“Scienza privata” del giudice e “scienza pubblica” sui danni evitabili nell’emergenza climatica: tra Spagna e Italia

Il 24 luglio 2023, la Sala del Contenzioso Amministrativo della Corte Suprema di Spagna ha respinto, con la Risoluzione n. 1079/2023, il ricorso, promosso da Greenpeace e altre ONG, contro il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC) 2021-2030, adottato dal Governo in attuazione del Regolamento UE n. 2018/1999.
Si è trattato del primo caso di esito totalmente negativo nel merito, tra i contenziosi climatici verso gli Stati membri della UE in tema di misure di mitigazione (l’informazione è ricavabile dal Global Climate Change Litigation Database della Columbia University, da cui emerge l’assenza, a quella data, di decisioni di rigetto nel merito).
Invero, il risultato spagnolo appariva prefigurabile, per il particolare contenuto dell’iniziativa assai diversa dalle precedenti. I ricorrenti spagnoli, infatti, miravano all’annullamento (parziale o totale) del PNIEC, attraverso il ricalcolo della quota di abbattimento delle emissioni di gas serra, dallo Stato individuata nella percentuale del 23% entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990, e dalle ONG conteggiata, al contrario, nella misura di base del 55%: soglia minima rivelatasi corrispondente alle indicazioni del Regolamento UE n. 2021/1119 (c.d. “legge europea sul clima”), ius superveniens in corso di causa. La Corte Suprema, pur riconoscendo l’autonoma natura giuridicamente vincolante dell’Accordo di Parigi, ha ritenuto infondata la domanda, assumendo l’atto impugnato comunque conforme alla legge e non arbitrario perché integrabile dal sopravvenuto obbligo europeo, anch’esso vincolante per lo Stato.
Ciononostante, Greenpeace ha bollato la decisione spagnola come “contraria alla scienza”, per il fatto di essersi limitata al riscontro formale dei vincoli normativi esistenti, senza «atender a las conclusiones científicas respecto a la emergencia climática» come situazione di pericolo e ai danni evitabili con una più drastica mitigazione.
Si è così aperto un nuovo fronte di discussione sulle c.d. climate litigation: quello del libero convincimento dei giudici al cospetto della situazione di pericolo dell’emergenza climatica e dei danni prognosticati dalla comunità scientifica.
Se il giudice ha il potere di far rimuovere situazioni di pericolo per evitare danni ingiusti, può il suo libero convincimento prescindere dalle acquisizioni scientifiche sul tema? Non si rischia, in tal caso, di scadere nella “scienza privata” del giudice sul concetto di pericolo (sulle diverse declinazioni della “scienza privata”, cfr. B. Cavallone, Il divieto di utilizzazione della scienza privata del giudice, in Riv. Dir. Proc., 2009)? Può il “peritus peritorum” sostituirsi alla “scienza pubblica” delle Istituzioni preposte all’accertamento del pericolo? (sul concetto di “peritus peritorum” e sul suo “paradosso”, dato che il giudice non è un peritus, cfr. D. Servetti, Il giudice peritus peritorum tra valutazione e validazione del sapere scientifico, in La medicina nei tribunali, a cura di L. Chieffi, Bari, 2016, e G. Carlizzi, Iudex peritus peritorum, in Dir. Pen. Contemp., 2017).
Com’è noto, la questione della commistione tra “scienza privata” del giudice e delega dei saperi scientifici non è nuova al dibattito giuridico (tra i tanti, V. Denti, Scientificità della prova e libera valutazione del giudice, in Riv. Dir. Proc., 1972; L. Lombardo, La commistione tra scienza privata del giudice e delega dei saperi tecnici nella ricostruzione del fatto, relazione al seminario del CSM 11-13 giugno 2001). Essa varia ovviamente da ordinamento a ordinamento, in funzione delle differenti regole sulla verità processuale (M. Taruffo, Verità processuale, 2015).
