Il sistema dei d.P.C.m. al vaglio della Corte costituzionale. Impressioni a prima lettura di Corte cost., sent. n. 198/2021

Con la sentenza in commento (sent. n. 198/2021), la Corte costituzionale ha respinto una questione di legittimità costituzionale riguardante la normativa emergenziale con la quale il Governo ha gestito la fase iniziale della pandemia da nuovo coronavirus. In particolare, il Giudice di Pace di Frosinone dubitava della conformità a costituzione degli artt. 1, 2 e 3 del D.L. n. 6/2020 e 1, 2 e 4 del D.L. n. 19/2020, tutti in relazione agli artt. 76 e 77 Cost., nella misura in cui – secondo il rimettente – la disciplina in essi contenuta avrebbe “sostanzialmente” delegato la funzione legislativa al Presidente del Consiglio – esercitata per il tramite dei noti d.P.C.m. – e, pertanto, violato il principio costituzionale di tassatività delle fonti di produzione normativa primaria.
Il giudizio all’origine dell’odierna pronuncia riguardava un’opposizione proposta da un cittadino avverso una sanzione amministrativa elevata nei suoi confronti dai Carabinieri di Trevi nel Lazio per aver violato, il 20 aprile 2020, il divieto di spostarsi senza giustificato motivo, ai sensi e per gli effetti del d.P.C.m. 22 marzo 2020. In punto di rilevanza, il dubbio di costituzionalità prospettato dal rimettente, riguardando la speciale cornice normativa che disciplinava ratione temporis le misure adottabili dal Presidente del Consiglio dei ministri e l’apparato sanzionatorio a queste connesso, avrebbe condotto – se fondato – “a ritenere legittimo il comportamento tenuto dal ricorrente”, e pertanto ad accogliere l’opposizione (cfr. ordinanza di rimessione). Sotto il profilo della non manifesta infondatezza, l’argomentazione svolta dal giudice a quo – per vero, non scevra da criticità – era in sintesi la seguente: il rinvio operato dai decreti-legge sopraindicati ai decreti del Presidente del Consiglio dei ministri – ovvero alle altre ordinanze ministeriali o  regionali ivi indicate – si sarebbe tradotto nell’attribuzione di un “potere di dettare vere e proprie norme generali ed astratte derogatorie di fonti normative di rango ordinario o primario, aventi cioè forza di legge”, delegando così “ad atti amministrativi, i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, la disciplina di nuovi illeciti, prima penali e, poi amministrativi” (cfr. ordinanza di rimessione).
Passando alla sentenza in commento, va osservato che il perimetro della questione di legittimità costituzionale disegnato dal G.d.P. frusinate – correttamente circoscritto, peraltro, dalla Corte ai soli artt. 1, 2 e 4 del D.L. n. 19/2020, puntualmente richiamati anche nel provvedimento sanzionatorio opposto (in particolare l’art. 4, D.L. cit.) e in attuazione dei quali era stato adottato il d.P.C.m. 10 aprile 2020 – ne ha fortemente condizionato (e ridotto) il potenziale impatto sulla gestione normativa della pandemia: il richiamo ai soli artt. 76 e 77 Cost. ha, infatti, escluso ogni possibilità che la Corte si pronunciasse in ordine all’aspetto più incerto e problematico della normativa emergenziale indubbiata, vale a dire il rispetto da parte del Governo, da un lato, delle diverse riserve di legge poste a garanzia dei diritti fondamentali toccati dalle misure limitative e, dall’altro, del principio di legalità – inteso in senso sostanziale – nella conformazione delle correlate, speciali attribuzioni del Presidente del Consiglio dei ministri.
Su questi aspetti si dovrà attendere ancora, nondimeno la sentenza, anche attraverso i suoi ‘non detti’, è ricca di spunti e suscita molte riflessioni per il futuro, anche di tipo ricostruttivo.
In primo luogo, il tema del rispetto del principio di legalità in senso sostanziale traspare indirettamente tra le pieghe della motivazione – e ne esce confermata, pertanto, la sua importanza – nella misura in cui la Corte, nel rigettare il merito della questione, individua come elemento decisivo la tipizzazione da parte del D.L. n. 19/2021 delle misure di contenimento adottabili dal Presidente del Consiglio, di modo che, nel caso di specie, non potesse ravvisarsi lo spazio per la creazione, mediante d.P.C.m., di nuove fattispecie di illecito amministrativo.
