Dal déjà vu al governo di unità nazionale: note a margine delle elezioni politiche in Israele

Le elezioni israeliane del 23 marzo, le quarte in appena due anni, hanno certificato la composizione di una Knesset estremamente frammentata: un quadro politico che rende complessa la formazione di una coalizione in grado di sostenere un nuovo esecutivo, lasciando aperte diverse opzioni per l’individuazione della premiership. Si tratta di un déjà vu, sul quale, però, si sono innestati alcuni elementi in grado di incidere, in prospettiva, sull’articolazione e sulla tenuta del sistema istituzionale israeliano, messo alla prova da un nuovo scioglimento pre-termine dell’assemblea parlamentare.
La fine anticipata della legislatura, il 23 dicembre 2020, è stata – sul piano giuridico – la diretta conseguenza della mancata approvazione del bilancio statale da parte della stessa assemblea; nel campo politico si è trattato dell’attestazione della rottura della fragile e anomala coalizione fra il Likud del primo ministro Benjamin “Bibi” Netanyahu e la formazione Kahol Lavan, guidata da Benny Gantz.
Il quadro odierno presenta alcuni aspetti peculiari, se si considerano le caratteristiche e la forza numerica delle formazioni partitiche che hanno superato la soglia di sbarramento del 3,25 per cento (volta a temperare – come noto – una formula elettorale proporzionale “pura” con la quale sono attribuiti i 120 seggi del collegio unico nazionale).
L’attuale Knesset – la ventiquattresima – insediatasi il 6 aprile, si articola in tredici gruppi parlamentari: sebbene il multipartitismo estremo rappresenti da sempre la cifra distintiva del sistema politico israeliano, il livello di frammentazione risultante dalle ultime elezioni è maggiore rispetto agli immediati precedenti: 8 partiti avevano superato la soglia nel 2020, 9 nelle elezioni del settembre 2019 e 11 in quelle dell’aprile dello stesso anno, che avevano inaugurato un biennio di instabilità senza precedenti nella storia del Paese.
Ciò che maggiormente sorprende dei risultati elettorali (a fronte di un livello di partecipazione al voto in flessione) è, per un verso, la rilevanza dello stacco fra il primo e il secondo partito (rispettivamente il Likud con 30 seggi e Yesh Atid, gruppo centrista di opposizione, con 17 seggi) e, per l’altro, l’elevato numero di formazioni di dimensioni medio-piccole scarsamente distanziate (ben dieci raggruppamenti possono contare su un numero di deputati compreso fra sei e nove). La lista araba Ra’am è la più esigua ed esprime quattro parlamentari. L’esito elettorale restituisce, inoltre, l’immagine di un Paese nel quale risultano largamente prevalenti i partiti conservatori e ultraconservatori: in questa prospettiva l’ultimo biennio potrebbe essere riletto ex post come uno spostamento “a tappe” verso destra dell’equilibrio politico israeliano, una sequenza incalzante di elezioni di “medio termine” che hanno, di fatto, generato una progressiva correzione dell’indirizzo politico in quella direzione.
Il panorama complessivo rivela, peraltro, ancora una volta, l’impossibilità di prescindere da alleanze post-elettorali, ma il rebus delle potenziali aggregazioni è segnato dai numerosi veti incrociati, che suggeriscono di considerare l’odierno scenario parlamentare come prevalentemente, ma non esclusivamente, polarizzato attorno alle due alternative: pro o contro “Bibi”.
Tornando alla cronaca istituzionale, il presidente Rivlin, dopo aver svolto le consultazioni, il 6 aprile ha affidato allo stesso Netanyahu l’incarico di formare un nuovo governo. Il sostegno promesso dai raggruppamenti più vicini al Likud – il Partito religioso sionista (una formazione di estrema destra guidata da Bezalel Smotrich, che può contare su sei deputati), la lista Yahadut HaTorah (ultra-ortodossi haredim, sette deputati), e Shas (ultra-ortodossi sefarditi, nove deputati) – non è stato sufficiente a spianare la strada per una riconferma del premier,  che prima di rimettere il mandato ha cercato (invano) ulteriore supporto a destra del Likud e nella lista araba Ra'am (di orientamento islamista-conservatore).
