sé libera e quindi non può fungere da parametro di giudizio del percorso di risocializzazione ma, ancor di più, deve prendersi coscienza del fatto che la decisione di non collaborare sia spesso altrettanto non libera, essendo il frutto non di una determinazione susseguente alla fedeltà all’organizzazione criminale, bensì conseguenza diretta della paura per l’incolumità dei propri cari.
La Corte ha, in ogni caso, sottolineato come coerentemente ai propri principi il sistema detentivo italiano offra un vasto arco di opportunità progressivamente più intense perché il detenuto, in perfetta osservanza del terzo comma dell’art. 27 Cost., possa ritornare a diretto contatto con la società potendo così pienamente reinserirsi nel complesso sistema vitale seguendo quell’iter intorno al quale la potestà punitiva deve necessariamente articolarsi. Tanto più, quindi, stupisce come si possa aver privato di qualsiasi “beneficio”, peraltro indirizzato esclusivamente al pieno compimento della funzione rieducativa che il carcere dovrebbe avere, un detenuto come Viola, il ricorrente, la cui condotta detentiva ultradecennale era stata priva di qualsiasi richiamo. Di più, tale situazione è stata esclusivamente frutto di un divieto tout court imposto dall’ordinamento senza alcuna possibilità di gradazione, di cui difficilmente – se non a prezzo di un complesso e forzato iter logico – può trovarsi una coerenza ai principi della nostra Costituzione e del comune sentire europeo.
Proprio in questo senso, la Corte ha considerato che sulla base dell’art. 4 bis O.P. la “non collaborazione con la giustizia” abbia finito per rappresentare una ineluttabile – e quindi incomprensibile – presunzione di pericolosità priva di qualsiasi giustificazione concreta e, quindi, sicuramente eccessiva. Si deve infatti anche tener conto di come «la suddetta presunzione inconfutabile impedisce de facto al giudice competente di esaminare la domanda di liberazione condizionale e di verificare se, durante l’esecuzione della sua condanna, il ricorrente si sia talmente evoluto e abbia fatto progressi nel cammino della correzione per cui il mantenimento della detenzione non è più giustificato per motivi inerenti alla pena» (par. 129).
Come sempre, i giudici convenzionali non hanno ignorato la “storia criminale” del ricorrente, prendendo atto della pericolosità sociale del ristretto ma, allo stesso tempo, ricordando come non si possa attuare una presunzione di pericolosità solo in ragione del crimine commesso, tanto più se il fatto sia avvenuto a distanza di tanto tempo. In questa prospettiva, l’art. 3 CEDU costituisce un limite invalicabile a qualsiasi pretesa dello Stato, che non può mai e per nessun motivo sottrarsi al vaglio di coerenza del proprio ordinamento e della propria condotta alla luce del divieto assoluto di tortura e trattamenti inumani e degradanti.
Nell’iter argomentativo dei giudici di Strasburgo, peraltro, un ruolo centrale è svolto, anche in questo caso, dal concetto di dignità umana. Privare un individuo della libertà personale significa sottoporne la dignità ad uno “stress test” non indifferente che, seppure la restrizione sia legittima e coerente, impone un perdurante controllo sul percorso di risocializzazione e riabilitazione. Affermare che un determinato regime detentivo sia in contrasto con le tutele approntate della Convenzione, sia chiaro, non significa che il detenuto debba essere liberato, o che non dovesse essere ristretto ma, più correttamente, che l’ordinamento giuridico nazionale deve farsi carico, nell’amministrazione della pena, del principio di dignità che, come tale, costituisce limite e barriera critica rispetto all’esercizio del potere.
In effetti, «le cose potranno sensibilmente cambiare soltanto quando (…) si comprenderà che – senza retorica – togliere la dignità e la speranza ad un proprio simile significa toglierle a se stessi» (Glauco Giostra, “Il rimedio compensativo della riduzione di pena: problematiche tecniche e demagogici allarmismi”, in “Il senso della pena. Ad un anno dalla sentenza Torreggiani della Corte EDU”, a cura di Marco Ruotolo, Editoriale Scientifica, Napoli 2014, pag. 126).


L’equilibrio instabile fra carcere duro e Dignità umana. Il caso Provenzano: alcune riflessioni sulla sentenza della Corte di Strasburgo

Alla fine dello scorso ottobre la Corte Europea dei Diritti Umani è tornata ad occuparsi del regime carcerario “duro” previsto in Italia (ex art. 41bis Ordinamento Penitenziario). Il ricorso era stato promosso prima della morte di Bernardo Provenzano, un condannato per gravi crimini di mafia, e dopo tale evento era stato comunque portato avanti dal figlio, la cui legittimazione a procedere era stata confermata, nonostante le contestazioni dello Stato italiano, in ragione dell’evidente interesse alla tutela della dignità e dei diritti del padre defunto.
Proprio su tale punto, nello specifico, la Corte ha rappresentato come sia oramai principio granitico della propria giurisprudenza (si pensi alle decisioni Ergezen c. Turchia, n. 73359/10; Fairfield c. Regno Unito, n. 24790/04; Biç ed altri c. Turchia, no. 55955/00) l’orientamento secondo cui “the issue of whether a person may be considered an indirect victim is only relevant where the direct victim dies before bringing his or her complaint before the Court” (par. 95). Di più, “human rights cases before the Court generally also have a moral dimension, and persons near to an applicant may thus have a legitimate interest in ensuring that justice is done, even after the applicant’s death” (par. 96).
La modalità di detenzione speciale prevista dall’ordinamento penitenziario italiano e disciplinata dall’art. 41bis, approntata dal legislatore proprio con il principale scopo di contrastare il fenomeno criminale mafioso, era peraltro già stata nel recente passato più volte oggetto del sindacato della Corte europea in un vasto numero di casi concernenti contestazioni simili a quelle promosse da Provenzano (a mero titolo esemplificativo appare utile ricordare i casi Argenti c. Italia, n. 56317/00, Enea c. Italia, n. 74912/01; Campisi c. Italia, n. 24358/02; Paolello c. Italia, n. 37648/02).
Nell’affrontare il caso de quo, i giudici di Strasburgo hanno in prima istanza dettagliatamente ripercorso la storia criminale del Provenzano, sottolineando la certa ed assoluta gravità dei reati compiuti, ricordando inoltre i quarant’anni di latitanza di cui è stato protagonista, e riconoscendo in via generale in tutte queste ragioni una corretta ed idonea motivazione per la sottoposizione del detenuto al più arduo regime proposto dall’ordinamento penitenziario italiano.
Orbene, la Corte si è soffermata sulle ragioni del ricorrente, che ha lamentato l’incongruenza del regime carcerario con le proprie condizioni di salute. In particolare, la Corte ha dato particolare valore e risalto a due perizie d’ufficio disposte dall’autorità giudiziaria italiana nell’ambito di alcuni procedimenti pendenti a carico del Provenzano a Palermo che nel 2012, e poi ancora nel 2013, avevano dato prova dell’ormai intervenuta incapacità di intendere e di volere del detenuto.
Di più, la Corte ha evidenziato come nel 2016 alcuni organi dello stesso Stato italiano (in particolare la Commissione per la protezione e la promozione dei diritti umani del Senato della Repubblica) avevano raccomandato nel proprio “Rapporto sul Regime Detentivo Speciale” del 41bis di prestare “more accurate evidence gathering (istruttoria) by the offices involved in the renewal of the application of the special prison regime, in order to avoid the imposition of the regime with respect to persons who are mentally incapacitated (incapaci di intendere e di volere)” (così citato nel par. 92).