Nel contenzioso climatico, però, l’argomento assume contorni del tutto peculiari, perché peculiare è il ruolo giocato dalla comunità scientifica.
La funzione di quest’ultima, infatti, non è solo probatoria. Il rapporto tra giudice e scienza, nel contenzioso climatico, non si riduce alla tensione tra saperi peritali e giuridici. Com’è risaputo, le scienze sul sistema climatico sono chiamate all’integrazione ermeneutica delle disposizioni normative, in ragione del compito attribuito dagli Stati all’IPCC, il Panel Intergovernativo dell’ONU preposto alla redazione di periodici Report ricognitivi, per l’appunto, delle ricerche mondiali su previsioni di danni e percorsi e metodi per evitarli (cfr. Y. Gao et al., The 2°C Global Temperature Target and the Evolution of the Long-Term Goal of Addressing Climate Change, 2017).
Nell’IPCC, i rappresentanti degli Stati aderenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) partecipano ai lavori di raccolta dati e valutazione, formalizzando altresì la loro adesione ai contenuti dei c.d. Synthesis Report e dei conseguenti Summary for Policymakers (cfr. IPCC, Preparing Reports). Questi documenti scientifici, di conseguenza, esprimono un consensus significativo ai sensi dell’art. 31, par. 3 lett. a, della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969, sicché il loro utilizzo giudiziale non solo non degenera in atti ultra vires ma addirittura costituisce applicazione in buona fede di norme giuridiche.
Questa applicazione in buona fede investe precipuamente l’art. 2 UNFCCC; ossia la disposizione che impone di porre fine alla «pericolosa interferenza antropogenica» sul sistema climatico e, così operando, evitare danni. Il consensus sull’ermeneutica scientifica dell’art. 2 risale al 1995, con il Second Report dell’IPCC (pagg. 1-18), ed è stato definitivamente confermato con l’adesione ai c.d. “cinque motivi di preoccupazione”, redatti e aggiornati, a partire dal 2001, dal Working Group II dell’IPCC, allo scopo di circoscrivere i fattori costitutivi della suddetta “pericolosa interferenza umana”.
Ora, l’AR6 Synthesis Report Climate Change 2023, con il suo Summary for Policymakers, traduce i “cinque motivi di preoccupazione” in otto messaggi chiave, approvati dagli Stati nella loro attendibilità scientifica “molto alta” o “alta” sul pericolo (il sistema dei livelli di “attendibilità” – Confidence – sintetizza i giudizi della comunità scientifica mondiale sulla validità dei risultati delle ricerche analizzate, in termini di prove raccolte e loro valutazione e validazione, al fine di circoscrivere l’incertezza scientifica richiamata dall’art. 3 n.3 UNFCCC: cfr. A. Kause et al., Confidence Levels and Likelihood Terms in IPCC Reports, 2022).
Un giudice può ignorare in buona fede tutto questo? Può sostituirsi al consensus statale sui “cinque motivi di preoccupazione” necessari a interpretare l’art. 2 UNFCCC, senza disapplicare la disposizione legale? La sua autonomia valutativa può essere giustificata dalle sole regole processuali (si pensi all’art. 115 c.p.c. italiano o al § 291 della Zivilprozessordnung tedesca), quando è pur sempre suo onere sostanziale l’interpretazione c.d. “oggettivistica” di documenti e atti di matrice interstatale (in forza della cit. Convenzione di Vienna)?
Dopo gli allarmanti risultati del Synthesis Report del 2023, gli interrogativi non sono più sottovalutabili, perché convergono sullo snodo centrale del pericolo: i danni previsti ed evitabili, ufficialmente accertati dall’IPCC e non disconosciuti dagli Stati.
Ignorare la scienza significa ormai ignorare la situazione di pericolo e i danni evitabili.
Da tale angolo di visuale, la critica di Greenpeace alla sentenza spagnola appare comprensibile.