Il 5 maggio un nuovo incarico è stato conferito dal Capo dello Stato a Yair Lapid, leader di Yesh Atid, che ha espresso l’intenzione di dar vita ad un governo di unità nazionale, sostenuto dalla formazione di destra Yisrael Beiteinu, da Kahol Lavan (ex alleato del Likud), dal partito laburista e dalla sinistra moderata di Meretz. A questa composita alleanza alternativa, il cui collante principale sarebbe l’antagonismo all’attuale premier prima ancora che una piattaforma programmatica comune, si aggiungerebbero Tikva Hadasha (“Nuova speranza”, costituito in prevalenza da esponenti politici fuoriusciti dal Likud), alcuni deputati della Joint List araba e, soprattutto, i nazionalisti di Yemina, guidati da Naftali Bennett. La convergenza di quest’ultimo potrebbe essere garantita da un eventuale accordo su una nuova premiership a rotazione, un tandem Lapid-Bennet funzionale a blindare un governo dalla genesi atipica. Nel momento in cui si scrive, permangono i dubbi sul possibile successo di questo tentativo (in parte minato dell’insofferenza dei deputati di destra più ostili ad una soluzione così inclusiva) e, soprattutto, sulle sue chances di tenuta a medio termine.
Al di là degli sviluppi che concretamente potranno interessare le prossime fasi di formazione dell’esecutivo, tre fattori si pongono in ideale continuità con le caratteristiche consolidate del sistema politico israeliano e consentono di sovrapporre le circostanze presenti a situazioni già verificatesi nel passato, più o meno recente.
In primo luogo, una tendenziale ritrosia nel formare coalizioni pre-elettorali (se si escludono alcuni accordi “bilaterali” minori, volti ad evitare la dispersione dei resti), la cui ragione principale è da ricondurre al tentativo di tutte le forze politiche di capitalizzare le proprie peculiarità identitarie e sociali, evitando che queste possano scolorire in accordi difficilmente assimilabili dagli elettori.
In secondo luogo, e conseguentemente, la persistenza di molti veto-player: i partiti più piccoli – la cui genesi, sopravvivenza e, talvolta, reviviscenza è garantita dalla formula elettorale – risultano determinanti per assicurare il necessario sostegno agli esecutivi e continuano a condizionare pesantemente i negoziati che accompagnano l’individuazione dei potenziali primi ministri.
Infine, nonostante le vicende processuali che lo vedono coinvolto (è accusato di corruzione, frode e abuso di potere) e il recente fallimento nel tentativo di formazione dell’esecutivo, risalta la ferma resistenza di Netanyahu alla guida del Likud (vero e proprio partito egemone nell’ultimo quindicennio), all’interno del quale non si intravedono margini per una leadership alternativa, essendosi nel corso degli anni sfilati da quel partito tutti i possibili eredi politici di “Bibi”, per dare vita a formazioni che, oggi, lo sfidano dall’esterno.
Le linee di continuità evidenziate sono, tuttavia, accompagnate da alcuni fenomeni nuovi, “variazioni sul tema” che contribuiscono a rendere peculiare lo scenario attuale. Innanzitutto, il venir meno della preclusione nei confronti di un possibile accesso delle liste arabe all’area di governo. L’eventuale superamento di questa singolare forma di conventio ad excludendum incontrerebbe, in ogni caso, ostacoli non marginali, primo fra tutti l’incompatibilità fra le posizioni delle formazioni arabe e quelle dei deputati religiosi sionisti.
La situazione attuale si caratterizza, inoltre, per l’influenza che nella fase elettorale e in quella post-elettorale hanno avuto e hanno le vicende giudiziarie di Benjamin Netanyahu (solo in parte compensate dall’ottima performance del sistema sanitario israeliano nella pianificazione e gestione della campagna vaccinale): se non sembra essere in discussione la sua leadership all’interno del Likud, il suo percorso politico e di statista è, forse, ad un punto di svolta.
