A proposito di beni comuni (brevi considerazioni sul libro di Antonello Ciervo, Beni comuni, Ediesse, Roma 2012)

Uno dei più significativi avvenimenti degli ultimi anni è senza dubbio l’emersione del dibattito sui c.d. beni comuni. A leggere certe ricostruzioni, si potrebbe ipotizzare che, in questi ultimi anni, ci sia stata una vera e propria «marcia trionfale» – se così si può dire –, marcia scandita da alcuni momenti di grande impatto simbolico: dall’assegnazione del Premio Nobel all’economia Elinor Ostrom per i suoi studi sui commons; alla nomina della Commissione Rodotà, incaricata di redigere un progetto organico di riforma dello statuto giuridico dei beni pubblici; alle due sentenze della Corte di Cassazione sulla proprietà delle valli di pesca della Laguna di Venezia (Cass. Civ., sez. un., sentt. 14-2-2011, n. 3665, e 16-2-2011, n. 3811), che hanno riconosciuto uno statuto giuridico peculiare ai beni comuni; al referendum sulla c.d. «privatizzazione dell’acqua» del 12-13 giugno 2011, che ha abrogato l’art. 23-bis del d.l. n. 112/2008, come modificato dall’art. 15 d.l. n. 135/2009; e, infine, alla sentenza n. 199/2012 della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale l’art. 4 d.l. n. 138/2011, convertito nella l. n. 148/2011, per contrasto con il risultato del referendum del giugno 2011, in quanto la disposizione impugnata violerebbe «il divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare desumibile dall’art. 75 Cost.».

Nel maremagnum di pubblicazioni sull’argomento – alcune delle quali non è esagerato definire irritanti –, si segnala l’ottimo lavoro di Antonello Ciervo, per la neonata collana Fondamenti della casa editrice Ediesse. Il lavoro di Ciervo è meritorio perché, pur essendo il lavoro di un giovane ricercatore (o, forse, proprio per questo), affronta senza complessi la tematica dei beni comuni e le problematiche connesse, mantenendo l’analisi giuridica ad alti livelli di rigore scientifico, e, tuttavia, sempre con taglio critico. Ciervo, infatti, non si mette a gabellare pseudo-ricostruzioni politiche per analisi giuridica, né tanto meno si lascia andare a visioni meramente descrittive di stampo giuspotivistico. Al pari di Paolo Grossi, Ciervo mette in guardia dall’adottare una prospettiva paleo-marxista: nonostante una parte della Sinistra giuridica ne abbia fatto quasi una sorta di bandiera, Ciervo sottolinea che beni comuni e proprietà collettive non hanno niente a che vedere con il socialismo reale, né, tantomeno, con il comunismo, benché anche il giovane Marx si lasci travisare da una simile prospettiva nello scritto giovanile sulla legge contro i furti di legna.

Ciervo parte dalla domanda se i beni comuni possano o meno costituire una valida risposta alla crisi economica globale. Sulla falsariga di Alessandro Somma, egli ritiene che i beni comuni abbiano una funzione perturbante, capace di rimettere in discussione i fondamenti della scienza economica, nonchè di quella giuridica: a suo avviso, così come la semplice pensabilità di un comportamento cooperativo da parte dei soggetti economici scardinerebbe l’approccio individualistico-razionale e ne metterebbe in evidenza il carattere astratto rispetto ai problemi legati all’agire economico all’interno delle società umane, così ugualmente il concetto di beni comuni finirebbe per rimettere in discussione, sul piano giuridico, la dicotomia pubblico-privato.

Secondo Ciervo, infatti, l’espressione beni comuni non indica una terza categoria giuridica a fianco di quelle tradizionali di beni pubblici e di beni privati, ma una vera e propria alternativa al rapporto dicotomico che si è venuto a creare tra le due nozioni. Ciervo utilizza, in particolare, la denominazione di beni comuni come sinonimo di beni pubblici non statali, ovvero di tutti quei beni extra commercium in quanto esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e dei quali lo Stato deve garantire la fruizione collettiva attraverso una gestione partecipata. Per dirla in altri termini, i beni comuni obbligano a superare la logica binaria e lo schema dualistico che ha dominato negli ultimi due secoli la riflessione giuridica e politica occidentale, in quanto esigono una diversa forma di razionalità, capace di incarnare i cambiamenti profondi che stiamo vivendo.