D’altra parte, in Spagna non sono ancora consolidati (cfr. C. Vázquez-Rojas, Sobre la cientificidad de la prueba científica en el proceso judicial, 2014) gli orientamenti giurisprudenziali che, in Italia, hanno indotto ad affermare l’esistenza di una vera e propria “riserva di scienza” quale limite esterno alla discrezionalità giudiziale (D. Servetti, Riserva di scienza e tutela della salute, Pisa, 2019).
Questo limite è stato scandito in otto passaggi.
1.
Il giudice non può sottrarsi al controllo della situazione di pericolo anche nelle ipotesi di pericolo astratto (Cass. pen. sez. IV n. 142 63/2019), soprattutto quando adito per evitare qualsiasi conseguenza dannosa per la salute individuale e collettiva delle persone (Corte cost. n. 641/1987).
2.
Il suo libero convincimento su tale situazione deve primariamente focalizzarsi sulla “probabilità logica” delle ipotesi offerte nel processo (Cass. pen. SS.UU. n. 30328/2002 e sez. IV nn. 18350/2021 e 43786/2010).
3.
Tale analisi deve essere fondata su un duplice riscontro: deduttivo, ovvero tratto da generalizzazioni scientifiche determinate da regole di esperienza, leggi scientifiche universali o statistiche particolari; e induttivo, ossia proiettato sulla verifica controfattuale delle ipotesi in campo (Cass. pen. sez. IV n. 11674/2019).
4.
Tuttavia, poiché il giudice non può ergersi a scienziato, il suo libero argomentare logico deve essere accompagnato, grazie anche al contributo peritale (Cass. civ. sez. lavoro n. 4369/2010), da citazioni scientifiche a sostegno della plausibilità, non esclusivamente retorica, del ragionamento (Cass. pen. sez. IV n. 38991/2010).
5.
Di conseguenza, il giudice deve sempre attenersi alle c.d. “leggi scientifiche” (Cass. pen. sez. IV n. 26568/2019), identificabili attraverso il concorso di quattro caratteristiche (generalità; controllabilità; grado di conferma; accettazione da parte della comunità scientifica internazionale), da far valere anche in presenza di teorie scientifiche nuove (Cass. pen. sez. IV n. 45935/2019).
6.
In tal modo, il giudice resta «custode e garante della scientificità della conoscenza fattuale espressa nel processo» (Cass. pen. sez. IV n. 43786/2010), senza sostituirsi al sapere scientifico né debordare dallo «scenario degli studi» allegati (Cass. pen. sez. IV n. 16237/2013).
7.
Questa deferenza, oltre che “epistemica” (nel senso di non imporre l’autorità del formalismo giuridico sulla scienza: R.J. Allen, The Conceptual Challenge of Expert Evidence, 2013), diventa anche “istituzionale”, allorquando lo «scenario degli studi» è formalizzato da Istituzioni pubbliche, nei cui confronti lo stesso esercizio dei poteri istruttori non può debordare in «un’indebita interferenza» (Corte cost. sent. n. 121/1999) o in contestazioni prive di fondamento oggettivo e verificabile (Corte EDU, Çöçelli e altri v. Turchia, 11 ottobre 2022).
8.
Sicché le due deferenze orientano il giudice nella considerazione della logicità, la prima, e dell’attendibilità, la seconda, delle valutazioni scientifiche sul pericolo, nel rispetto della separazione dei poteri (Cons Stato sez. VI n. 10624/2022).
Questi otto passaggi sono estremamente significativi, dato che adesso, nella cornice del riformato art. 9 Cost., riflettono pure il principio fondamentale di tutela ambientale, che la Repubblica, giudici inclusi, non può disattendere.
Si può, allora, concludere che la dialettica processuale italiana appare più sensibile di quella spagnola nel distinguere tra scienza come mera prova e scienza come istituzione integrativa dell’interpretazione delle norme giuridiche (come l’art. 2 UNFCCC) sull’emergenza climatica.
