La questione dell’ergastolo ostativo, tra rinvii della Corte e disegni di legge in corso di approvazione

1. Il 10 maggio 2022 è tornata davanti alla Corte costituzionale la questione relativa alla disciplina del c.d. ergastolo ostativo, dopo oltre un anno di tempo dal rinvio con monito disposto in prima battuta con l’ordinanza n. 97 del 2021 (già brevemente commentata su questo blog).
La Consulta si è trovata davanti a una richiesta di ulteriore rinvio da parte dell’Avvocatura di Stato, motivata dalla circostanza che medio tempore è stato approvato dalla Camera dei Deputati un disegno di legge di riforma della norma sub judice, l’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n. 354), senza che si sia però ancora riusciti a completare il relativo iter, essendo il progetto da poco giunto al Senato (S. 2574), ove è ancora all’esame della Commissione Giustizia.
Così, con l’ordinanza n. 122 del 2022, il Giudice delle leggi “in considerazione dello stato di avanzamento dell’iter di formazione della legge” ha accordato al Parlamento un nuovo termine di sei mesi, posticipando ulteriormente la propria pronuncia sulla norma la cui incostituzionalità è stata già accertata.

2. Si tratta di una scelta che è stata considerata quasi scontata, ma che invero, a una più attenta riflessione, si rivela complessa sotto diversi profili (come segnalato, anche sulla stampa, da studiosi come Pugiotto e Galliani). Soprattutto, conferma le perplessità che il meccanismo del rinvio pone rispetto all’esigenza di effettività delle garanzie costituzionali: nel caso di specie, infatti, la sospensione del giudizio a quo non impedisce che la disposizione illegittima sia nel frattempo applicata ma, anzi, fa sì che essa continui a produrre i suoi effetti per tutto il tempo nel quale non interviene né una pronuncia di accoglimento né una riforma legislativa dell’istituto. Il ricorrente nel caso che ha originato la questione, dunque, insieme a molti altri ergastolani ostativi (si tratta di oltre 1.200 persone), resta sottoposto a una detenzione non conforme a Costituzione e qualificata dalla Corte di Strasburgo come trattamento in violazione dell’art. 3 Cedu, trattandosi di una pena comminata a vita e non riducibile de jure e de facto. E ciò appare in qualche modo paradossale se si considera che la Consulta, nel forgiare il nuovo congegno in occasione del c.d. caso Cappato, aveva addotto, tra le ragioni che la indirizzavano in tal senso, proprio l’esigenza che la norma incriminatrice incostituzionale non trovasse applicazione nel tempo che il legislatore avrebbe impiegato a intervenire (v. ord. n. 207 del 2018, par. 11 del Considerato in diritto: “onde evitare che la norma possa trovare, in parte qua, applicazione medio tempore”). La medesima preoccupazione avrebbe qui dovuto spingere la Corte in direzione opposta già in occasione del primo rinvio e, a maggior ragione, dopo la scadenza del termine assegnato al Parlamento in prima battuta.
Anche in termini più generali, il “rinvio del rinvio” non giova certo alla credibilità complessiva del meccanismo decisionale.
Nel caso all’esame, poi, non vi è alcuna garanzia che, tra sei mesi, l’iter legislativo delle norme di modifica dell’art. 4-bis ord. pen. sarà effettivamente concluso. Anzi, il timore che vi siano dei rallentamenti non sembra del tutto infondato. Se è vero che il disegno già approvato alla Camera ha in quella sede raccolto un consenso piuttosto ampio e trasversale, non si può dire che il relativo dibattitto sia chiuso e, al Senato, potrebbero essere ancora proposte delle modifiche.
Tanto più che l’esame in Commissione si svolge in parallelo a quello di un ulteriore e distinto progetto di legge (S. 2465, d’iniziativa dei senatori Grasso ed altri), che, pur essendo ispirato da principi di fondo analoghi, si differenzia su numerosi aspetti. E, in effetti, si deve riconoscere che alcuni interventi sarebbero senz’altro auspicabili se non addirittura doverosi.