Infine, non andrebbe trascurata la generalizzata insofferenza dei cittadini israeliani rispetto al susseguirsi di elezioni anticipate. Temendo di essere puniti da un elettorato stanco, difficilmente uno o più partiti si assumeranno la chiara responsabilità di un eventuale fallimento dei negoziati in corso.
Gli elementi richiamati sin qui hanno naturalmente offerto nuovi spunti al più generale dibattito sull’adeguatezza della forma di governo israeliana e sulle sue modalità di funzionamento.
Che l’attuale situazione non sia un incidente di percorso, ma rappresenti piuttosto l’elemento più visibile di una crisi di sistema, è difficilmente contestabile ed è, tutto sommato, dimostrato anche dal ricorso che i protagonisti di questa stagione politica hanno fatto (con molto pragmatismo e con altrettanta creatività politico-istituzionale) alla soluzione della tandem-premiership, arrivando a disciplinare nel contratto di coalizione l’avvicendamento alla guida del Governo fra i due esponenti apicali dell’alleanza post-elettorale. Come può essere letto, in fondo, il meccanismo del premier a rotazione, se non come un segno di debolezza di un sistema partitico assai vitale nel momento elettorale, ma al contempo incapace di offrire soluzioni di sintesi e “ordinarie” garanzie di tenuta per gli esecutivi nel corso delle legislature?
Le posizioni divergono in ordine ai possibili correttivi percorribili: da un lato l’ipotesi di riformare la legge elettorale conferendole una maggiore capacità selettiva, dall’altro quella di mettere mano alla forma di governo (lo stesso premier Netanyahu ha, a tal proposito, auspicato l’introduzione dell’elezione diretta del primo ministro, trascurando di menzionare il fallimentare esperimento neoparlamentare degli anni 1996-2001). Entrambe le strade, per la verità, appaiono difficilmente percorribili: la rendita di posizione dei molti “aghi della bilancia” (le formazioni parlamentari piccole e medio-piccole) è troppo alta per poter essere sacrificata in nome di una governabilità dalla quale trarrebbero prevalentemente vantaggio i partiti maggiori. È questa la principale spiegazione dell’apparente anomalia di un sistema nel quale le ridefinizioni dei valori di fondo incontrano, tutto sommato, pochi ostacoli (si pensi alla Legge fondamentale sullo Stato nazione del popolo ebraico, approvata dalla Knesset nel 2018 con 62 voti a favore e 55 contrari), ma che poi fatica a modificare gli assetti organizzativo-istituzionali che determinano l’indirizzo politico contingente.
L’impasse israeliano si è peraltro verificato in un momento storico, quello attuale, nel quale – come a più riprese segnalato dalla dottrina – diversi sistemi parlamentari hanno registrato l’estensione dei tempi per la formazione del governo. In altri termini, alla luce dell’osservazione comparatistica, le difficoltà e le vischiosità israeliane risultano meno insolite se lette alla luce della generalizzata crisi del bipolarismo e del bipartitismo e dell’emergere negli scenari nazionali di partiti di tipo nuovo (si pensi ai tempi e alle modalità che hanno segnato la formazione dei più recenti governi in Spagna e Belgio).
Tornando al contesto israeliano, resta da capire quanto sia sostenibile, nel medio e lungo periodo, una situazione nella quale l’agenda è in larga parte sviluppata da governi dimissionari o privi di un solido appoggio parlamentare. Tanto più in un orizzonte nel quale tra gli “affari correnti” figurano questioni geopolitiche di grande rilievo (le tensioni con l’Iran, il percorso prefigurato dagli “accordi di Abramo” e la normalizzazione dei rapporti con gli Emirati Arabi Uniti, le relazioni con la nuova amministrazione statunitense, le elezioni politiche e presidenziali palestinesi che potrebbero svolgersi nei prossimi mesi); tutti dossier difficilmente appaltabili al solo pilota automatico delle burocrazie. D’altra parte, nel campo di tensione fra governabilità e rappresentanza, in un contesto attraversato da profonde e inevitabili spaccature come quello israeliano, alla formula elettorale proporzionale ed alla sua capacità inclusiva va forse attribuita una valenza autonoma, prescindendo – per quanto possibile – dagli effetti che essa può generare.