Il ricorso avanzato dal detenuto italiano e dai suoi familiari è stato sostanzialmente ricondotto dalla Corte a due ragioni: la prima riguardante la compatibilità del detenuto con la detenzione in ragione delle proprie condizioni di salute; la seconda, invece, concernente la protratta imposizione del regime carcerario duro ex art. 41bis O.P. nonostante l’aggravarsi delle proprie condizioni fisiche e psichiche.
Come sempre, la Corte ha ribadito che l’art. 3 della Cedu “enshrines one of the most fundamental values of democratic society” (par. 126) e il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti deve essere considerate assoluta e in nessun caso derogabile, sia anche per ragioni di sicurezza nazionale o sopravvivenza dello Stato, richiamando a tal fine proprio una sentenza di condanna contro l’Italia (Labita c. Italia, n. 26772/95). Ancora, esiste certamente un limite minimo sotto il quale un trattamento che astrattamente configuri una condotta inumana allo stesso tempo non si traduca immediatamente in una violazione del dettato dell’art. 3 CEDU (a tal fine risultano assai utili le riflessioni già operate nei casi Kudła c. Polonia, n. 30210/96; Peers c. Grecia, n. 28524/95; Enea c. Italia, n. 74912/01; ma anche Bouyid c. Belgio, n. 23380/09), tuttavia, si è ribadito, “the assessment of this minimum is relative: it depends on all the circumstances of the case, such as the duration of the treatment, its physical and mental effects and, in some cases, the sex, age and state of health of the victim” (par. 126).
Ebbene, “the State must ensure that a person is detained in conditions which are compatible with respect for human dignity, that the manner and method of the execution of the measure of deprivation of liberty do not subject him to distress or hardship of an intensity exceeding the unavoidable level of suffering inherent in detention” (par. 127). Tutto ciò, naturalmente, senza poter distinguere l’intensità del diritto al rispetto della persona dei diversi detenuti in base ad una mera valutazione relativa al crimine commesso, alla sua intensità ovvero alla gravità delle condotte perpetrate.
A tale punto della propria ricostruzione, la Corte ha iniziato ad approfondire la specifica vicenda in analisi, dovendo osservare come già dopo pochi anni di detenzione, il Provenzano aveva iniziato a soffrire di un vasto numero di malattie croniche, che ne hanno gravemente condizionato la salute, finendo per essere progressivamente sempre più compromesse tutte le sue funzioni cognitive (cfr. par. 131).
In definitiva, comunque, la Corte non ha inteso individuare nella detenzione in sé una violazione dell’art. 3 CEDU, e ciò proprio in ragione di specifiche peculiarità del soggetto detenuto, dei reati commessi, della condotta carceraria, delle cure e dell’assistenza che il Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria italiano aveva costantemente fornito al ristretto. Al contrario però, la Corte non ha potuto in alcun modo accogliere la difesa del Governo italiano secondo la quale l’imposizione reiterata del regime di detenzione più gravoso presente nel proprio sistema penitenziario fosse giustificato dalla “continua pericolosità sociale” del Provenzano e dalla “gravità dei crimini commessi” (cfr. par. 146).
Orbene, la Corte ha ricordato di essersi già occupata in un vasto numero di occasioni dei pericoli insiti in un regime tanto duro quale quello previsto dall’art. 41bis dell’ordinamento penitenziario italiano. Alla luce di questa lunga esperienza di confronto con tale previsione normativa, essa ha concluso con certezza che nella maggior parte dei casi “the imposition of the regime does not give rise to an issue under Article 3, even when it has been imposed for lengthy periods of time” (par. 147). Nonostante ciò, tuttavia, la severità delle previsioni – soprattutto nei casi di imposizione prolungata – impone una particolare forma di controllo delle motivazioni attuali in ragione delle quali si prosegue tale ulteriore imposizione restrittiva a danno dei detenuti, in assenza della quale – ovvero qualora essa non sia operata in maniera corretta ed idonea – si può facilmente cadere in una violazione più o meno grave dell’Art. 3 CEDU.
Riguardo il caso Provenzano, nonostante la Corte abbia preso piena coscienza di quanto “the applicant had been an extremely dangerous individual and a prominent leader of one of the largest existing criminal organisations” (par. 150) allo stesso tempo tuttavia, le giustificazioni avanzate dallo Stato italiano sulla base delle quali l’autorità giudiziaria competente avrebbe deciso di prolungare il regime di 41bis nonostante le condizioni di salute del detenuto non sono apparse affatto convincenti. Al contrario, anzi, “the picture which emerges from the medical documentation available to the Court (…) is one which may at least cast some legitimate doubts on the applicant’s persistent dangerousness and his ability to maintain meaningful, constructive contact with his criminal association” (par. 151).
La Corte ha quindi ribadito che l'essenza ed il fulcro della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo risiede nel rispetto della Dignità umana, e che pertanto tale oggetto finale della protezione approntata deve trovare nelle disposizioni convenzionali e nella loro applicazione una tutela concreta, pratica ed efficace (come peraltro già ampiamente argomentato nel caso Svinarenko c. Russia, n. 32541/08 e Slyadnev c. Russia, n. 43441/08).
È di tutta evidenza, quindi, come “subjecting an individual to a set of additional restrictions, which are imposed by the prison authorities at their discretion, without providing sufficient and relevant reasons based on an individualised assessment of necessity, would undermine his human dignity and entail an infringement of the right set out in Article 3” (par. 152).
Ancora una volta, in sostanza, la Corte si è trovata a dover ribadire che rispondere al crimine, anche il più feroce, con le stesse armi di sopraffazione e disumanità contro le quali ci si sta rivolgendo, degradare per vendicarsi, dimenticare il valore della dignità dell’essere umano, anche di quello che si è macchiato di crimini tremendi, rappresenta l’estrinsecazione di una modalità di approccio all’illegalità che non può trovare posto nel nostro sistema di diritti. Nella tutela della persona, al netto dei crimini commessi, risiede infatti il punto più alto dell’effettività della giustizia, e la Corte europea di Strasburgo ha dovuto nuovamente ricordarlo all’Italia.

 


Guarantees of rights and protection of diversity: towards a constitutional interpretation of the secessionist requests

Studies on dissolution and secession have acquired ever greater centrality because of the growing crisis of the state sovereignty’s supremacy (J. Butler e G. Chakravorty Spivak, “Che fine ha fatto lo stato-nazione?”, Meltemi Editore, Rome 2009; M. Luciani, “L’antisovrano e la crisi delle costituzioni”, Rivista di diritto costituzionale, 1996, p. 178 ss.; N. MacCormick, “La sovranità in discussione. Diritto, stato e nazione nel «commonwealth» europeo”, Il Mulino Editore, Bologna 1999) which has undermined the idea of ​​nation (P. Ridola, “Diritto comparato e diritto costituzionale europeo”, Giappicchelli Editore, Turin 2010; S. Benhabib, “Cittadini globali. Cosmopolitismo e democrazia”, Il Mulino Editore, Bologna 2008; C. Galli, “Spazi politici. L’età moderna e l’età globale”, Il Mulino Editore, Bologna 2001). This condition of crisis has generated a fracture of national identities through the re-emergence of local and regional identities.