La decisione spagnola si chiude con l’affermazione che l’adesione statale ai criteri europei di mitigazione climatica renderebbe di per sé “non arbitraria” la decisione nazionale. Di conseguenza, il giudice si è astenuto da qualsiasi verifica dell’attendibilità scientifica della valutazione compiuta dall’amministrazione, accontentandosi della mera conformità formale degli atti; e questo, nonostante l’applicabilità allo Stato degli artt. 1902 e 1903 del Codice civile spagnolo, espressivi del dovere di neminem laedere (cfr. E. Rivero Ysern, Quid neminem laedere. Volviendo la vista atrás, 2018).
In Italia, alla luce del quadro giurisprudenziale sintetizzato, un simile esito preluderebbe all’illogicità manifesta se non addirittura alla violazione di legge (con riguardo alle fonti istituzionali di scienza, integrative dei contenuti delle fonti giuridiche) (cfr. F.G. Scoca, L. Lamberti, Valutazioni tecniche, tutela del patrimonio culturale e principio di proporzionalità, 2023), risultando sempre possibile non solo contestare ab intrinseco il nucleo dell’apprezzamento complessivo del potere sui fatti scientifici (Cons. Stato sez. VI nn. 4686/ 2023, e 2836/2023), ma soprattutto metterne in discussione l’adeguatezza rispetto agli obiettivi di tutela (ora, tra l’altro, presidiati dai riformati artt. 9 e 41 Cost.) proprio per ossequio al nemimen laedere, quale limite esterno, garantito anche attraverso la scienza e sottratto a qualsiasi discrezionalità (Corte cost. sent. n. 184/1986; Cass. civ. sez. III n. 5984/2023).


Il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici tra Costituzione e CEDU

Sul sito del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica è stato pubblicato il PNACC, il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici.
Si tratta di un testo parzialmente aggiornato rispetto alla versione del 2018, rimasta senza seguito e della cui necessaria adozione ci si è accorti dopo i tragici eventi meteorologici estremi, occorsi in Italia negli ultimi mesi.
Dal punto di vista giuridico, è il primo banco di prova dello Stato italiano per la concreta attuazione dei principi del riformato art. 9 della Costituzione. Il PNACC, infatti, persegue il dichiarato scopo di custodire il territorio italiano in tutte le sue componenti di cui parla l’art. 9: dal paesaggio all’ambiente, dalla biodiversità agli ecosistemi, dalla vita animale alla salute umana, rispetto non solo agli effetti del riscaldamento globale ma soprattutto agli impatti del cambiamento climatico locale.
La sua funzione, di conseguenza, è anche quella di garantire tutti gli enti territoriali, dallo Stato ai Comuni, contro l’insorgenza della responsabilità per danni, contemplata dall’art. 2051 Cod. Civ.
In dottrina, è già stato colto il rilievo della riforma costituzionale in materia ambientale per l’inquadramento degli atti di pianificazione climatica statale (cfr. G. Grasso, La révision de la Constitution italienne sur la protection de l’environnement, 2022).
Il PNACC, tuttavia, offre spunti di analisi del tutto peculiari su tre fronti: i suoi contenuti; la sua funzione ausiliaria rispetto alla mitigazione climatica (ossia l’abbattimento delle emissioni di gas serra); la sua influenza su alcune vicende giudiziarie che vedono coinvolto lo Stato italiano in materia climatica.
Sembra, dunque, interessante approfondire il documento in tale triplice prospettiva.
Dal punto di vista dei suoi contenuti, il PNACC rappresenta il riconoscimento ufficiale di numerose acquisizioni scientifiche sul cambiamento climatico e le sue conseguenze dannose. Del resto, la sua originaria redazione ha visto coinvolte le due più importanti istituzioni di ricerca italiana sull’argomento: l’ISPRA – Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale – e il CMCC – Centro euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici.