3. Il testo approvato, infatti, presenta diversi problemi, come emerge anche dai pareri di tre Presidenti di Tribunali di sorveglianza (di Roma, Trieste e Palermo) acquisiti dalla Commissione Giustizia del Senato, che segnalano, significativamente, dal punto di vista di chi sarà chiamato ad applicare la nuova normativa, molte sue criticità, valutandola complessivamente come eccessivamente rigida e, in alcuni tratti, anche poco funzionale. Tra i rilievi, vi sono diversi profili tecnici, come quelli relativi ad alcune incongruenze nell’indicazione dei reati che comportano l’applicazione del regime ostativo, ma anche la riaffermata necessità di creare una maggiore differenziazione tra le diverse ed eterogenee tipologie di fattispecie che rientrano nel perimetro del 4-bis ord. pen., a seguito del loro progressivo e disordinato proliferare. Inoltre, lo spostamento della competenza a decidere su tutti i benefici in capo al Tribunale di Sorveglianza, nella sua composizione collegiale, in luogo di quella attuale del Magistrato di sorveglianza per i permessi premio e il lavoro all’esterno, è considerato una soluzione poco felice sia sotto il profilo dell’efficienza decisionale sia sotto quello delle garanzie, fungendo ora il reclamo al Tribunale come un doppio grado di merito sulla decisione.
Si tratta di osservazioni che non sembra si possa fare a meno di considerare.
A ciò va aggiunto che alcune scelte fatte nei testi in discussione presentano dubbi di costituzionalità, più o meno marcati, rispetto a posizioni espresse in passato dalla Consulta.
Il più netto riguarda l’opzione, contenuta in entrambe le proposte di legge in discussione, di cancellare ogni distinzione tra i vari casi di mancata collaborazione, non prevedendo un regime differenziato per le situazioni in cui tale collaborazione sia da considerare inesigibile o impossibile. La disciplina ad hoc attualmente prevista è infatti frutto di interventi che hanno recepito le posizioni della Corte costituzionale (sentenze n. 68 del 1995, n. 357 del 1994 e n. 306 del 1993); e il giudice delle leggi ha anche recentemente, con la sentenza n. 20 del 2022, confermato la perdurante ragionevolezza della distinzione, in termini tali da lasciar intendere che, all’opposto, sarebbe da considerare illegittimo un identico trattamento (in questo senso, v. tra gli altri, v. Ciafardini).
Delicata, pur se passibile di un’interpretazione costituzionalmente conforme, è poi, ad avviso di chi scrive, l’inclusione, tra i fattori che il giudice deve considerare, delle “ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione” (così il disegno di legge S. 2574). Se infatti può ammettersi, come l’avverbio “eventualmente” lascia ritenere, che l’apprezzamento di tali motivi sia consentito, non se ne potrebbe invece fare un elemento imprescindibile di valutazione, perché la pretesa che siano esplicitate le ragioni della mancata collaborazione deve fare i conti con il possibile rilievo del diritto alla difesa, nella sua declinazione del diritto alla non-autoincriminazione anche rispetto a fatti ulteriori rispetto a quelli per i quali il reo è stato condannato, come la Corte ha espressamente indicato nella sentenza 235/2019 (par. 8.1 del Considerato in diritto). E forse anche con quel “diritto al silenzio”, fugacemente evocato dalla Consulta nella medesima sentenza 235/2019, che, pur nella sua più incerta configurazione, non può non comprendere quantomeno il diritto a non accusare persone legate da un rapporto affettivo particolarmente stretto, considerato che l’art. 199 c.p.p. esenta i prossimi congiunti dall’obbligo di testimoniare. Alla luce di tali considerazioni, suscita maggiori preoccupazioni il riferimento contenuto nel d.d.l. Grasso al contributo del richiedente alla “realizzazione del diritto alla verità spettante alle vittime, ai loro familiari e all’intera collettività” come elemento necessario di valutazione. Tra l’altro, il richiamo è fatto qui ad un concetto giuridico – il diritto alla verità – assai sfuggente, derivato com’è dalla giurisprudenza di alcune Corti internazionali, nella quale evoca non tanto una specifica situazione giuridica soggettiva quanto piuttosto, più genericamente, l’obbligo degli Stati di svolgere indagini efficaci su episodi di grave violazione dei diritti umani. È evidente, comunque, che in un ordinamento liberal-democratico e ispirato al principio personalista, esso non potrebbe comportare un corrispondente dovere a carico di soggetti privati di collaborare con l’autorità giudiziaria rispetto a fatti che li hanno visti protagonisti, proprio per il possibile contrasto, se non altro, con i diritti sopra menzionati, di assai più sicuro aggancio costituzionale. Vale ancora la pena di ricordare che il giudice delle leggi, nel precedente n. 253/2019, ha parlato esplicitamente di una «libertà di non collaborare ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit.» che la legge «non può disconoscere ad alcun detenuto» (par. 8.1).