Tuttavia, uno dei punti più controversi della nozione di beni comuni è proprio la sua estensione: c’è chi ha parlato di beni comuni per indicare beni pubblici veri e propri, ovvero una risorsa relazionale complessa come la fiducia, essenziale per consentire ad una comunità di affrontare sfide impegnative, e quindi di dare anche ordine e vitalità al mercato; c’è, invece, chi ha affermato che i beni comuni si caratterizzerebbero come tali non in virtù di caratteristiche ontologiche, oggettive o meccaniche, ma dai contesti in cui essi diventano rilevanti in quanto tali; chi, infine, ha affermato che i beni comuni sarebbero strutture che connettono la comunità, e che rendono chiara la nostra compartecipazione al contesto che viviamo ed alla mente.

Il rischio che c’è dietro una estensione eccessiva della nozione di bene comune è di dare luogo ad una nozione evanescente e fuorviante. Parlare di «bene comune lavoro» o di «sanità bene comune» può essere anche importante sul piano politico, ma è assolutamente irrilevante (se non dannoso) sul piano giuridico, in quanto introduce nell’ambito del dibattito pubblico una nozione sostanzialmente inutile. Lo stesso Ciervo sembra rendersi conto della futilità di slogans trasposti dal piano politico, nel momento in cui ammette che parlare di sanità bene comune, piuttosto che di un diritto sociale (quale giuridicamente è), tende a svolgere essenzialmente un funzione di tipo critico all’interno del dibattito pubblico, per il fatto che segnala sia i limiti e le inefficienze dell’intervento statale, sia l’impossibilità che questo diritto possa essere affidato e gestito integralmente da privati.

Per quanto riguarda la genealogia della nozione di beni comuni, Ciervo parte dall’analisi del noto frammento di Elio Marciano sulle res communes omnium contenuto nel Digesto, anche se poi finisce con l’ammettere che una definizione giuridica si possa ricostruire soltanto a partire dalla riflessione medioevale. La ricostruzione di Ciervo, quindi, si muove in parziale contraddizione con le tesi espresse da Maddalena e da Lucarelli, secondo i quali i beni comuni esisterebbero già nel diritto romano. La posizione di Ciervo mi sembra condivisibile, in quanto è proprio nell’esperienza medioevale che la nozione di proprietà collettiva trova la sua consacrazione, in virtù della scomposizione e ridefinzione del sistema dei diritti reali derivante dalla commistione tra istituti di derivazione romanistica e istituti di origine germanica.

Ciervo passa poi a mettere in evidenza la grande importanza avuta dalla Seconda Scolastica ai fini della affermazione del moderno individualismo proprietario, individualismo che ha trovato nella filosofia hegeliana la sua consacrazione sul piano filosofico. D’altra parte, secondo Ciervo, l’individualismo proprietario ha sempre avuto grandi difficoltà ad inserire nei propri schemi gli usi civici, ovvero quel che rimaneva della proprietà collettiva medioevale, ma, nonostante questa difficoltà, i primi esempi di codificazione civile non hanno rinnegato integralmente tutte le altre forme di proprietà diverse da quella individuale.

Ciervo rileva, infatti, anche come lo stesso Code civil del 1804 – che pure viene considerato come il trionfo dell’individualismo proprietario – preveda, all’art. 542, un tipo di proprietà diversa da quella individuale, quella comune. Né, a suo dire, il quadro muta se si prende in considerazione l’altro grande codice della prima metà dell’Ottocento, l’Allgemeines bürgerliches Gesetzbuch austriaco del 1811: pur prevedendo un esplicito favor nei confronti della proprietà individuale, l’ABGB non nega l’esistenza di altre forme proprietarie, né la dicotomia tra dominium e usus facti elaborata dalla riflessione teorica medioevale. Ciervo, anzi, rileva come l’individualismo proprietario non sia stato accolto integralmente neanche da un codice minore, come quello del Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla del 1820.