Nel testo, si legge che lo Stato italiano prende atto:
- dell’esistenza di danni in corso, imputabili al riscaldamento globale e al cambiamento climatico locale come anche all’inadeguata custodia delle sfere locali del sistema climatico (dalla litosfera alla biosfera), con conseguenze negative sia immediate che di lungo periodo ovunque;
- del carattere ineluttabilmente solo peggiorativo degli scenari futuri del sistema climatico nazionale (i c.d. “bad-to-worst”, ormai scientificamente inconfutabili: cfr. L. Kemp et al., Climate Endgame: Exploring catastrophic climate change scenarios);
- della compromissione crescente di tutti i determinanti della salute umana, da quelli psico-fisici a quelli ambientali, a quelli sociali;
- dell’aumento dei decessi da eventi climatici estremi;
- della regressione della dignità della vita in termini di abitabilità e vivibilità dei territori locali per esposizione crescente al pericolo;
- della particolare condizione dell’Italia, la cui temperatura media è già al di sopra di quella globale, con i mari italiani in rapido surriscaldamento;
- del conseguente rischio di fallimento nella custodia del territorio statale in caso di aumento della temperatura media globale oltre le soglie di sicurezza concordate dall’Accordo di Parigi del 2015 (+1,5°C e «ben al di sotto» dei +2°C entro la fine del secolo rispetto ai livelli preindustriali);
- della necessità di programmare e decidere, a tutti i livelli di governo, in un prospettiva di equità non solo intragenerazionale, ma anche e soprattutto intergenerazionale.
Lo Stato, dunque, dimostra di avere coscienza della prevedibilità e prevenibilità dei danni conseguenti all’emergenza climatica in atto, assumendone la probabilità di occorrenza sia statistica che logica, e così riconoscendosi nella demarcazione, tipica dell’ordinamento giuridico italiano sulla responsabilità da danno prevedibile, tra logica “pascaliana”, di calcolo, e “baconiana”, di induzione (cfr. D. Gianti, L’accertamento dell’elemento oggettivo dell’illecito, 2016).
Ma lo Stato, con quelle descrizioni, sembra altresì far proprio “l’interesse delle generazioni future”, indicato dal riformato art. 9 Cost., la tutela della salute come diritto a un ambiente salubre, secondo le scansioni della Corte costituzionale in combinato con l’art. 32 Cost., il diritto alla vita e il rispetto della vita privata e familiare, di cui agli artt. 2 e 8 CEDU, come interpretati dalla Corte di Strasburgo in presenza di rischi sui territori.
Insomma, il PNACC si presenta al pubblico come un manifesto di impegno al rispetto della Costituzione e della CEDU nella gestione del territorio italiano minacciato dall’emergenza climatica.
È questo il suo merito al cospetto dei precedenti atti di pianificazione riguardanti comunque il clima (dal Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima – PNIEC – agli stessi documenti del PNRR), non altrettanto espliciti nel coniugare in modo sistemico e unitario riscaldamento globale, cambiamento climatico locale, custodia del territorio nazionale in nome della vita e della salute umane in proiezione intra- e intergenerazionale.
Ma ne costituisce anche il limite.
Il PNACC, infatti, resta comunque uno strumento di prevenzione secondaria rispetto alla prevenzione primaria dei danni da cambiamento climatico, garantita esclusivamente dalla mitigazione climatica. Senza mitigazione, non ci può essere adattamento, per consequenzialità termodinamica ma anche per vincolatività giuridica, essendo, tale sequenza, sancita dalla fonti del diritto, a partire dalla Convenzione Quadro dell’ONU del 1992 (l’UNFCCC). Lo stesso dicasi in caso di mitigazione insufficiente, perché incapace, ai sensi dell’art. 3 n. 3 dell’UNFCCC, di intervenire sulle cause del cambiamento climatico (presupposto della mitigazione) e non solo sui suoi effetti (presupposto dell’adattamento).
