Il principio di costituzione sostanziale della parte civile nel caso Arnoldi c. Italia: un passo ulteriore verso la civilizzazione del sistema penale

La curiosa vicenda del caso Arnoldi c. Italia ha inizio nel lontano 1990 con una canna fumaria molesta. Finisce appena ventisette anni dopo, dinanzi alla Corte di Strasburgo, con una violazione dell’articolo 6, § 1 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. La canna fumaria incriminata è inizialmente oggetto di un contenzioso amministrativo, volto ad accertarne il carattere abusivo, nel corso del quale intervengono le dichiarazioni dei vicini che ne legittimano l’esistenza. Tali testimonianze sono l’occasione da cui affiora la necessità di un procedimento penale per falso ideologico, destinato a non avere più fine.
Nello specifico, perché da qui derivano le rimostranze sostenute dinanzi alla Corte europea, la ricorrente denuncia i propri vicini di falso ideologico nel procedimento amministrativo in cui si batteva per demolizione della canna fumaria, dall’esistenza della quale ella dichiarava di aver subito una lesione del diritto di proprietà. Il procedimento per falso, arenatosi nella fase delle indagini preliminari, non giungerà mai a compimento per intervenuta prescrizione. Ugualmente destinato a fallire il tentativo della ricorrente Arnoldi di far valere la durata eccessiva del procedimento penale: la persona offesa può costituirsi parte civile del processo penale solo a partire dall’udienza preliminare, momento prima del quale non è formalmente parte del processo, legittimata, fra le altre cose, a farne valere l’eccessiva durata.
Con sentenza del 7 dicembre 2017, la Corte di Strasburgo accoglie finalmente le ragioni della ricorrente, conferendo una fisionomia del tutto nuova all’istituto della parte civile nel processo penale. Nelle motivazioni della Corte si afferma una visione sostanziale della parte civile, di fatto indipendente da termini di costituzione e fondata sulla mera esistenza di un interesse di natura civilistica, sulla volontà di far valere il proprio diritto ad una riparazione nel procedimento penale e sul carattere determinante della fase delle indagini preliminari al fine di ottenerne tutela (§ 30).
Le argomentazioni della Corte si sviluppano intorno ad una tesi principale: il riconoscimento sostanziale dello status di parte civile nel procedimento penale allo scopo di far valere «i diritti di carattere civile» tutelati dalla Convenzione. Ne consegue, da una parte, che l’applicabilità dell’art. 6, § 1 e le garanzie della giusta durata del processo vengano riconosciute ad un soggetto eventuale, non ancora formalmente parte del processo, in ragione della pretesa sostanziale a far valere il proprio diritto, sia questa debitamente manifestatasi. La tutela dell’art. 6 è tuttavia indipendente da una richiesta di risarcimento (§ 21) o da una formale richiesta di riparazione delle violazioni subite (§ 34): la persona è parte del processo penale dal momento in cui dimostri un interesse alla tutela del proprio diritto di carattere civile. Ne deriva, da ultimo, che ad opinione della Corte non vi sia alcuna differenza tra la parte civile, formalmente costituitasi a partire dall’udienza preliminare, ed il soggetto titolare di un diritto civile che abbia esercitato almeno una delle facoltà riconosciute dal diritto interno alla persona offesa (§ 41).
Simili conclusioni lasciano emergere alcuni profili di profonda perplessità in merito ai quali, tuttavia, la decisione in esame non è in grado di dare ragione. La Corte di Strasburgo sembra non tenere conto, in primo luogo, delle prerogative specifiche attribuite alla parte civile, alla persona offesa ed al danneggiato dal reato nel processo penale, nonché delle differenze che intercorrono fra tali figure. Dietro la necessità di tutelare l’esercizio di «un diritto di carattere civile», la decisione finisce per trascurare la funzione ed i limiti della pretesa civilistica all’interno del processo penale così come previsto dall’ordinamento italiano, nonché le difformità, pur fondamentali, con altri ordinamenti citati nella decisione, generando un significativo profilo di confusione tra sistemi giuridici del tutto differenti. Tali rilievi, se solo considerati, conferiscono alla decisione un grado di fragilità non trascurabile, tale da riversarsi con chiara evidenza anche sulla definizione del diritto oggetto di tutela.