The interpretation of these phenomena (and especially of the recent secessionist and dissolutive requests that brought to bthe crisis of the political unity’s concept) must be developed through a dynamic vision of comparison between the state and sub-state communities. This approach can dissolve the disruptive character of secession instance (S. Mancini, “Ai confini del diritto. Una teoria democratica della secessione”, Osservatorio Costituzionale, January 2015) notwithstanding the classic and well-known theory of secession as a form of revolution (H. Kelsen, “Teoria generale del diritto e dello stato”, Etas editore, Milan 1994).
Certainly, secession represents a problematic concept with a contradictory nature (S. Mancini, “Ai confini del diritto. Una teoria democratica della secessione”, cit.). Nevertheless, it cannot be roughly forced into the enclosure of the unlawful. A constitutional idea of ​​secession is possible, and the attempt to develop a constitutional theory of secession as a form of political action is ancient (J. Althuius, “La politica. Elaborata organicamente con metodo, e illustrata con esempi sacri e profani”, eds. C. Malandrino, Claudiana Editore, Turin 2009). However, opposite readings of this phenomenon have been, so far, more successful and one of the main troublesome issues of secession results from the affirmation of state sovereignty’s absolute supremacy (such US Supreme Court expressed, for instance, in the judgment Texas vs White: “When Texas became one of the United States, she entered into an indissoluble relation. The union between Texas and the other States was as complete, as perpetual, and as indissoluble as the union between the original States. There was no place for reconsideration or revocation, except through revolution or through consent of the States”). Such an interpretation of the local realities’ instances did not leave space for the constitutional theories of division (whatever the intensity of this division) that originated in the US southern states during the nineteenth century. In this manner, during the following century, the theories hostile to secession ended up influencing the very behaviour of international law towards the requests for recognition of the local identities.
Even so, the local identity’s instances represented a core element in the development of the idea of ​​state. Such instances are not necessarily characterized by the disruptive end, as they can represent, instead, the dynamic element at the base of an evolution of the concept of sovereignty that survives the crisis of ​​nation. In this way, the secessionist issues (which does not necessarily have a breaking ending, potentially finding its true realization in the protection of unity) can act as an emergency valve, getting to represent a tool for the protection of cultural and historical minorities.
According to this interpretation, the Quebec’s secessionist conflict is one of the most significant for a constitutional reading of the concept of secession. Moreover, the successful way in which it was managed can be identified as a paradigm. The Canadian Supreme Court, in fact, had an unexpected success in tempering the secessionist issue by a decisive but conciliatory intervention. The court's approach opened to those theories that – giving relevance to local identities – admit a disruptive conclusion of the secessionist instance (M. Lind, “In defense of liberal nationalism”, Foreign Affairs, 73, No. 3, 1994; D. Miller, “On Nationality”, Oxford University Press, Oxford 1997, p. 92). Balancing that, the court has drawn up a series of rigid procedural forms on which building the request for greater autonomy or even independence. The target of the court, in essence, was to resolve the conflict without opening a clash.
The interpretive work of the Canadian court has rejected the vision of secession as a remedy for injustice (A. Buchanan, “Secessione: quando e perché un paese ha il diritto di dividersi”, Mondadori Editore, Milan 1994) by sharing the theories of national identity (A. Margalit, “La società decente”, Guerini e Associati, Milan 1998; J. Raz, “The Authority of Law: Essays on Law and Morality”, Oxford University Press, Oxford 2009) and combining them with those based on the democratic process (H. Beran, “The consent theory of political obligation”, Routledge Kegan & Paul, London 1987). The court emphasized the theory according to which the guarantees of rights and the protection of diversity (J.S. Mill, “Considerazioni sul governo rappresentativo”, Editori Riuniti, Rome 1997) are best expressed in the democratic and multinational state. At the same time, the court gave centrality to the concept of freedom (in particular freedom of association) recognizing the importance of admitting the dissociation from the state.
Following this interpretation, minorities certainly have a right to demand the opening of a change process, but that demand can be transformed in a secessionist request only according with the constitutional forms. The possibility of opening a path that could potentially lead to the creation of a new state must be allowed, but only through the negotiated way.
In fact, for the Canadian court “to negotiate” means recognizing that in a democratic and plural society the elevation of one's position to absolute is not admissible. Therefore, “to negotiate” means opening up to the other; finding a common solution to the opposing instances; recognizing differences; looking for a way based on mutual respect.
The considerations of the Canadian Court on the management of the conflict have been disregarded by the Spanish constitutional court in the Catalan case. In fact, the Spanish court seems to have sharpened the conflict between the central government and the Catalan community. Nevertheless, no one has ever intended “to define the details of a consensual secession” in order to “negotiate” but rather “to discuss in good faith a political solution to the conflict” (V.F. Comella, “La Catalogna e il diritto di decidere”, Lo Stato. Rivista Semestrale di Scienza Costituzionale e Teoria del Diritto, No. 6, year 2016, p. 236).
The tension between Madrid and Barcelona stems from the Constitutional Tribunal's ruling on the 2010 Catalan statute (judgement No. 31 of 2010). The new statute, founded on constitutional uniqueness of Catalonia, tried to acknowledge all aspects of Catalan identity (people, nation, language, historical differences), using constitutional-consistent tools (at the least in purpose) and following paths that aimed to keep Catalonia within constitutional borders. However, the decision issued in 2010 – in contrast with the autonomous demands and without any balance – has questioned the “autonomic peace” strenuously achieved at the end of Franco's totalitarianism. The court, as expressed by Judge Martin de Hijas in his dissenting opinion, incoherently used its interpretative power, turning into a “positive legislator” (R. Ibrido, “Il ‘derecho a decidir’ e il tabù della sovranità catalana. A proposito di una recente sentenza del Tribunale costituzionale spagnolo”, Federalismi.it, No. 14, year 2014).
The Constitutional Tribunal has essentially transformed “a debate on the recognition” (J. M. Castellà Andreu, “La sentencia del Tribunal Constitucional 31/2010 sobre el Estatuto de Autonomía de Cataluña y su significado para el futuro del Estado autonómico”, Federalismi.it, No. 18, year 2010) – based on a “right to decide” that the Court had accepted as a political aspiration but not as a true right – in a showdown. Consequently, frustration of Catalan people turned into an unconditional political support to the independentist parties, which gradually gained more centrality in the government of the Catalan Generalitat reaching parliamentary majority.
In this context, the Catalan Parliament approved in 2013 the resolution no. 5/X: a deliberately subversive measure based on the assumption that the Catalan people in its history had already democratically manifested the desire of government autonomy: that transformed the Catalan issue into a constitutional conflict which brought to the complete rejection of any negotiation about peaceful coexistence.
The reaction of the Constitutional Tribunal was very harsh. In the decision no. 42 of 2014, it reacted to the Catalan resolution by elevating to "dogma" the concept of sovereignty and closing off any possibility of mediation with the instances of autonomy. In this way, any residual space for the recognition of local instances has been severely circumscribed.
