La Corte costituzionale riapre la partita sul cognome materno

Con ordinanza del 17 ottobre 2019 il Tribunale di Bolzano ha sollevato presso la Corte Costituzionale questione di legittimità della norma riguardante il cognome dei figli nati fuori del matrimonio, nella parte in cui prevede che se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori si assegna il cognome del padre. Il 13 gennaio 2021 la Corte, riunita in camera di consiglio per esaminare la causa, ha deciso di andare oltre, sollevando presso sé stessa questione di costituzionalità della norma sopra citata, art. 262 comma 1 c.c., giudicando la questione pregiudiziale rispetto a quella sollevata dal giudice a quo.
Da questa scelta così atipica si evince la considerazione che la Consulta riserva a un tema già affrontato e reiteratamente sottovalutato dal decisore pubblico, nonostante la stessa Corte abbia invitato il legislatore a intervenire per sanare la lesione al principio di uguaglianza tra generi determinata dalla trasmissione esclusiva del cognome paterno.
Nel merito, il quesito sollevato dal Tribunale di Bolzano riguarda la possibilità da parte di genitori non coniugati di attribuire alla figlia, riconosciuta alla nascita da entrambi, il solo cognome materno. Si tratta di una ipotesi differente rispetto a quella oggetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 286/2016 che attesta il diritto di attribuire al figlio/a il cognome della mamma in aggiunta a quello paterno in presenza di concorde volontà dei genitori. Nel caso di specie madre e padre sono d’accordo nel voler trasmettere esclusivamente il cognome materno e tale possibilità è preclusa dalla disposizione censurata, non potendosi estendere in via interpretativa quanto stabilito in precedenza dalla Consulta.
Ora, il meccanismo di assegnazione del “nome di famiglia” che tradizionalmente prevede l’imposizione della linea paterna non è casuale bensì frutto di una particolare visione della società. Come esplicitamente richiamato dalla stessa Corte Costituzionale nella citata sentenza 286/2016, in Italia l’apposizione del cognome paterno riflette una struttura sociale storicamente patriarcale in cui il ruolo pubblico era riservato agli uomini “capifamiglia” e le donne passavano dalla tutela del padre a quella dello sposo del quale assumevano, a dimostrazione della “cessione” avvenuta, anche il cognome. Formalmente questo tipo di visione è stato superato dalla Costituzione Repubblicana che sancisce il principio di uguaglianza e professa la parità morale e giuridica dei coniugi. Il legame tra nome, identità e dignità personale trova specifico riconoscimento nel testo costituzionale agli articoli 2 e 22, laddove, rispettivamente, si garantiscono i diritti dell’essere umano come singolo e nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e si afferma il divieto di privare il singolo, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza e – appunto – del nome. Dalla lettura di queste norme pare chiaro il valore assunto dal nome nella dimensione individuale dei diritti intangibili e si evince la libertà, per ognuno, di rivendicarlo e conservarlo in quanto elemento integrante la propria sfera identitaria. Precludere tale prerogativa alle donne, oltre a rappresentare una lesione dell’art. 2, viola il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, determinando, se non supportata da esigenze prioritarie per l’ordinamento, una discriminazione irragionevole. A lungo nel nostro ordinamento il diritto al nome è stato considerato in un’ottica prettamente pubblicistica, in quanto mezzo utile ai fini della salvaguardia dell’ordine pubblico, funzionale alla individuazione dei componenti della comunità. A chiarire l’inserimento del diritto al nome nel nucleo profondo dei diritti della persona intervenne una prima volta la Corte costituzionale che, nel 1994, dichiarò il valore del nome come strumento identificativo dell’individuo, riconoscendolo come parte essenziale della personalità di ciascuno (sent. 3 febbraio 1994, n. 13, parr. 5.1. e 5.2). Oltre al diritto della donna a non essere discriminata nella possibilità di trasmettere il proprio cognome alla prole, rileva dunque anche il diritto del figlio/a a essere riconosciuto/a dall’ordinamento e nell’ambito della comunità di appartenenza come discendente della madre al pari che del padre.
Si ricorda il caso Cusan e Fazzo, deciso dalla Corte Edu nel 2014 (e richiamato dalla Corte Cost. sent. 286/2016), significativo giacché anche il quel caso i genitori intendevano imporre alla figlia il cognome materno invece e non in aggiunta di quello paterno. La Corte di Strasburgo diede ragione ai ricorrenti,  respingendo la questione sollevata dal Governo italiano che contestava la perdita di qualità di vittime dei genitori che nel 2012 (ben 13 anni dopo la nascita della figlia) avevano ricevuto l’autorizzazione del prefetto di Milano ad associare il cognome materno a quello del padre, ritenendo i ricorrenti legittimati ad agire in ragione del fatto che aggiungere il cognome (peraltro tardivamente) è ben diverso dal trasmettere il solo cognome della madre. La lesione del divieto di discriminazione è integrata dall’automatismo della trasmissione esclusiva del cognome paterno e dalla impossibilità di derogarvi anche in presenza di una volontà comune dei genitori. Il modello di assegnazione esclusiva del cognome del padre determina la violazione delle norme parametro di cui agli artt. 11 e 117 Cost., in relazione agli artt. 7, 8, 14 e 21 CEDU e con gli artt. 2; 3 e 29 della Costituzione.