In una parola, non si può leggere il PNACC prescindendo dal principio “speciale” di precauzione climatica (sulla “specialità” della precauzione climatica si v. J. Wiener, Precaution and Climate Change, 2016): principio che contiene in sé anche i doveri di prevenzione e correzione alla fonte, fondati sul criterio n. 8 della Dichiarazione di Rio del 1992: «Al fine di pervenire ad uno sviluppo sostenibile e ad una qualità di vita migliore per tutti i popoli, gli Stati dovranno ridurre ed eliminare i modi di produzione e consumo non sostenibili» (sulla originaria coesistenza di precauzione, prevenzione e correzione alla fonte, si v. F. De Leonardis, Principio di prevenzione e novità normative in materia di rifiuti, 2011).
Ma come si fa a verificare se l’adattamento climatico sia stato impostato secondo la precauzione climatica?
È sempre l’UNFCCC a fornire il quadro di conformità della risposta: gli Stati «should protect the climate system for the benefit of present and future generations of humankind, on the basis of equity and in accordance with their common but differentiated responsibilities and respective capabilities» (art. 3 n. 1).
Ora, nel PNACC non c’è alcuna traccia di utilizzo dell’Equity declinata dalla Convenzione quadro. Ma non solo. Lo stesso ISPRA riconosce l’inesistenza di linee guida per definire tale “Equity” e quantificare le “differentiated responsibilities” dell’Italia (si v. il Sistema Informativo Nazionale Ambientale).
Ne deriva che l’adattamento climatico a beneficio della presente e delle future generazioni è perseguito senza un meccanismo conoscibile e verificabile di metodo di quantificazione di tutte le cause da cui dipende l’efficacia stessa di quell’adattamento. Non a caso, il Parere n. 13/2021 della Commissione VIA-VAS ha già evidenziato questa lacuna, non in linea con le previsioni normative sulla sequenza mitigazione-adattamento.
Inoltre, il PNACC ignora pure l’avvertimento dell’ultimo Rapporto di valutazione dell’IPCC (l’AR6 2021-2022 del Panel Intergovernativo sui Cambiamenti climatici dell’ONU) in tema di c.d. “maladaptation”, ovvero di impostazione delle misure di adattamento prescindendo dalla quantificazione della mitigazione secondo “Equity” e “differentiated responsibilities”.
In questo modo, il PNACC rischia di tradursi nell’ennesimo documento simbolico di lotta insufficiente al degrado del territorio, con conseguenze giuridiche rilevanti.
Prevedere i danni e riconoscerne l’incremento “bad-to-worst”, senza prevenirli in conformità col metodo indicato dalle fonti in materia (a partire dal cit. art. 3 n. 1 dell’UNFCCC), significa esporre Stato ed enti territoriali a responsabilità future, anche ai sensi dell’art. 2051 Cod. civ. (quale “caso fortuito” sarà mai predicabile per danni previamente dichiarati prevedibili e in peggioramento?), oltre che accentuare responsabilità già presenti, dato che lo Stato italiano si trova ormai coinvolto in una serie di contenziosi climatici, sia nazionali (si pensi alla causa “Giudizio Universale”) che internazionali (con i ricorsi CEDU Duarte Agostinho et al. c. Portugal et al., De Conto c. Italy et al., Uricchio c. Italy et al.), dentro i quali si lamenta, tra l’altro, proprio l’assenza di linee guida di quantificazione della mitigazione climatica necessaria a non ledere i diritti umani, tutelati dagli artt. 2 e 8 CEDU.
In un contesto mondiale che converge nel declinare la lotta statale al cambiamento climatico come tutela dei diritti umani (si v. F. Motta, Giudizio Universale, 2023), in linea, tra l’altro, con la recente Risoluzione ONU sul diritto umano universale all’ambiente salubre e sicuro, la prima occasione italiana di mettere in pratica a tutto tondo il nuovo art. 9 Cost. sembra vocata ad essere persa.