Il passaggio argomentativo non è secondario: la valorizzazione della tipicità delle misure di contenimento si riflette, infatti, in modo indiretto (ma chiaro) sulla fisionomia – anch’essa, a questo punto, tipizzata – dei poteri attribuiti dalla medesima norma primaria al Presidente del Consiglio.
In altre parole, la disciplina puntuale delle misure di contenimento da parte della fonte primaria esclude quel rischio, più volte denunciato dalla stessa Corte, di “assoluta indeterminatezza” del relativo potere amministrativo (Corte cost., sent. n. 150/2011); il che garantisce quel principio di legalità dell’azione amministrativa, centrale per la corretta configurazione, da un lato, dei rapporti tra atti che, quand’anche entrambi di natura normativa, sono posti su livelli diversi (art. 97, Cost.), e dall’altro tra Autorità e singoli individui (art. 23, Cost.), nella misura in cui detto principio esige un parametro legale sufficientemente preciso e definito alla luce del quale poter operare un sindacato giurisdizionale a garanzia delle situazioni giuridiche dei singoli incise negativamente dall’atto adottato dall’Amministrazione.
Tale ragionamento, in effetti, non viene esplicitato dalla Corte, la quale si limita a considerare tale tipizzazione quale indice di una preclusione rispetto all’assunzione, da parte dell’Autorità di Governo, di “provvedimenti extra ordinem” (cfr. cons. in dir. § 6.2.).
La sentenza in esame sfiora, quindi, la duplice questione i) del corretto inquadramento (rectius: fondamento) dei d.P.C.m. e ii) della loro natura giuridica.
Sotto il primo profilo, la sentenza – ed è senz’altro circostanza meritoria – identifica in modo univoco la ‘catena normativa’ che contraddistingue gli atti in questione, escludendo dalla medesima il D.lgs. n. 1/2018; a differenza di quanto prospettato da alcuni, sul punto la Corte infatti chiarisce che, “malgrado il punto di intersezione rappresentato dalla dichiarazione dello stato di emergenza, le misure attuative del d.l. n. 19 del 2020 non coincidono, infatti, con le ordinanze di protezione civile, l’emanazione delle quali compete pure al Presidente del Consiglio dei ministri, a norma degli artt. 5 e 25 del d.lgs. n. 1 del 2018” (cfr. cons. in dir. § 8.1.).
Sotto il secondo profilo, il ragionamento della Corte è forse ancora più contratto, ma non per questo meno significativo: muovendo dalla tipizzazione delle misure e dalla previsione legislativa di specifici criteri in ordine alle modalità di esercizio della relativa potestà attribuita al Presidente del Consiglio – e in particolare del tipico vincolo alla discrezionalità amministrativa rappresentato dai “principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente su specifiche parti del territorio nazionale ovvero sulla totalità di esso” (cfr. art. 1, co. 2, D.L. 19/20) –, il Giudice delle leggi ha fissato la natura di atto amministrativo dei d.P.C.m., definendoli “espressione di una potestà amministrativa, ancorché ad efficacia generale” (cfr. ult. loc. cit.).
Non solo. Proprio l’alternatività del “modello di regolazione” previsto dal D.L. n. 19/2020, rispetto a quello stabilito dal D.lgs. n. 1/2018, viene impiegata dalla Corte come ulteriore conferma dell’impossibilità di ‘sistemare’ i d.P.C.m. nel più ampio genus delle ordinanze di necessità e urgenza (c.d. ordinanze libere o necessitate): più che a quest’ultime, le misure urgenti di contenimento previste dal D.L. cit., secondo la Corte, possono “per certi versi” essere  accostate alla categoria degli “atti necessitati”, in quanto “emessi in attuazione di norme legislative che ne prefissano il contenuto” (e dunque distinti da quest’ultime), secondo una distinzione dottrinale classica del diritto amministrativo, a sua volta ripresa dalla stessa Corte in una sua risalente pronuncia in tema di ordinanze prefettizie ex art. 20, r.d. n. 383/1934 (Corte cost., sent. n. 4/1977).