Between 2015 and 2016 it was already uncertain whether there was still the possibility of a negotiated solution between the Spanish and Catalan governments able to avoid a breakpoint. Subsequently, the progressive enlargement of the electoral base of the Catalan “antisystem” parties led to the definitive explosion of the clash in 2017, when the government of the Generalitat approved laws No. 19 and No. 20 of 2017 concerning “the establishment of a self-determination referendum” and “the legal transition to the Catalan Republic”.
The Spanish constitutional court did not set itself as an element of cohesion, but as an active part of the conflict. With a series of judgments (No. 114 and No. 124, but also with No. 121 on “rules for the celebration of the referendum” and No. 122 on “convening of the referendum”), the court passed on all the legislative measures of the Catalan institutions, fighting not only "on one side" but, even more, exclusively "for a side".
In this vein, the different epilogue of the various identity instances appears to be closely linked whit the role displayed by Constitutional courts as dealing with conflicts arising from secessionist requests. In fact, when the courts have placed themselves in a conflictual way against the identity instances of minorities (Catalan case), those instances have become real attempts at secession. Otherwise, when the same courts have developed a dialogue (rectius, a negotiation) aimed at recognizing local issues (Quebec’s case; Basque case), unity has always been protected.
Therefore, the discrimen between the crisis and the maintenance of the legal system lays in the different reaction to the emergent instances of recognition rather than in the concrete strength of these requests. Indeed, that’s one of the reasons why even international law has given to the conflicts aimed at the formation of new states a procedural reading with the aim of reducing the conflict (A. Tancredi, “La secessione nel diritto internazionale”, CEDAM, Padua 2001).
Furthermore, secession processes – regarded through the prism of the decisions issued by Constitutional courts – appear to be deeply intertwined with constitutional dynamics. Courts’ decisions open up the possibility for a dynamic understanding of secession, whose outcome can go beyond the rupture of the unity, leading instead to a more articulated recognition of differences.
At the outset, a constitutional approach to secession – notwithstanding how counterintuitive it may seem – can soothe the traditional conundrum between right to self-determination and rupture of national unity. The role of Courts, in this light, eases a wider and context-sensitive comprehension of secession, which engages with the function of the Constitution as a tool for integration and for the inclusion of differences.

*This paper is a reworked version of a speech held by the author at the King's College of London for the 2018 International Graduate Legal Research Conference


Art. 3 CEDU: l’Italia condannata nuovamente per tortura. Brevi appunti sul caso Bolzaneto e sul nuovo art. 613bis c.p.

Il 26 ottobre 2017 la Corte di Strasburgo ha pubblicato tre nuove decisioni concernenti gli ormai noti fatti inerenti la repressione delle contestazioni no-global durante il G8 che si tenne a Genova nel 2001.
In particolare, le sentenze Azzolina ed altri c. Italia e Blair ed altri c. Italia – riguardanti i casi di tortura nella caserma-carcere di Bolzaneto – hanno rappresentato «un campanello d’allarme che richiede importanti e urgenti azioni» (così il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale nel comunicato stampa del 26 ottobre 2017) rappresentando una rilevante occasione per tornare a ragionare sul necessario incremento della lotta alle condotte di tortura che hanno caratterizzato (e potrebbero in futuro ancora caratterizzare) l’azione delle forze di polizia anche in paesi comunemente ritenuti civilizzati e rispettosi dei diritti fondamentali come l’Italia.
In primo luogo, è da rammentarsi come l’art. 3 CEDU, rubricato “Proibizione della tortura” e privo di qualsivoglia possibilità di deroga (oltre che escluso dalla possibilità di sospensione prevista dall’art. 15 CEDU), vieti due diverse tipologie di condotta: da un lato è posto a tutela dei soggetti che si trovino costretti da una condizione – non solo di reclusione – “inumana o degradante”; ancor prima sancisce, in maniera volutamente perentoria, come “nessuno può̀ essere sottoposto a tortura”.
Storicamente, la giurisprudenza convenzionale – che pure ha fatto un larghissimo uso dell’art. 3 – ha fatto ricorso con assai maggior facilità (dovuta certamente alla vastità dello spettro fattuale che ricomprende le condotte vietate dalla seconda parte dell’art. 3) al divieto di “pene o trattamenti inumani o degradanti”, individuando un rilevante e fondamentale solco di distinzione fra quel tipo di condotta e quello di “tortura”, del quale ha invece fatto un uso assai più accorto (dovuto alla sua maggior gravità), fondato sull’approfondita analisi del caso concreto oggetto di giudizio.
In questo senso, ed in modo particolare, rileva come per la Corte di Strasburgo la tortura non abbia mai rappresentato una condotta codificata su parametri stabiliti ab origine, bensì sull’elasticità del giudizio in merito a condotte che possono a seconda della loro intensità, gravità ed intenzionalità rientrare nella seconda ovvero nella prima parte del disposto dell’art. 3 (come sin da subito la Corte provò a spiegare nella sentenza Irlanda c. Regno Unito del 1978).
Tale interpretazione è strettamente legata alla particolare lettura che, da sempre, a Strasburgo è stata data del concetto di “tortura”: non invero una condotta isolata a danno dell’integrità fisica, psicologica o mentale della vittima, bensì una forma assai più grave, intensa e/o intenzionale di trattamento inumano e degradante. In questa chiave di lettura, peraltro particolarmente acuta ed efficace, la “tortura” non sarebbe quindi una condotta scorporata dal contesto, bensì l’apice di gravità di azioni comunque illecite e deprecabili.
Prima di entrare nel merito delle condanne emesse contro il nostro paese, una riflessione più approfondita merita la questione dell’assenza nell’ordinamento italiano all’epoca dei fatti (e per oltre quindici ulteriori anni) del reato di tortura. La Legge 110/2017 ha dato seguito al perentorio invito della Corte di Strasburgo del 2015 a dotarsi di strumenti idonei ed efficaci per il contrasto di tutte le possibili condotte in violazione dell’art. 3 CEDU che in Italia ancora non erano qualificabili come autonomo reato di tortura. In effetti, a causa di tale vulnus, quelli che per la Corte erano episodi indiscriminati di tortura, finivano nel nostro paese per restare ciclicamente impuniti. Proprio in tale ottica la legge ha tentato di porre rimedio a quella che poteva essere a buon titolo definita una vera e propria “aporia” del sistema italiano, fondato su principi che nulla concedevano a condotte assimilabili alla tortura ma incapace di combatterle in quanto privo di strumenti idonei a farlo. In conseguenza, è accaduto di frequente che, come nel caso di specie, le condotte astrattamente sussumibili nella nozione di tortura siano rimaste impunite sia per l’assenza della fattispecie incriminatrice, sia per effetto di provvedimenti di clemenza (come, nel caso de quo, l’indulto), ovvero ancora per effetto della prescrizione applicabile alle più miti fattispecie di reato ascritte (lesioni, percosse, violenza privata, minacce, abuso d’ufficio) richiamando le particolarmente gravi critiche dalla Corte europea. Oggi, ad ogni modo, come ha ben ricordato il Garante nazionale dei detenuti nel comunicato stampa già citato, «l’introduzione del reato di tortura nel codice penale consente al nostro paese di rispondere in maniera adeguata a gravi violazioni dei diritti umani come quelle avvenute nei casi delle due sentenze» Azzolina ed altri e Blair ed altri c. Italia.