4. I disegni di legge in fase di approvazione pongono, poi, anche molti altri dubbi – sia sotto il profilo tecnico sia sotto quello dell’opportunità – sui quali non è possibile soffermarsi in questa sede. L’impressione complessiva è, comunque, che nonostante il molto lavoro già fatto alla Camera nel corso della prima approvazione del d.d.l. S. 2574 (sulle proposte iniziali, cfr., tra le altre, le analisi critiche di Galliani e Dolcini), sarebbero ancora necessarie diverse limature.
Certamente, trovare in Parlamento un’intesa ampia su un testo condiviso potrebbe agevolare la serena applicazione della nuova normativa. In particolare, lo stemperamento di alcune tensioni su questo tema potrebbe favorire l’instaurarsi di prassi applicative corrette da parte di tutte le istituzioni chiamate a dare informazioni o rendere i pareri (con alcune differenze nei due progetti, si va dai procuratori antimafia o presso il giudice che ha emanato la condanna, ai comitati per l’ordine pubblico e la sicurezza e/o la direzione antimafia). Per il buon funzionamento della disciplina e l’effettiva tutela dei diritti costituzionali delle persone coinvolte occorre infatti che i contenuti di tali atti siano frutto di un’istruttoria seria e aggiornata. Si tratta di un dato purtroppo non scontato, a fronte di pareri resi oggi da questi organismi troppo spesso sulla base di acquisizioni risalenti ai tempi delle condanne (cioè, vecchie di decenni), senza compiere nessun nuovo accertamento e con motivazioni quantomeno sbrigative. Dunque, sotto questi profili, la prospettiva di un accordo largo sul tema in sede parlamentare, che coinvolga anche i settori più sensibili ai profili securitari, è da guardarsi senz’altro con favore. Ma a una riforma condivisa dell’art. 4-bis ord. pen. si sarebbe potuto giungere anche dopo un tempestivo intervento della Corte sulla norma incostituzionale.

5. Resta, infine, il dubbio su quali saranno le conseguenze di un’eventuale nuova disciplina rispetto alla decisione che assumerà la Corte alla prossima udienza e quali le possibilità di sindacato sulla conformità della stessa ai propri dettami.
Se a novembre sarà stata approvata una legge di modifica dell’art. 4-bis ord. pen. in linea con i disegni di legge attualmente in discussione, sembra invero ben difficile ipotizzare che sia praticabile per la Consulta una soluzione diversa dalla restituzione degli atti al giudice a quo, per una valutazione dello jus superveniens. Il che, tuttavia, comporterà prevedibilmente ulteriori rallentamenti e incertezze per la posizione del ricorrente, a tutto detrimento della concretezza della tutela dei diritti costituzionali nel sindacato incidentale.


Un passo avanti e uno indietro: la Consulta sull’ergastolo ostativo opta per il rinvio con monito

Sulla questione dell’ergastolo ostativo la Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 97 del 2021, torna ad utilizzare, per la terza volta, la tecnica decisoria di recente conio del rinvio «ad incostituzionalità differita» (prendendo a prestito l’espressione di M. Bignami; i primi due casi, com’è ampiamente noto, sono l’ord. n. 207 del 2018, sul suicidio assistito, e la n. 132 del 2020, sulle pene detentive per diffamazione nei confronti dei giornalisti), con una scelta che era stata anticipata dal comunicato stampa pubblicato al termine di una Camera di Consiglio probabilmente piuttosto sofferta (visto che è proseguita a distanza di alcuni giorni).
Come è accaduto già in occasione dei previ impieghi di detta formula, si tratta di un’ordinanza di rinvio che non si limita a contenuti di tipo processuale, ma che motiva ampiamente sulla questione, con argomentazioni diffuse che sarebbero tipiche, piuttosto, di una sentenza di merito e che anticipano una valutazione di incompatibilità della disciplina sub judice rispetto alle norme costituzionali.