Con riguardo alla questione della natura normativa o meno dei d.P.C.m., una lettura affrettata della sentenza sembrerebbe suggerire che la Corte abbia escluso tale carattere, definendoli atti amministrativi generali; senonché proprio l’efficacia generale (c.d. generalità) è il principale tratto che accomuna gli atti normativi secondari e gli atti amministrativi generali, sicché si può ritenere che la Corte non abbia realmente scelto in quale dei due modelli collocare i d.P.C.m. previsti dal D.L. n. 19/2020. Né sono di poco conto le conseguenze pratiche connesse a questa alternativa: si pensi, per es., al tipo di conseguenze giuridiche per l’atto applicativo contrario un d.P.C.m., a seconda che si consideri quest’ultimo atto normativo (cui consegue un’illegittimità per violazione di legge) o atto amministrativo generale (cui consegue solo un’illegittimità per eccesso di potere).
La questione più delicata da sciogliere resta, dunque, quella riguardante il carattere normativo (o meno) di questi particolari atti amministrativi; il che, da un lato, spiega la particolare cautela (se non parsimonia) osservata dalla Corte nel ‘dosare’ termini e concetti nell’economia della motivazione, e dall’altro implica che la relativa soluzione transiti per un esame analitico delle caratteristiche sostanziali di questi peculiari atti (esame in questo caso escluso dallo stesso tenore dell’ordinanza di rimessione).


Il ‘crocevia’ della giurisdizione. Brevi spunti ricostruttivi a margine di Cass. SS.UU., ord. 18 settembre 2020, n. 19598/2020

Con l’ordinanza in commento le Sezioni Unite della Corte di cassazione (rel. Lamorgese) hanno sollevato dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea tre complesse questioni pregiudiziali, nell’ambito delle quali si chiede, in estrema sintesi, di verificare la compatibilità con il diritto europeo di quella ‘prassi interpretativa’ – sancita dalla Corte costituzionale con la sent. n. 6/2018 – che esclude il rimedio del ricorso per cassazione ex art. 111, ult. co., cost., avverso le sentenze del Consiglio di Stato che, non solo, confliggano con sentenze della Corte di giustizia, in settori disciplinati dal diritto dell’Unione europea, ma omettano immotivatamente, in relazione alle controversie sorte sui predetti settori, di effettuare il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE.
A ben vedere, il provvedimento si inserisce da ultimo in un risalente e travagliato solco giurisprudenziale di legittimità, nell’ambito del quale la Corte di Cassazione – a partire dai noti precedenti sulla c.d. pregiudizialità amministrativa; cfr. per tutti Cass. SS.UU., n. 13659/2006) – ha progressivamente esteso il concetto di giurisdizione (e, pertanto, il proprio sindacato ex art. 111, ult. co., cost.), arrivando a elaborarne, come si vedrà a breve, una nozione ‘dinamica’, tale da sovrapporre unità funzionale e unità organica dei diversi plessi giurisdizionali presenti nell’ordinamento costituzionale italiano.
Nel caso di specie, la vicenda processuale sulla quale la Suprema Corte ha edificato siffatto rinvio al giudice europeo trae origine dalla, ormai classica (ma inesausta), questione della c.d. efficacia paralizzante del ricorso incidentale escludente, nell’ambito del contenzioso amministrativo in materia di appalti pubblici.
Al riguardo, converrà riassumere brevemente i fatti: l’odierno ricorrente per cassazione partecipava a una procedura di gara, da aggiudicare in base al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa; nel corso di quest’ultima esso veniva escluso, giacché il punteggio conseguito dalla propria offerta tecnica non superava una soglia di sbarramento fissata ad hoc dalla Stazione appaltante. L’operatore economico impugnava dinanzi al TAR per la Valle d’Aosta la propria esclusione nonché, con motivi aggiunti, gli altri atti di gara e la stessa aggiudicazione.
L’aggiudicatario si costituiva in giudizio ed eccepiva, in via preliminare, l’inammissibilità delle censure di controparte dirette a travolgere l’intera gara, in quanto il ricorrente era stato (in tesi) legittimamente escluso dalla gara e pertanto era privo di legittimazione a proporle.