Già nella sentenza Cestaro c. Italia del 2015, fra l’altro, la Corte EDU aveva fatto presente che la tutela degli individui rispetto a condotte assimilabili alla tortura imponesse di garantire loro forme di ristoro concreto, cioè in nessun caso meramente economico bensì sempre fondato prima di tutto sul perseguimento dei colpevoli. Anche in questo caso, l’ordinamento italiano era stato condannato a causa di una lacuna grave ed inaccettabile, data dal già richiamato contrasto tra i principi radicalmente contrari a condotte di tortura e la colpevole assenza di norme adatte alla loro repressione.
Nelle recenti sentenze oggi in commento, la Corte ha voluto sottolineare la particolare ed inaudita gravità dei fatti in giudizio in ragione del loro svilupparsi a danno di soggetti posti sotto il diretto controllo delle forze di polizia (in questo senso era già stato ampiamente chiarito – e la Corte lo ha nuovamente ribadito citando direttamente i principi già espressi – che in casi simili non possono mai essere previste forme di tolleranza o giustificazione alla luce del particolare ruolo ricoperto dalle forze di sicurezza dello Stato e dalla necessaria affidabilità che deve caratterizzare il rapporto fra esse e il soggetto coinvolto, cfr. sentenza Bouyid c. Belgio del 2015 e Bartesaghi Gallo ed altri c. Italia del 2017). Quindi, ripercorsi dettagliatamente gli abusi ai quali le vittime sono state sottoposte, i giudici di Strasburgo si sono soffermati sull’inefficienza repressiva del sistema italiano: anche dinanzi a fatti ampiamente comprovati in sede giudiziale, il nostro ordinamento non era stato capace di portare a termine un iter processuale che conducesse alla condanna dei colpevoli, i quali avevano invece potuto beneficiare della prescrizione (i reati a loro ascritti erano sostanzialmente un gran numero di reati di lieve entità vista come già ricordato l’assenza di un reato ad hoc, e pertanto i termini di prescrizione erano decorsi in tempi assai brevi) ovvero della concessione dell’indulto. La Corte ha inoltre voluto stigmatizzare la grave responsabilità di tutta la catena di comando coinvolta: non solo è stato specificamente confermato quanto già statuito dalla Corte di Cassazione italiana (Cass. pen., sez. V, sent. n. 3708813/2013) in merito alla responsabilità diretta quantomeno in forma omissiva (ex art. 40 c.p.) di coloro i quali erano transitati all’interno della caserma di Bolzaneto, ma è stato soprattutto sottolineato come le forze di polizia italiane abbiano violato il proprio dovere di proteggere i soggetti sottoposti alla loro giurisdizione garantendone non solamente i diritti strettamente procedurali, ma ancor di più tutelandone e garantendone la dignità. In questo senso, infine, la Corte ha voluto rappresentare la violazione dell’art. 3 CEDU non solamente quale effetto delle gravi violenze dirette sulle vittime ma, in aggiunta a ciò, quale conseguenza dell’ulteriore violazione del dettato convenzionale attraverso l’esposizione all’uso incontrollato e illegittimo della violenza anche nei confronti delle altre vittime degli stessi abusi, fattore che ha definitivamente certificato il superamento della linea di confine esistente fra “trattamenti inumani o degradanti” e “tortura”.
Si aggiunga inoltre che, nelle sentenze in commento, la condanna subita dall’Italia non è stata semplicemente legata a riprovevoli azioni compiute dagli organi di sicurezza dello stato, o a colpevoli mancanze dell’ordinamento giurisdizionale, quanto ancor più gravemente all’apparente atteggiamento di impunità dovuto all’intervento della prescrizione che, come ribadito dalla Corte di Strasburgo e dal Garante nazionale, non può in alcun caso essere tollerato.
È necessario a questo proposito prendere atto di come, ancora una volta (si veda il caso delle sentenze Sulejmanovic c. Italia del 2009 e Torreggiani ed altri c. Italia del 2013 in materia di sovraffollamento carcerario), l’ordinamento italiano aveva avuto necessità di una forte spinta dall’ordinamento convenzionale (e quindi sovranazionale) per giungere a modificare il diritto interno conformandolo a principi di tutela della persona, nonostante tali stessi principi siano chiaramente contenuti anche nella Carta costituzionale italiana come ha da ultimo ricordato la Corte costituzionale nella sentenza n. 258 del 25 ottobre-8 novembre 2017, laddove ha ribadito che: «l’art. 2 Cost., nell’imporre alla Repubblica il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili (…) delinea un fondamentale principio che pone al vertice dell’ordinamento la dignità e il valore della persona».


Opinione pubblica e funzione della pena. Il caso Riina fra tutela della dignità della persona ed effettività della reazione penale ai crimini feroci

La sentenza 27766/17 della Corte di Cassazione, che resterà certamente nota come “sentenza Riina”, affrontando in diritto temi pratici riguardanti il rapporto esistente – e da salvaguardare – fra dignità del detenuto e questioni di trattamento penitenziario, è tornata ancora una volta a far emergere in tutta la sua complessità il delicatissimo tema della funzione della pena, mettendo in luce quanto sia ancora radicata nell’opinione pubblica l’idea di un’esecuzione penale fondata sulla retribuzione in risposta al reato commesso.
La questione di diritto alla base della vicenda riguarda la rinvenuta carenza e, in parte, contraddittorietà della motivazione con la quale il Tribunale di Sorveglianza di Bologna – in ragione della sussistenza delle condizioni di trattabilità delle patologie del detenuto in ambiente carcerario, sull’espressa esclusione di qualsiasi superamento «dei limiti inerenti il rispetto del senso d’umanità di cui deve essere connotata la pena e del diritto alla salute» e in assenza di un qualsivoglia quid pluris rappresentante un ingiustificato aggravamento della sofferenza del ristretto – ha rigettato le richieste avanzate dalla difesa del detenuto in materia di differimento dell’esecuzione della pena (art. 147 c.p.) e, in subordine, di esecuzione della pena nelle forme della detenzione domiciliare (art. 47ter L. n. 354/1975).
Il provvedimento, che per effetto del rinvio è tornato nelle competenze dello stesso Tribunale di prima istanza al quale spetta ora una nuova decisione, è frutto di un complesso bilanciamento fra le necessità emergenti dalla situazione sanitaria del richiedente e le altrettanto pregnanti esigenze di garanzia della sicurezza ed incolumità pubblica, le quali rendono necessario un approfondito esame tanto dell’attualità della posizione di vertice ricoperta nell’organizzazione mafiosa “Cosa Nostra” da Totò Riina – rispetto alla quale il ricorrente non ha mai manifestato volontà di dissociazione – quanto di quella della sua pericolosità sociale.