Ciervo passa poi ad occuparsi della rimozione che la riflessione giusfilosfica moderna ha operato nei riguardi della nozione di comune, sottolineando come essa abbia esaltato la Magna Charta, occultando completamente l’altro documento costituzionale sempre di quegli stessi anni, la Charter of the Forest: a suo dire, la valorizzazione della prima a scapito della seconda, ha significato, per la cultura illuministica, il rifiuto della categoria del comune all’interno del dibattito costituzionalistico. La profonda sottovalutazione del diritto dei beni comuni sancito dalla Charter of the Forest a favore dei diritti di libertà contenuti nella Magna Charta la si può vedere, secondo Ciervo, anche nei due maggiori filosofi inglesi del XVII secolo, Hobbes e Locke, poiché, a partire da essi, si assiste ad un vero e proprio ribaltamento della concezione della proprietà: da comune, come sancita dalla Charter of he Forest, a privata e individuale. L’unica differenza starebbe nel fatto che, mentre Hobbes registra storicamente il passaggio da una società statica come quella medioevale ad una società mercantile, fondata sull’iniziativa economica privata, per Locke questa trasformazione non si darebbe in termini storici, ma sarebbe un presupposto logico preesistente.

D’altra parte, una sottovalutazione della nozione di comune è presente, secondo Ciervo, anche in un pensatore avverso all’individualismo proprietario come Jean-Jacques Rousseau, poiché Rousseau si limiterebbe a ribaltare le conclusioni a cui era giunto Locke, così da legittimare la gestione e il controllo delle terre comuni direttamente in capo alle istituzioni pubbliche. Con Rousseau, quindi, si avrebbe un ulteriore passaggio nell’occultamento giuridico delle proprietà collettive: egli, pur criticando la proprietà privata come momento di distruzione dello stato di natura e di messa in pericolo della società, cerca di trovare uno sbocco ricorrendo al ruolo pacificatore delle istituzioni politiche, e di questa contraddizione rimane traccia nella Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1793. Una eccezione alla rigida alternativa dicotomica pubblico-privato (rappresentata, da un lato, da Rousseau, e, dall’altro, da Locke) è rappresentata, per Ciervo, dalla riflessione di Proudhon, la cui importanza va vista proprio nella ricostruzione storica della proprietà comune, che, secondo il pensatore protosocialista, era esistita sin dall’antica Roma, ed era ancora presente nella Francia ottocentesca.

Ciervo passa poi ad occuparsi del dibattito odierno sui beni comuni. A suo dire, i principi in grado di orientare l’ordinamento giuridico alla tutela di questi beni sarebbero rintracciabili non solo nella Costituzione, ma anche nell’ambito del diritto pubblico europeo. Per corroborare tale affermazione, Ciervo sottolinea che la nozione di beni comuni sarebbe stata fatta propria in alcune sentenze della Corte Costituzionale italiana. Su questo punto, tuttavia, la ricostruzione mi sembra opinabile, se non altro perché lo stesso Ciervo ammette che, quando si è occupata di regime giuridico dell’acqua (C. Cost., sent. n. 259/1996), la Corte non abbia parlato di beni comuni, perché, a suo dire, non si era ancora diffuso l’impiego di questa espressione né nel dibattito pubblico, né in quello scientifico. Ma a questa osservazione si può ribattere che, anche quando recentemente si è occupata di regime giuridico delle acque (C. Cost., sent. nn. 325/2010, 320 e 339 del 2011, 199/2012), la Corte non abbia usato la parola bene comune, né abbia fatto riferimento a questa nozione.

Un ulteriore aspetto del dibattito odierno è rappresentato, secondo Ciervo, dalla adozione in gran parte degli Stati del Sudamerica di emendamenti costituzionali volti a garantire alcune specifiche categorie di beni (tra cui l’acqua), rendendoli insuscettibili di privatizzazione. Grande importanza viene attribuita al movimento brasiliano dei sem terras e ai riconoscimenti che la giurisprudenza brasiliana ha operato del diritto consuetudinario degli indigeni alla luce della funzione sociale della proprietà riconosciuta dalla Costituzione del 1988. Su questo punto, tuttavia, è necessario mettere in evidenza uno dei pericoli che si celano dietro la disinvolta comparazione con esperienze giuridiche diverse dalla nostra, ossia l’acritica e decontestualizzata recezione di istituti che hanno una loro peculiarità storica e culturale, e che, trapiantati in altri contesti, potrebbero causare problemi di rigetto, come spesso è accaduto nell’ambito della storia delle diverse esperienze giuridiche.