Andando con ordine, nell’ordinamento penale italiano esiste una significativa differenza tra il soggetto danneggiato e la persona offesa dal reato. Quest’ultima corrisponde al titolare dell’interesse protetto dalla norma penale, in qualche misura legittimata a porre in essere un’attività ad adiuvandum il pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale. La pretesa sostanziale alla restituzione e al risarcimento del danno da reato è invece prerogativa del soggetto danneggiato e non sempre le due figure coincidono nella medesima persona. Pur verificandosi tale evenienza, la persona offesa ed il danneggiato sono figure la cui diversità sul profilo sostanziale si riverbera in sede processuale. La qualifica di persona offesa, direttamente connessa al bene giuridico protetto, deriva dalla norma di diritto penale sostanziale che si assume essere stata violata, e non da una pretesa civilistica. Nella persona offesa e nelle sue prerogative si scorge un ruolo attivo sul versante dell’accusa. Nella fase delle indagini preliminari ha diritto a ricevere l’informazione di garanzia (art. 369 c.p.p.), nominare un difensore (art. 101), proporre querela (art. 336), assistere agli atti c.d. garantiti del pubblico ministero (art. 360), richiedere al p.m. di promuovere l’incidente probatorio (art. 394), prendere visione degli atti del pubblico ministero (art. 401, comma 8), interloquire sulla proroga delle indagini preliminari (art. 406, comma 5) e sulla richiesta di archiviazione (art. 409, comma 2), chiedere al procuratore generale di avocare le indagini (art. 413, comma 1). Tali prerogative sono proprie della persona offesa, in ragione di una legittimazione che nasce dalla norma penale, posta a tutela dell’interesse di cui è titolare, e non sono attività riconosciute al danneggiato, qualifica che risponde ad una pretesa di carattere civilistico, che attraverso la costituzione di parte civile, ‘ospite’ nel processo penale, esercita in esso il proprio diritto alla restituzione e al risarcimento dei danni in alternativa al processo civile.
L’esercizio dei diritti e delle facoltà proprie della persona offesa, pur nell’ipotesi in cui questa coincida con il danneggiato, non possono costituire anche i presupposti sostanziali di costituzione della parte civile, perché del tutto differenti, in primo luogo sul versante sostanziale. A ben vedere, la «possibilità di ottenere un risarcimento per la violazione dei diritti di carattere civile», così definita nelle parole della Corte europea, deve ritenersi prerogativa tipica del soggetto danneggiato. La legittimazione all’azione di restituzione o risarcimento è il presupposto della costituzione di parte civile. Posto, dunque, che la pretesa civilistica ha natura sostanziale, la relativa azione di carattere processuale, secondo quanto previsto dalla disciplina del codice di procedura penale del 1989, può svolgersi in sede civile quanto nel processo penale.
L’impostazione del codice di procedura penale entrato in vigore nel 1989, proprio con particolare riguardo alla disciplina della parte civile, ha consacrato il principio di autonomia del processo penale dal processo civile. Tale indirizzo emerge in particolare dal comma 2° dell’art. 75 c.p.p. che prevede l’autonomia dell’azione di danno esercitata in sede civile qualora questa non sia stata trasferita nel processo penale. Ne consegue, a norma degli articoli 651, comma 1° e 652, comma 1° c.p.p., rispettivamente, che la sentenza penale irrevocabile di condanna abbia efficacia di giudicato nel processo civile, così come anche la sentenza penale irrevocabile di assoluzione, salvo che il danneggiato abbia esercitato l’azione in sede civile. L’impostazione adottata dal codice del 1989, sull’impronta di un modello processuale prevalentemente accusatorio, è antitetica rispetto alla disciplina precedente, contenuta nel codice del 1930, conforme ad una tradizione ispirata al modello francese, che stabiliva un principio generale di supremazia del processo penale sul processo civile.  Il codice del 1930 prevedeva una sospensione generalizzata del processo civile e l’efficacia erga omnes degli accertamenti contenuti nella sentenza penale passata in giudicato. Una simile impostazione poneva problemi di legittimità costituzionale e potenziali violazioni del diritto di difesa nell’ipotesi in cui gli effetti del giudicato penale si fossero riversati su soggetti che non vi avessero preso parte, in sede civile. Nel caso Arnoldi la Corte europea sembra trascurare le specificità di ciascun ordinamento sul versante dei rapporti tra processo civile e processo penale, e finire col richiamare le soluzioni adottate con riguardo ad altri ordinamenti, del tutto inconferenti nella vicenda italiana. È il caso, a titolo esemplificativo, della sentenza Feliciano Bichão c. Portogallo, n. 40225/04, (§§ 30-33), in quanto il sistema giuridico portoghese fonda nel processo penale l’unica occasione, per il danneggiato dal reato, di ottenere un risarcimento dei danni, o il caso Perez c. Francia [GC], n. 7287/99, più volte citato dalla Corte, trascurando di rilevare la prevalenza dei tempi e del giudicato penale sul processo civile, propria del sistema giuridico francese.