Del resto, i vicini precedenti sul tema del regime di cui all’art. 4-bis ord. pen. costituiti dalla decisione della medesima Corte Costituzionale in materia di permessi premio (sent. n. 253 del 2019) e dalla sentenza di condanna dell’Italia da parte della Corte Edu nel caso Viola per violazione dell’art. 3 Cedu non potevano non avere un peso. Così, l’ordinanza n. 97 del 2021 compie in effetti quel passo in avanti che ci si attendeva (cfr., ad esempio, gli esiti del seminario preventivo ferrarese), estendendo anche rispetto all’accesso alla liberazione condizionale le considerazioni critiche contenute in entrambi gli arresti circa il carattere assoluto della presunzione di pericolosità sociale del condannato per delitti di contesto mafioso che non abbia (pur potendolo fare) utilmente collaborato con la giustizia. La posizione della Consulta è ben definita ed in linea con quella – comunque assai cauta – espressa nel proprio antecedente più diretto: non si esclude il rilievo e l’utilità della collaborazione, riconosciuti dalla legislazione premiale, ma se ne “neg[a] la compatibilità con la Costituzione se ed in quanto essa risulti l’unica possibile strada, a disposizione del condannato all’ergastolo, per accedere alla liberazione condizionale” (punto 6 del Considerato in diritto, ultimo periodo; corsivi aggiunti). Pertanto, alcune rationes decidendi poste a fondamento della sentenza n. 253 del 2019 “valgono per le questioni all’odierno esame”, per cui il carattere assoluto della presunzione “impedisce […] alla magistratura di sorveglianza di valutare […] l’intero percorso carcerario del condannato all’ergastolo, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero anche di un tale condannato alla vita sociale, ai sensi dell’art. 27, terzo comma, Cost.” (punto 7 del Considerato in diritto; corsivi aggiunti). Per quanto, dunque, la Corte usi in alcuni passaggi un frasario meno limpido di quanto fatto in altre occasioni – adoperando il vocabolo “tensione” per indicare il rapporto tra la presunzione assoluta e il principio rieducativo della pena (come nota A. Morrone) o tralasciando l’interessante riferimento alla “libertà di non collaborare” contenuto nella sentenza n. 253/2019 – ciò non vale a sminuire la chiarezza e la nettezza dell’affermata incostituzionalità dell’automatismo legislativo.
Per questa via, il giudice delle leggi riannoda i fili delle due argomentazioni possibili sul tema: quella più tecnica, che fa leva sulla illegittimità delle presunzioni assolute (e riguarda tutti i tipi di condanna, comprese quelle a termine, e l’accesso a tutti i tipi di benefici), e quella, più connotata assiologicamente, legata al tema della pena perpetua e alla necessità costituzionale e convenzionale che esista un possibilità de jure e de facto di farla cessare dopo un certo numero di anni, valutato il “sicuro ravvedimento” del condannato, consentendo il suo rientro nel consesso sociale. Ed è quest’ultimo, senz’altro, il versante più drammatico, nel quale “la posta in gioco è ancora più radicale” rispetto al caso precedente relativo ai permessi premio.
Proprio queste ragioni avrebbero potuto indurre la Corte ad un atteggiamento di rigore nell’applicazione dei precetti costituzionali. Invece, il giudice costituzionale, giunto sin qui, ad un tratto, fa un passo indietro e spezza la linea di continuità rispetto alla decisione n. 253/2019, optando per il già ricordato rinvio, accompagnato dall’invito al legislatore ad intervenire.
L’uso di questa tecnica decisoria – già esposta a molti rilievi critici di carattere generale, tra i quali spicca la contraddittorietà di fondo tra l’idea che spetti solo al legislatore definire gli interventi necessari e quella che sia possibile, per il giudice delle leggi, decidere per un accoglimento laddove il termine assegnato al Parlamento scada infruttuosamente – risulta qui particolarmente stonato proprio in considerazione della incoerenza rispetto al diretto e più vicino precedente.
In quell’occasione, la Corte aveva infatti ritenuto di poter intervenire con una pronuncia manipolativa che restituisse al giudice la valutazione in concreto del singolo caso, sulla base di una serie di elementi non completamente definibili a priori, collocandosi nella scia di un nutrito e consolidato filone giurisprudenziale che declina il principio di ragionevolezza come «razionalità pratica» (M. Cartabia; moltissime le decisioni riconducibili a questo orientamento: cfr., ad esempio, già Corte Cost., sent. n. 303/1996 e, di recente, sent. n. 149/2018). E già in quella sede, aveva indicato – attraverso un’addizione introduttiva di elementi ampiamente rassicuranti rispetto agli interessi di difesa sociale, quali l’indicazione che il giudice, in vista della concessione dei permessi premio, dovesse escludere il pericolo di ripristino dei legami con l’associazione criminale di provenienza – le modalità volte a far sì che le valutazioni rispondessero a criteri di particolare rigore (secondo quanto richiesto nell’ordinanza in commento, al punto 9 del Considerato in diritto).