Gli ultimi due paragrafi del terzo capitolo sono dedicati all’attualità italiana. Nel primo di essi, Ciervo analizza l’opera della Commissione Rodotà, e, in particolare, la proposta di modifica dell’art. 810 cod. civ., con la relativa l’introduzione di una partizione di tipo triadico (beni pubblici-beni comuni-beni privati), in luogo della classica bipartizione beni pubblici-beni privati. La riforma proposta dalla Commissione Rodotà viene ancorata in una peculiare interpretazione dell’art. 43 Cost., in virtù del fatto che i monopoli e la gestione privata delle font di energia e dei servizi pubblici essenziali ostacolerebbero la realizzazione di quei fini di utilità generale. A questa tesi, tuttavia, si può ribattere che sia parte della dottrina che la stessa giurisprudenza costituzionale hanno esplicitamente negato che l’art. 43 Cost. sia applicabile anche alle cose, e non soltanto alle imprese (C. Cost., sent. nn. 5/1962 e 59/1965).

L’ultimo paragrafo è, invece, dedicato al referendum del giugno 2011, del quale Ciervo ammette la valenza meramente simbolica, contrariamente a chi è arrivato ad enfatizzare oltremodo il risultato referendario, leggendo in quel risultato un qualcosa che non c’era affatto. Ciervo sottolinea, infatti, che il referendum non ha portato ad alcun tipo di riconoscimento, all’interno del nostro ordinamento giuridico, della categoria dei beni comuni, né, tantomeno, ha dato la possibilità agli enti locali di gestire in maniera partecipata questa risorsa fondamentale: l’abrogazione referendaria ha riguardato semplicemente la normativa che obbligava i Comuni a privatizzare tutti i servizi pubblici, compreso il sistema idrico integrato.

Nel capitolo conclusivo, infine, Ciervo parte dalla considerazione della sentenza n. 3665/2011 della Cassazione, ove, per la prima volta, la giurisprudenza ha fatto esplicito riferimento alla nozione di beni comuni, ancorandolo ad una serie di valori costituzionali (lo sviluppo della persona umana, di cui all’art. 2 Cost., in lettura combinata con la tutela del paesaggio, di cui all’art. 9 Cost., e con la funzione sociale della proprietà, di cui all’art. 42 Cost.). A partire da questa sentenza, secondo Ciervo, il concetto di beni comuni potrebbe essere utilizzato nel nostro ordinamento, purché lo si intenda come connettore vuoto di significato, da riempire di contenuto di volta in volta. A tal fine, conclude Ciervo, lo studioso di diritto costituzionale non potrà che ripensare in modo radicale il proprio strumentario concettuale, e su questo punto non posso che concordare: l’unico approccio metodologicamente corretto per quanto riguarda le forme di appartenenza, e unico antidoto di fronte agli eccessi del dogmatismo, è proprio la relativizzazione e la storicizzazione dei concetti giuridici.


Una rilettura di Lochner v. New York ad oltre un secolo di distanza

La sentenza Lochner v. New York del 1905 (198 U.S. 45) è unanimemente considerata una delle sentenze più controverse della Corte Suprema federale statunitense, in grado di rivaleggiare con Dred Scott v. Sanford (60 U.S. 393), o con Plessy v. Ferguson (163 U.S. 537), o con Bush v. Gore (531 U.S. 98), per la grande quantità di polemiche suscitate. Con questa sentenza, la Corte Suprema presieduta da Melville Fuller – redattore dell’opinion of the Court fu il giudice Rufus Peckham – dichiarò incostituzionale per contrasto con il XIV Emendamento il Bakeshop Act (1895) dello Stato di New York, che fissava in 60 ore settimanali e in 10 ore giornaliere l’orario massimo di lavoro dei fornai.

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