Il Tribunale valdostano rigettava tale eccezione ed esaminava nel merito – rigettandoli anch’essi – tutti i motivi di ricorso presentati dall’operatore escluso: quest’ultimo, infatti, era fuoriuscito dalla procedura, non per carenza di un requisito di ammissione alla medesima, ma in virtù di un meccanismo di gara connesso al punteggio attribuito all’offerta tecnica.
L’operatore impugnava, in via principale, la sentenza di primo grado dinanzi al Consiglio di Stato, riproponendo le medesime doglianze – attinenti sia alla propria esclusione, che all’aggiudicazione finale –, mentre l’aggiudicatario censurava, in via incidentale, il medesimo provvedimento nella parte in cui il TAR aveva esaminato nel merito anche le censure avversarie dirette a travolgere l’intera gara, in quanto proposte da soggetto escluso e pertanto privo della relativa legittimazione processuale; la ratio del mezzo è evidente: una volta esclusa la fondatezza del motivo attinente all’esclusione dell’avversario, il restante gravame presentato da quest’ultimo sarebbe risultato inammissibile.
Il Consiglio di Stato, sulla scorta delle due Adunanze plenarie che sul punto si erano espresse (sentt. nn. 4 del 2011 e 9 del 2014), accede a tale ultima ricostruzione e, per l’effetto, da un lato confermava   la legittimità dell’esclusione dell’appellante principale, e dall’altro, in accoglimento del gravame incidentale (‘paralizzante’), riformava parzialmente la sentenza di primo grado, dichiarando inammissibili le altre censure rivolte dall’impresa esclusa agli atti di gara, in quanto soggetto equiparabile a qualunque altro operatore economico che non aveva partecipato alla gara, titolare di un interesse di mero fatto (e pertanto privo di idonea legittimazione sostanziale a proporre quelle censure).
Avverso la pronuncia del Consiglio di Stato, l’operatore escluso impugnava, infine, la sentenza del Consiglio di Stato con ricorso per cassazione ex art. 111, ult. co., cost., deducendone, da un lato, la violazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale, di cui all’art. 1, par. 1, co. 3, Dir. CEE n. 665/1989 (e della conferente giurisprudenza europea in tema di appalti pubblici, a partire dalle note sentenze Fastweb, Puligienica e Lombardi che hanno escluso la compatibilità con il diritto europeo dei cc.dd. ricorsi incidentali o eccezioni con effetti ‘paralizzanti’), e dall’altro un diniego di accesso alla medesima tutela, configurabile in questo caso come peculiare questione inerente alla giurisdizione e pertanto censurabile con il mezzo proposto.
Sino alla sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 2018, quest’ultimo argomento avrebbe trovato sicuro accoglimento presso la Corte di cassazione la quale, attraverso la fabbricazione di una nozione ‘evolutiva’ del concetto di giurisdizione – per la quale il giudizio sui limiti esterni di quest’ultima si estende sino alla verifica che la tutela giurisdizionale sia effettivamente erogata –, era giunta da ultimo ad affermare il proprio sindacato di legittimità ex art. 111, ult. co., cost., anche nei confronti di quelle sentenze del Consiglio di Stato affette da un ‘radicale stravolgimento’ delle norme di riferimento (nazionali o dell’Unione) tale da ridondare in denegata giustizia; secondo questo orientamento, l’esame prioritario (e l’accoglimento) del ricorso incidentale ‘paralizzante’ presentato dall’aggiudicatario – e la conseguente declaratoria di improcedibilità di tutte le altre censure dell’operatore escluso – avrebbe rappresentato error in procedendo e, al contempo, violazione dei limiti esterni della giurisdizione, in quanto applicazione di una “regola processuale interna incidente nel senso di negare alla parte l’accesso alla tutela giurisdizionale nell’ampiezza riconosciuta da pertinenti disposizioni normative dell’Unione europea” (così Cass. SS.UU. n. 31226/2017, cfr. anche Id. n. 2242/2015).