Il provvedimento di rinvio adottata dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna è fondato sostanzialmente sulla rilevazioni di alcune criticità in tre punti, nello specifico: laddove è stata esclusa l’incompatibilità della detenzione con le condizioni di salute dell’istante e il conseguente superamento dei limiti imposti dal rispetto dei principi costituzionali volti alla tutela della dignità del detenuto, il Tribunale ha omesso «di considerare il complessivo stato morboso del detenuto e le sue generali condizioni di scadimento fisico» tralasciando, inoltre, di affermare «l’esistenza di un diritto di morire dignitosamente che, proprio in ragione dei citati principi, deve essere assicurato al detenuto ed in relazione al quale, il provvedimento di rigetto del differimento dell’esecuzione della pena e della detenzione domiciliare, deve espressamente motivare»; laddove è stato evidenziato come nella struttura ospitante il ricorrente non fosse in grado di sopperire ad alcune specifiche necessità dello stesso dovute alle proprie condizioni di salute, senza che tali deficienze strutturali fossero considerate rilevanti ai fini della decisione, poiché «il Tribunale ha errato nel ritenere che le deficienze strutturali del luogo di restrizione non siano rilevanti ai fini del decidere sull’istanza del ricorrente avente ad oggetto proprio l’esecuzione della pena in luogo diverso, ed ha errato altresì, nel non rinviare la propria decisione all’esito di un accertamento volto a verificare, in concreto, se e quanto la mancanza di un letto che permetta ad un soggetto molto anziano  e gravemente malato, non dotato di autonomia di movimento, di assumere una diversa posizione, incida sul superamento o meno di quel livello di dignità dell’esistenza che anche in carcere deve essere assicurato»; infine laddove non sono stati concretamente specificati i profili di attualità riguardanti la pericolosità sociale del soggetto ricorrente, i quali necessitano di una specifica e particolareggiata menzione proprio «in considerazione della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e del più generale stato di decadimento fisico dello stesso».
Orbene, benché le motivazioni della sentenza si riducano a quanto sin qui sinteticamente riassunto, il dibattito pubblico scaturito dalla decisione ha investito l’assai più complesso tema del rapporto esistente fra tutela della dignità dell’uomo in tutte le possibili situazioni nelle quali esso si trovi e la funzione della risposta penale ai crimini commessi del reo, i quali rappresentano nello specifico un caso certamente emblematico, in quanto caratterizzati da una particolare ferocia, gravità e reiterazione.
La convinta e violenta reazione diffusasi nell’opinione pubblica lascia in questo senso emergere una caratterizzazione vendicativa della pena assolutamente lontana da quel complesso di norme da cui, prendendo le mosse dall’art. 27 della Costituzione, si dirama una serie di istituti volti alla tutela della società tramite il rispetto dei valori su cui essa è fondata. Tutelare un detenuto, qualsiasi siano le sue colpe, rende infatti l’esercizio della potestà punitiva – quale principale mezzo di espressione del potere dello Stato ma anche di tutela dell’integrità dell’ordinamento – un luogo in cui possa estrinsecarsi la garanzia della dignità umana, in una delle sue espressioni più alte.
Valutare e decidere quali siano le condizioni nelle quali il detenuto Riina debba scontare le numerose condanne occorse a suo carico nel corso del tempo spetta certamente ed in modo esclusivo al giudice naturale precostituito per legge; non può tuttavia immaginarsi un punto di partenza da cui giungere alla decisione definitiva che escluda la possibilità che la sospensione della pena o la detenzione domiciliare rappresentino una possibile ed idonea modalità di esecuzione delle condanne cui giungere attraverso la ponderazione dei diversi interessi in gioco. In effetti, la pena inframuraria non è certamente l’unica ricompresa dalla Carta costituzionale – la quale è invece aperta a tutte le possibili misure potenzialmente necessarie per garantire il rispetto dell’umanità dell’individuo al di là della sua condotta seppur certamente non esulando del tutto da essa – e a nessun individuo può essere negata tale possibilità alla luce della sua peculiare “storia criminale”, la quale invece può a ben vedere dimostrarsi come la cartina di tornasole della fondamentale differenza esistente fra la concezione criminale che si combatte e le modalità con le quali lo Stato affronta il “nemico”.
Sebbene certamente il caso riguardante Totò Riina sia caratterizzato da una particolare complessità dei fatti all’origine delle condanne e della detenzione del reo e necessita per questo motivo di una particolare attenzione nel bilanciamento dei diversi interessi coinvolti, allo stesso modo permane l’evidenza di quanto, soprattutto in casi di tale gravità e gravosità, si concretizzi il rischio dell’emergere di una lettura della funzione della pena asservita a logiche di vendetta e violenza che non appartengono ad una democrazia fondata su valori quali il rispetto della dignità della persona e i diritti fondamentali. Senza dubbio, infatti, è anche nella tutela di chi ha infranto l’ordinamento che si espande parte del terreno sul quale combattere la battaglia contro la criminalità.
Qualsiasi siano le ragioni che muovono lo Stato nell’affermare la giustizia tramite i mezzi della penalità, è fondamentale rammentare che non si possono mai impugnare le stesse armi di sopraffazione cui si reagisce, impiegare gli stessi mezzi inumani e degradanti davanti cui si inorridisce, dimenticare il valore più profondo dell’essere umano: la sua dignità. Tutelare la persona – non il suo crimine, ma la sua umanità – non rappresenta, infatti, un pericoloso limite all’effettività della giustizia, bensì ne incarna l’estrinsecazione più alta. Ciò, naturalmente, non significa abdicare ai compiti di tutela della società, dell’individuo e della pacifica convivenza dei soggetti, quanto invece rinunciare a rispondere al male con il male, al crimine con un altrettanto grave crimine, ad usare, in sostanza, per punire un atto contrario all’ordinamento le stesse modalità di condotta che si intende perseguire.
Nella tutela di individui riconosciuti colpevoli di condotte quali quelle caratterizzanti la criminalità organizzata di stampo mafioso, proprio alla luce dell’estremo limite al quale essi si sono condotti, si rende evidente il fondamentale confine fra i valori che il nostro ordinamento difende e le condotte che ne sono la negazione: difendere tale confine significa non arrendersi, qualsiasi sia in concreto la definitiva decisione sul caso che giungerà dal rinvio al Tribunale di Sorveglianza di Bologna.


Dignità umana e diritti fondamentali: caratteri, conseguenze e pericoli della costituzionalizzazione dell’emergenza

Recensione a “Costituzione. Emergenza e terrorismo”, Jovene Editore, Napoli 2016 di Giovanna De Minico

 

La discussione sulla funzione di garanzia che i diritti fondamentali – e quindi la dignità umana – devono avere in ambito costituzionale si è necessariamente dovuta confrontare, nel corso del XXI secolo, con l’emergere della minaccia terroristica e la conseguente rimodulazione del sistema dei valori della modernità.
Un tema tanto delicato deve essere trattato assumendo quale punto di partenza il profondo cambiamento di culture, abitudini e sentimenti del mondo occidentale successivamente agli attentati del settembre 2001; basti pensare alle sorti del concetto di “dignità umana” che, da una posizione di assoluta centralità, conseguente ad un lungo processo di sviluppo, ha subito un’intensa e repentina regressione dovendo d’improvviso confrontarsi con un contesto segnato da una sanguinosa battaglia contro un modello terroristico indeterminabile e difficilmente collocabile geograficamente, e riconoscibile dalle democrazie occidentali più per le diversità storico-culturali che per la concretezza del pericolo da esso rappresentato. Tutto ciò ha avuto la drammatica conseguenza di generare, a ben vedere, una guerra fra popoli piuttosto che una lotta al terrorismo, all’interno della quale «la parte “occidentale” ha smarrito il senso del rispetto per lo Stato di diritto e per i diritti umani» ritrovandosi coinvolta nel «tentativo di giustificare la tortura e le politiche di sparizioni forzate di persone sospettate di terrorismo» (S. Zappalà, La tutela internazionale dei diritti, Bologna, Il Mulino, 2011, pag. 137), che sin dalla seconda guerra mondiale aveva invece instancabilmente combattuto.