L’impostazione prediletta dal codice di procedura penale italiano del 1989 esclude che l’esito del procedimento penale sia «determinante per il diritto di carattere civile in causa» (§26 della sentenza della Corte europea) nella misura in cui la costituzione di parte civile nel processo penale non è l’unica possibilità per il danneggiato di soddisfare le proprie pretese restitutorie o risarcitorie. L’autonomia del processo civile dal processo penale, propria dell’ordinamento italiano e sancita nelle disposizioni sopra citate del codice, consente al danneggiato di operare una scelta tra la costituzione di parte civile nel processo penale e l’azione di danno esercitata innanzi al giudice civile. Ed è precisamente al momento delle indagini preliminari, in cui il danneggiato non può ancora costituirsi parte civile, che l’ordinamento consente al medesimo di far valere le pretese restitutorie nella sede naturale del processo civile. Se il diritto cui la sentenza della Corte europea intende conferire ulteriore tutela è la pretesa “di carattere civile” della persona offesa dal reato, questa è già garantita, nel sistema italiano, nella sua sede naturale, dalla possibilità di adire il giudice civile in qualsiasi momento e senza che l’accertamento in sede civile sia condizionato dalle conclusioni del processo penale, dove il danneggiato dal reato, mediante la costituzione di parte civile, trova uno spazio di tutela alternativo ed ulteriore, ma non esclusivo.
La soluzione della Corte EDU di attribuire al danneggiato dal reato la facoltà di costituirsi parte del processo penale in senso sostanziale sin dalla fase delle indagini preliminari rappresenta un punto molto controverso della sentenza Arnoldi, un’interpretazione decisamente innovativa del principio del giusto processo, del tutto incoerente con il sistema giuridico italiano.
La formula di una costituzione sostanziale di parte civile, così come suggerita dalla Corte, si fonda sull’attribuzione, alla parte lesa dal reato, sia questa da intendersi, indistintamente, come danneggiato od anche titolare del bene giuridico tutelato dalla norma penale, delle prerogative tipiche della persona offesa. Eppure, la funzione e le peculiarità della persona offesa non coincidono affatto con quelle della parte civile o del suo ‘antecedente’ processuale, il danneggiato. Una simile attribuzione di natura sostanziale arriva a tradire il fondamento di entrambe le figure tutelate nel processo, andando di fatto ad accentuare e, dunque, snaturare il ruolo della parte civile e con esso, di riflesso, le finalità perseguite dal processo penale, finendo per contribuire a quel di civilizzazione del diritto penale e di ibridazione del processo. Lungi dal limitarsi a conferire maggiore tutela ai «diritti di carattere civile», di per sé già ampiamente garantiti dal principio di autonomia tra processo penale e processo civile nell’ordinamento italiano, attribuire i poteri della persona offesa al danneggiato sbilancia il peso dei due soggetti all’interno del procedimento ad accresce l’attenzione sul danno prodotto dal reato, di fatto lasciando che la pretesa civilistica affianchi e rafforzi le ragioni della parte pubblica nella richiesta di punizione del responsabile. Un meccanismo che arriva al paradosso e disvela una contraddizione significativa nella stessa sentenza Arnoldi: che la tutela di un diritto civile, al di fuori della propria sede naturale, snaturata da attribuzioni che con le appartengono, arrivi a partecipare all’esercizio dell’azione penale, fino a trasformarsi in un «diritto a far perseguire e condannare penalmente terze persone che non può essere ammesso di per sé» (§26 sentenza Arnoldi), non apertamente, tanto meno sotto mentite spoglie.