Com’è noto la Corte costituzionale, con la sent. n.6/2018 (rel. Coraggio), ha recisamente escluso la compatibilità di tale concezione di giurisdizione “con la lettera e lo spirito” dell’art. 111, ult. co., cost.; tra i vari argomenti – tutti spesi con rara franchezza – vi è quello per cui una simile concezione, oltre a determinare “una più o meno completa assimilazione dei due tipi di ricorso” previsti dagli ultimi due commi dell’art. 111 cost., poggia su “considerazioni che sono o prive di fondamento o estranee ad una questione qualificabile come propriamente di giurisdizione, e cioè richiamando princìpi fondamentali quali la primazia del diritto comunitario, l’effettività della tutela, il giusto processo e l’unità funzionale della giurisdizione”; questi principi, infatti, vanno senz’altro garantiti, “ma a cura degli organi giurisdizionali a ciò deputati dalla Costituzione e non in sede di controllo sulla giurisdizione”.
A fronte di questa pronuncia – e sebbene le stesse Sezioni Unite vi abbiano dato un certo seguito (cfr. da ultimo sent. n. 6460/2020) – la Corte di cassazione non si è lasciata sfuggire l’occasione offerta dal caso di specie per innescare un conflitto, potenzialmente senza precedenti, nei confronti della Corte costituzionale, invocando peraltro l’intervento della Corte di giustizia.
I termini dell’ordinanza sono più o meno espliciti: la pronuncia della Corte costituzionale (ridotta a ‘prassi interpretativa’) rappresenta un ostacolo all’applicazione – e, prima ancora, alla corretta interpretazione – del diritto dell’Unione europea, nella misura in cui, da un lato, “determina il consolidamento della violazione di tale diritto”, e dall’altro consente de facto al giudice amministrativo di esercitare un potere di produzione normativa preclusa allo stesso legislatore nazionale, in quanto riservata al legislatore europeo e alla Corte di Giustizia (configurando così un’ipotesi di difetto assoluto o eccesso di potere giurisdizionale). Di qui il rinvio pregiudiziale a quest’ultima con riferimento, tra gli altri, agli artt. 4, par. 3, 19 par. 1, TUE e 267 TFUE, “letti anche alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”.
L’ordinanza in commento risulta di notevole interesse poiché in essa si affacciano e si intrecciano distinte questioni giuridiche, sia di diritto europeo (con riferimento ai limiti dell’obbligo di esperire il rinvio ex art. 267 TFUE), che di diritto costituzionale (con riferimento all’evidente conflitto tra la Corte di cassazione e la Corte costituzionale in ordine all’interpretazione dell’art. 111, ult. co., cost.) e di diritto processuale amministrativo (con riferimento al noto dilemma, nell’evoluzione del processo amministrativo, tra giurisdizione soggettiva e oggettiva).
Questa intrinseca complessità trova probabilmente la sua ragion d’essere nel ‘bifrontismo’ del concetto stesso di ‘giurisdizione’ – tale da riflettersi direttamente tanto sul piano della tutela dei diritti (e degli interessi legittimi), che su quello dell’organizzazione dei poteri (e in particolare dei plessi giurisdizionali previsti dalla costituzione) – e si sviluppa ulteriormente allorché la definizione dei suoi ‘limiti esterni’ impinga sul concreto funzionamento del sistema multilivello di tutela delle situazioni giuridiche di rilevanza europea, nel quale l’ordinamento italiano è inserito.
Questa problematicità, non è un caso, trova riscontro nella pluralità di piani di lettura che il provvedimento in esame offre e che sarebbe errato prendere in considerazione isolatamente, come in alcuni commenti si sta cominciando a fare. In esso, al contrario, i diversi temi e i problemi sono tra loro legati sul piano logico-sistematico di modo che, per esempio, una determinata opzione sul piano del diritto europeo ne implicherà altre, altrettanto specifiche, su quelli costituzionale e processuale amministrativo.
In conclusione, la delicatezza ( e la profondità) dei dilemmi giuridici che nel provvedimento si affastellano – e con cui la Corte di Giustizia, suo malgrado, sarà chiamata a confrontarsi – fa sorgere il sospetto che ci si trovi al cospetto del ‘primo atto’ di una nuova, e forse più complessa, ‘saga’ dopo quella relativa al ben noto ‘caso Taricco’.