L’analisi dello “stato di emergenza” proposta nel volume di De Minico sottolinea quanto una condizione nata come risposta extra ordinem ad un evento straordinario abbia finito per rappresentare uno status abituale nel quale predisporre le quotidiane risposte ad un «terrorismo del tempo ordinario» (pag. 1) che ha caratterizzato le politiche criminali e di sicurezza del nuovo millennio, oramai unicamente costruite su «leggi che nasc[ono] sulla spinta della speciale paura determinata dal terrorismo» (pag. 2). Il percorso dell’Autrice prende le mosse dall’indirizzo securitario che ha profondamente segnato l’emergere di una nuova idea di “guerra”, e che ha portato al pericolo di una rinuncia alla centralità dell’uomo e dei suoi diritti in favore dell’ascesa della garanzia di sicurezza. È seguendo un simile itinerario che si è giunti all’affermazione di una decisione politica influenzata dal «ricatto della violenza», che ha progressivamente portato i governi occidentali ad abdicare «alla cultura della libertà e dell’equilibrio dei poteri, soffocando le prime irragionevolmente anche nei confronti di chi non è in odore di terrorismo e accumulando poteri nelle mani di esecutivi, collocati in zone più o meno franche dal riesame giudiziario» (pag. 3).
L’Autrice mette emblematicamente in luce il perno intorno al quale il discorso sull’emergenza deve necessariamente essere costruito, vale a dire quello del ruolo da assegnare all’interno della stessa al concetto di “diritti fondamentali”, che non può prescindere dai «limiti invalicabili dati dal nocciolo duro dei diritti, che rimane comunque incomprimibile qualunque sia il bene da bilanciare in contrapposizione» (pag. 4). È in questo contesto che la c.d. “law of fear” travalica spesso i limiti imposti dalla dottrina dei diritti, ponendo la questione della necessità o dell’opportunità di un limite costituzionale espresso in una norma positiva di rango fondamentale: in questa direzione vanno le diverse soluzioni prospettate nel volume – fra tutte la positivizzazione delle c.d. “emergency clauses” – le quali potrebbero rappresentare la più idonea via di fuga dall’esercizio indiscriminato del potere da parte di amministrazioni governative, cui gioverebbe invece l’intrinseca vaghezza di una norma implicita. In questo ambito, se da un lato risulta chiaro che per combattere la minaccia terroristica «la legge della paura [debba poter] derogare alla disciplina costituzionale prevista per le libertà fondamentali, bilanciandole con esigenze di sicurezza» non può che essere immaginato, quale limite e baluardo in difesa della dignità, «il nocciolo duro dei diritti fondamentali [che deve funzionare] da argine insuperabile rispetto al potere normativo dell’emergenza» (pag. 47). D’altro canto, una concessione in favore delle politiche securitarie non può essere tradotta in una limitazione della dignità umana, «filo rosso che tiene insieme questa pluralità di contenuti essenziali» (pag. 102), estrinsecatisi nei diritti fondamentali.
C’è da chiedersi se l’assenza di una “emergency clause” sia davvero la causa della deriva legislativa che ha portato al proliferare dell’indirizzo securitario, fondato in definitiva sulla paura; ancor di più, è necessario domandarsi quanto la positivizzazione di una clausola dedicata allo stato d’emergenza e sospensiva di alcuni valori centrali dell’ordinamento possa concretamente rappresentare una risposta efficace all’istanza di disciplina e gestione dello stato di emergenza. Norme di questo tipo potrebbero, in effetti, rappresentare un limite certo posto al “diritto di reazione” da parte dei governi, ma è problematico immaginare in quale direzione esse finirebbero per dirigersi: se nel verso di un contenimento dei poteri dell’esecutivo, delimitando cioè l’ambito di applicazione delle leggi determinate dallo stato di paura conseguente ad un attacco terroristico; ovvero se nel senso di individuare una sorta di terreno franco nel quale il potere possa essere esercitato sospendendo i diritti fondamentali in assenza di idonei meccanismi di controllo e garanzia (e proprio questa prospettiva sembra in concreto aver finito per caratterizzare il disegno dei costituenti di Weimar).
Non è possibile trascurare, nell’ambito di una riflessione su argomenti di questo tipo, che «nella lotta contro il terrorismo la democrazia deve continuare a essere se stessa e quindi agire in accordo con i canoni dello stato di diritto» (pag. 300) senza poter derogare all’essenza stessa della propria struttura valoriale: torna centrale, a questo riguardo, il tema della tutela della dignità umana. Orbene, la necessaria centralità della dignità trova origine nel suo rappresentare il “bene per eccellenza” in capo all’individuo, che si traduce principalmente nel diritto all’autodeterminazione e da cui trae linfa ogni singola estrinsecazione dei diritti fondamentali (sul punto v. P. Ridola, La dignità dell’uomo e il “principio libertà” nella cultura costituzionale europea, in Diritto comparato e diritto costituzionale europeo, Giappichelli, Torino 2010). Posizionare la dignità all’apice della piramide dei valori posti a protezione dell’integrità degli individui significa riconoscergli ab origine il ruolo di bene autonomo e preesistente rispetto al singolo diritto, il cui nocciolo duro non può quindi rappresentare altro che la sua stabile cerniera di con il concetto di dignità, da cui nasce, e che deve per questo restare sottratto a qualsiasi mediazione, al netto di qualsiasi risultato si voglia conseguire. Questa visione trova riconoscimento nel volume di De Minico, la quale giunge sin dalle note introduttive del proprio lavoro ad affermare che «se ogni diritto fondamentale si risolve nella pretesa che chiunque si astenga dal comprometterlo, essa è innanzitutto pretesa che il legislatore ne rispetti l’identità essenziale» (pag. 96), la quale può essere rinvenuta solo ed esclusivamente nella dignità dell’uomo.
Molto interessante risulta l’analisi dell’Autrice in merito alla posizione della Corte costituzionale italiana riguardo tale incontro/scontro fra diritti, dignità e politiche di sicurezza. Lo studio dell’atteggiamento del giudice delle leggi, infatti, mette chiaramente in luce i limiti cui andrebbe incontro un sistema nel quale si decidesse di positivizzare una “emergency clause”, a fronte di una condotta giurisprudenziale dedita all’interpretazione del singolo caso concreto con lo scopo di adeguare la portata dei singoli diritti al trascorrere del tempo. L’atteggiamento del giudice costituzionale italiano, infatti, è volto principalmente a definire «in modo frazionato il minimo incomprimibile di ciascun diritto perché lo distribuisce in più di una decisione; non lo definisce quindi una volta per tutte in uno schema fisso e immodificabile, prevalendo invece il paradigma di un concetto variabile al mutare del bene opponente e valevole rebus sic stantibus» (pagg. 111-112). A ciò si aggiunga che è il tempo a contribuire «a rendere flessibile e quindi cangiante la consistenza del diritto, ovvero del suo contenuto essenziale» (pag. 103), rendendo per questo necessaria una flessibilità dell’interpretazione che tenga conto del fatto che «ogni popolo ha elaborato un’idea di giusto e sbagliato, di buono e cattivo ma la esprime diversamente dagli altri» e «pertanto, ciò che si considera un diritto umano presso una società può essere definito anti-sociale da un’altra o dalla stessa società in un diverso momento storico» (G. Decarli, Diritti Umani e Diversità Culturale, SEID Editore, Firenze 2012, pag. 37).