Non si comprendono, dunque, in questo caso, le ragioni giuridiche per le quali la Consulta abbia invece ritenuto di dover attendere un futuro intervento del legislatore, peraltro improbabile (almeno alla luce dell’esperienza dei due precedenti rinvii con monito). Tutti gli argomenti apportati appaiono, infatti, piuttosto singolari rispetto alle acquisizioni della pluriennale esperienza della giustizia costituzionale: così, il riferimento all’intervento meramente demolitorio possibile per la Consulta non sembra tenere conto dell’armamentario predisposto dalla Corte medesima nei decenni e utilizzato nel precedente sopra richiamato; e i possibili tratti di incoerenza del sistema risultante dall’accoglimento avrebbero potuto essere agevolmente superati mediante l’utilizzazione dell’istituto dell’illegittimità consequenziale, come fatto, appunto, nella sent. n. 253/19. Né convince il richiamo alla “preferenza” espressa per l’intervento per via legislativa dalla Corte di Strasburgo nella sentenza Viola: dopo quasi due anni, il Parlamento è ben lontano dall’approvazione di una legislazione che rimuova la violazione convenzionale e nessuna delle iniziative citate dalla Corte è in uno stadio che faccia anche solo ipotizzare una possibile sollecita conclusione.
Più in generale, il rinvio sembra contraddire proprio l’opzione di fondo di restituire al giudice lo spazio valutativo del caso concreto, chiamando in qualche modo il legislatore a porre ulteriori vincoli rispetto all’accertamento del “sicuro ravvedimento”, un requisito che già implica un grado di predizione assai intenso e che viene in effetti riscontrato, nella prassi giudiziaria, con molta parsimonia, se si considerano i numeri davvero ridotti delle liberazioni condizionali concesse agli ergastolani non ostativi.
Del resto, i suggerimenti che la Corte dà al Parlamento non paiono del tutto a fuoco, poiché fanno riferimento a possibilità già in essere e che sarebbe assai problematico irrigidire. L’emersione degli specifici motivi della mancata collaborazione può senz’altro essere un elemento da considerare per il giudice, ma anche ad essa non si può assegnare un valore decisivo, se si considera che, al riguardo, la Corte stessa pone il problema del diritto al silenzio rispetto a possibili autoincriminazioni per fatti non giudicati. Quanto alla eventualità di peculiari prescrizioni che regolino il periodo di libertà vigilata, essa già esiste e la relativa scelta è inevitabilmente rimessa al giudice in correlazione con la specifica situazione del singolo condannato.
Semplicemente, si trattava (e forse, tra un anno, si tratterà) di restituire la discrezionalità della valutazione alla magistratura di sorveglianza.
La pressione in senso contrario esercitata sulla Corte da una certa parte dell’opinione pubblica e della magistratura, soprattutto requirente, pare trasparire nella precisazione che la Consulta sente di dover fare circa la non concedibilità della liberazione condizionale ai condannati in costanza di assoggettamento al regime ex art. 41-bis ord. pen. La considerazione è ineccepibile, dal momento che le gravi deroghe che tale sistema comporta rispetto al comune trattamento penitenziario sono fondate proprio sulla ritenuta attuale sussistenza di contatti con l’organizzazione criminale di provenienza; ma è, appunto, talmente ovvia da risultare superflua e da poter essere spiegata solo in chiave “comunicativa”.
Proprio tale preoccupazione mediatica della Corte (su cui, recentemente, in una prospettiva più ampia v. S. Pajno) non può non destare qualche perplessità di carattere più generale rispetto alla capacità della stessa di esercitare una funzione contro-maggioritaria, connaturata al suo stesso ruolo di garanzia costituzionale. E non si può non constatare come il meccanismo del rinvio con monito si inserisca a pieno titolo tra quelli che, in definitiva, consentono la perdurante applicazione di discipline la cui incostituzionalità è esplicitamente riconosciuta dalla Consulta stessa. Si tratta di un problema non nuovo, del quale, anche recentemente, si sono avute altre espressioni ancora più eclatanti (si pensi alla sentenza n. 41/2021 sui giudici di pace). Ma tale constatazione non può certo rassicurare, tanto più che, in questo caso, vengono in gioco, per chi continua a subire gli effetti di una normativa incostituzionale, la privazione della libertà personale e la violazione dell’art. 3 Cedu, norma convenzionale che non prevede la possibilità di eccezioni o deroghe.