Ferma restando la necessità prioritaria di affermare il principio di uguaglianza e agire al fine di rendere coerente il sistema di trasmissione del cognome con il modello paritario e non discriminatorio delineato dalla nostra Costituzione e dal parametro sovranazionale occorre considerare le diverse implicazioni conseguenti alla scelta.  In particolare, si teme che una impostazione incentrata esclusivamente sulla discrezionalità dei genitori, pur garantendo in apparenza la parità tra le parti, di fatto si traduca in una nuova prevalenza della componente maschile per ragioni ancorate alla tradizione ma anche a delicate dinamiche di tipo sociale ed economico che portano ancora la donna a essere, in molti casi, parte debole nella coppia. In sostanza, ancorando la trasmissione del cognome alla mera volontà concorde dei genitori si otterrebbe senz’altro un riconoscimento formale della parità ma nel concreto si verificherebbe un perpetuarsi del regime esistente, con l’assegnazione del cognome paterno salvo ipotesi residuali in cui si opti per quello della madre o per il doppio cognome.
Se lo scopo è quello di garantire il rispetto del diritto di identità che si esprime attraverso il cognome (art. 2 cost.) in un doveroso quadro di eguaglianza e parità di genere (artt. 3 e 29 Cost.) occorre operare un bilanciamento che assicuri che nessuno degli interessi coinvolti venga subordinato o comunque eccessivamente compresso. In questo senso si auspica la previsione di un meccanismo basato sulla trasmissione dei cognomi di entrambi i genitori, corredato da un criterio che stabilisca l’ordine e il principio da adottare per la trasmissione alle generazioni successive in un senso non discriminatorio.
Un modello cui guardare potrebbe essere quello della Francia, dove è possibile assegnare ai figli il cognome del padre, della madre, oppure entrambi, secondo l’ordine scelto dai genitori e con il limite di un cognome ciascuno. L’attribuzione non è connessa allo stato matrimoniale dei genitori bensì al fatto che la filiazione venga riconosciuta simultaneamente alla nascita oppure in un momento successivo (art. 363, comma 3 c.c., modificato dall’art. 12 della Loi n. 2013-404 du 17 mar 2013).
Al fine di inverare il principio di identità contestualmente ai principi di uguaglianza e non discriminazione, si consideri l’opportunità di garantire la trasmissione di entrambi i cognomi dei genitori, per manifestare il legame con le linee paterna e materna evitando che nella realtà dei fatti tradizione e dinamiche interne alla famiglia portino a una sostanziale prevalenza del patronimico. Ai genitori dovrebbe essere comunque riconosciuta la possibilità, in un momento successivo, di accedere a una procedura agevolata presso la Prefettura per ottenere il cambio cognome con la sostituzione, per esempio, del doppio cognome con il solo cognome materno o paterno.
Il riconoscimento della parità di genere, troppo a lungo negata dal sistema italiano di trasmissione del cognome, deve essere la priorità ma una scelta non attenta rischia di produrre complicazioni considerevoli. Si pensi, per esempio, ai casi in cui non vi sia accordo tra i coniugi o, ancora, all’eventualità in cui sussista un dubbio su quale cognome attribuire al figlio secondogenito nell’ipotesi in cui i genitori abbiano formulato un accordo espresso di assegnare il cognome materno al primogenito ma a causa, per esempio, di un mutamento nei rapporti coniugali tale comune volontà non venga nuovamente esplicitata al momento della nascita del secondo figlio. Un pericolo plausibile è anche quello – già segnalato - che, soprattutto nell’ipotesi della scelta di un cognome unico ma non solo, si manifesti un vantaggio per il cognome del coniuge che presenta una più forte posizione sociale ed economica. La scelta deve dunque essere ponderata ma non è ostica, considerando tra l’altro che il diritto comparato offre un’ampia gamma di possibilità, che hanno dato prova di funzionalità in un quadro di equità. Ciò che è certo è che – come testimoniato dalla determinazione della Corte Costituzionale a occuparsi del tema in via risolutiva – il cambiamento non può essere ulteriormente ritardato perché - nonostante l’obiezione ricorrente di chi ritiene che ci sia “ben altro cui pensare” - anche le discriminazioni meno appariscenti devono essere eliminate da un ordinamento che si fonda sulla eguaglianza.