L’Autrice analizza poi le conseguenze che ha avuto, in ambito penale, la deriva repressiva conseguente all’emergere della “questione terrorismo”. È da notarsi come, effettivamente, il «tratto comune all’intera legislazione penale per fini terroristici [sia divenuta] l’opinabile scelta legislativa di derogare al modello di incriminazione classica, rappresentata dal reato di danno, a favore di una tecnica descrittiva dell’illecito che anticipa la soglia di punibilità» (pag. 177) sino al c.d. “pericolo astratto”, seguendo una logica in aperto contrasto con il principio cardine della necessaria offensività della condotta perché si concretizzi un’ipotesi di reato. Tutto ciò mette in crisi la coppia “univocità” e “idoneità” degli atti sulla quale è fondata la logica dell’art. 56 del codice penale italiano relativo al delitto tentato, sintomo di un inaccettabile avanzamento della repressione che ha finito per portare al concretizzarsi di un pericolo di invasione nel campo dei diritti fondamentali, finanche dei diritti più propriamente giurisdizionali – quale quello all’habeas corpus – con conseguenze preoccupanti non solo per il sistema nella sua interezza, ma anche per la stessa credibilità di una cultura occidentale che si era oramai saldamente assestata nella posizione di “garante dei diritti nel mondo” (esemplificative di tale situazioni sono le vicende avvenute nelle prigioni “militari” di Guantànamo e Abu Ghraib ad opera di governi democratici quali quello statunitense e quello inglese).
L’esperienza francese, ampiamente considerata dall’autrice, porta in primis al tentativo di costituzionalizzazione della “état d’urgence” in seguito agli attentati del novembre 2015, e in secundis all’adozione di una normativa sempre più stringente conseguente allo stato di allarme seguito agli attentati di Nizza, i quali hanno determinato una reazione definitivamente oltre ogni recinto costituzionale: si pensi, solo per fare un esempio, ad un «uso del termine guerra» che non è certamente stato «solo dovuto a enfasi oratoria» (pag. 235), ma ha piuttosto reso esplicita una nuova concezione di reazione al terrorismo fino ad allora estranea all’ordinamento.
Proprio la proposta di un nuovo articolo 36.1 da inserire nella Costituzione francese ha rappresentato il momento culmine dell’annosa discussione, assai presente nell’opera di De Minico, relativa all’opportunità di inserire in Costituzione clausole esplicite riguardanti questo tipo di emergenza. L’obiettivo della riforma costituzionale del 2015 era quello di permettere all’esecutivo di riscrivere, in determinati casi ben individuati, «la disciplina dei diritti fondamentali, discostandosi dal disegno complessivo, quale risulta dal preambolo e dal testo» (pag. 253) della Costituzione stessa. Una clausola di questo tipo, non assicurando invero alcuna garanzia o controllo ulteriore delle attività emergenziali, avrebbe rischiato di aprire a condotte slegate dai valori che hanno caratterizzato la Costituzione e la successiva adesione a organizzazioni di pace quali l’ONU, l’Unione Europea e ancor prima il Consiglio d’Europa, immaginate invece esattamente in opposizione a quella «sconfinata discrezionalità dell’esecutivo» (pag. 254) che sta tornando drammaticamente in auge quale unica possibile risposta alla minaccia terroristica. Il rischio, ed è questo il punto che più di ogni altro emerge nella lettura del volume di De Minico, è quello di finire «per ammettere misure alternative dei diritti per prevenire improbabili fatti di disordine riferibili a chi non aveva nulla a che fare col terrorismo» (pag. 259) tradendo l’idea stessa di dignità umana quale fondamento e realizzazione dello Stato moderno.
L’Autrice, in modo specifico nel capitolo conclusivo dell’opera (ma riprendendo a ben vedere suggestioni presenti lungo tutto il percorso tracciato per giungere ad una compiuta analisi del ruolo del concetto di “emergenza” nell’ambito della crisi costituzionale conseguente all’emergere della minaccia terroristica) sostiene che sia opportuna, seppure non strettamente necessaria, «la menzione esplicita in Costituzione dell’emergenza», non bastando alla luce degli obiettivi da perseguire una “clausola implicita” che fondi sui principi fondamentali il raggio d’azione del potere costituito. Alla base di questa posizione vi è l’idea che «una clausola espressa concorre a evitare le oscillazioni e le ambiguità interpretative derivanti dall’assenza di una disposizione ad hoc, assicurando la certezza del diritto sommamente necessaria dinanzi a una situazione imprevedibile e difficilmente dominabile come il terrorismo» (pag. 277). Tale visione, tuttavia, resta in problematica tensione con l’idea che proprio l’obiettivo di fornire un “titolo costituzionale” all’operato emergenziale dell’esecutivo, così da legittimare ex ante il suo operato, rischi di spingere l’emergenza oltre qualsiasi limite di proporzionalità, rischiando di «far scolorire le differenze tra una situazione eccezionale, transitoria e saldamente legata a un fatto straordinario, e una condizione divenuta ordinaria, tendenzialmente permanente e forzosamente collegata con lo specifico evento di pericolo» (pag. 265). Per questa via, si rischia di legittimare però, al limite, la de-assolutizzazione dei diritti e della dignità in favore del controllo delle masse e dei singoli, così eccessivamente valorizzando una garanzia di sicurezza che elude qualsiasi bilanciamento a danno della libertà e dell’autodeterminazione dell’individuo, e dunque della dignità da cui trae essenza tutto l’impianto dei diritti fondamentali.
Appare allora necessario dedicare, in conclusione, qualche ulteriore riflessione alle possibili traduzioni in concreto della positivizzazione di una “emergency clause” di rango costituzionale. Ove ricostruita quale clausola esplicita, essa potrebbe infatti comportare il rischio di un eccessivo accentramento dei poteri nelle mani dell’esecutivo; in una diversa prospettiva, invece, essa potrebbe piuttosto dar luogo ad una limitazione del potere stesso e del suo ambito di estrinsecazione, in modo più coerente con i principi fondanti il costituzionalismo contemporaneo. La dignità umana, infatti, potrebbe in quest’ottica essere facilmente riletta quale garanzia e limite, suscettibile di orientare l’esercizio - necessariamente temporaneo e volto al rapido ristabilimento di condizioni di sicurezza – del potere di emergenza da parte dei governi in reazione ad un attacco terroristico subito.
Resta aperta, concludendo, la discussione sul livello di protezione garantito – da un lato – e della capacità di rispondere concretamente alla minaccia – dall’altro – delle assai diffuse clausole di tipo implicito. Esse infatti esse sembrano ancora oggi più idonee al fine da raggiungere, soprattutto alla luce della loro capacità di adattarsi di volta in volta a situazioni di emergenza, lasciando spazio all’intervento in funzione di garanzia e controllo da parte della giurisdizione (v. B. Ackerman, La costituzione di emergenza, Melterni, Roma 2005); d’altro canto non può essere trascurato come la positivizzazione costituzionale delle “emergency clauses” possa rispondere a situazioni straordinarie con maggiore incisività, specie qualora sia intesa come mezzo di limitazione degli esecutivi chiamati a reagire e mezzo di tutela dei principi fondamentali.