L’elezione dell’Assemblea nazionale: una semplice conferma dell’elezione presidenziale?

Nell’ordinamento della V Repubblica, in termini costituzionali, l’elezione dell’Assemblea nazionale è la consultazione essenziale, se non decisiva: la Francia, infatti, pratica una forma molto specifica della forma di governo parlamentare. Se il sistema è fondamentalmente parlamentare, i suoi ingranaggi vengono «intercettati» a vantaggio del Presidente della Repubblica oppure, in periodo di cohabitation, del Primo ministro. L’iniziativa politica spetta agli organi esecutivi, mentre le camere interpretano una partitura più reattiva e di sostegno. Armel Le Divellec parla, a questo proposito, di un «parlamentarismo negativo», in opposizione al «parlamentarismo positivo» tedesco in cui il Bundestag è al centro della forma di governo.
Dopo la vittoria di Pirro ottenuta da Emmanuel Macron nell’ultima elezione presidenziale, è probabile che l’elezione della sedicesima Assemblea nazionale (del 12 e 19 giugno) assuma il carattere di un’elezione-conferma. In concreto, è questo il caso dalla riforma del quinquennato presidenziale, nel 2000, e dall’adeguamento del calendario elettorale, nel 2001. Ciò, del resto, si è verificato a quattro riprese, nel 2002, nel 2007, nel 2012 e nel 2017: ogni volta il corpo elettorale ha mandato al palais Bourbon una maggioranza assoluta di deputati favorevoli allo schieramento del capo dello Stato appena eletto.
Il legame fra il Presidente della Repubblica e la sua maggioranza è uscito sensibilmente rafforzato da queste riforme, e ciò ha conferito nuovo vigore al presidenzialismo maggioritario. Questo consolidamento del presidenzialismo maggioritario, latente durante il quinquennato di Jacques Chirac fra il 2002 e il 2007, è pienamente percepibile a partire dal mandato di Nicolas Sarkozy. Così, perfino nel corso della «presidenza normale», a suo tempo rivendicata da François Hollande (2012-2017), il capo dello Stato agisce (più o meno apertamente) da leader della maggioranza.
A questo proposito, ci si può chiedere se la maggioranza che sostenne Nicolas Sarkozy dal 2007 al 2012 non fosse in realtà la maggioranza del 2002 riconfermata, il che spiegherebbe alcune delle sue difficoltà successive. François Hollande, dal canto suo, non controllò le investiture dei candidati della sinistra, che erano state formalizzate prima della primaria del 2011. Solo Emmanuel Macron ha pienamente scelto i propri deputati. Nella legislatura che giunge a conclusione i deputati della maggioranza dovevano il loro mandato al capo dello Stato, e questo ha alimentato la loro «devozione» nei suoi confronti.
L’affluenza alle urne costituisce una delle sfide essenziali di queste elezioni. La mobilitazione, infatti, si erode con regolarità fin dagli esordi della V Repubblica: si aggirava intorno all’80% negli anni Settanta, per poi calare a ogni appuntamento elettorale: 70,7% nel 1981, 78,5% nel 1986, 65,7% nel 1988, 68,9% nel 1993, 67,9% nel 1997, 64,4% nel 2002, 60,4% nel 2007, 57,2% nel 2012 e, da ultimo, 48,7% nel 2017. Questa tendenza importante si ritrova nella gran parte delle altre democrazie e si pone il problema di sapere se la massiccia astensione dello scorso aprile (26,31% e poi 28,01%, cioè soltanto 3 punti meno del record, un po’ anomalo, del 1969) si ripresenterà a giugno, con le conseguenze deleterie che le sono proprie.
Questa volta si recherà alle urne più di un elettore su due? A tal fine, riunire nella stesso giorno gli scrutini presidenziale e parlamentare permetterebbe di ovviare alla prospettiva di un nuovo record di astensionismo, con il rischio, però, di risultati divergenti fra le due elezioni. Il problema, però, è fondamentalmente politico, a tal punto che una risposta puramente giuridica e tecnica non potrà senz’altro risolverlo. Probabilmente la difficoltà sta nella sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni e in un’offerta politica non in linea con le loro aspirazioni. 

Verso una situazione tripolare all’italiana?
In questa campagna alcune formazioni tendono a presentare i temi elettorali in chiave nazionale. È il caso della confederazione Ensemble (Renaissance, Modem e Horizons), della Nouvelle Union populaire écologique et sociale (La France insoumise, il Pôle écologiste, il Parti communiste e il Parti socialiste) e dei partiti populisti (come il Rassemblement national e Reconquête), mentre i candidati dei Républicains (LR) talvolta tendono a insistere sui temi territoriali e a rimuovere i loghi del partito dai loro materiali di propaganda elettorale (a causa del pessimo risultato della candidata LR Valérie Pécresse lo scorso aprile). A tratti, perciò, si assiste a una forma di nazionalizzazione (certamente limitata) di «577 competizioni locali» (per riprendere la formula di de Gaulle) in funzione degli interessi dei partiti: gli uni cercano di trarre vantaggio dai risultati ottenuti nell’elezione presidenziale, mentre gli altri si sforzano di affrancarsene.
Gli imminenti risultati elettorali permetteranno di confermare (o di smentire) la tendenza alla tripolarizzazione del sistema politica, così come emerge dall’elezione presidenziale dell’aprile 2022. Da questo punto di vista, la situazione francese non è priva di analogie con quella dell’Italia degli anni 2010. Il paesaggio politico francese degli ultimi decenni, caratterizzato da una contrapposizione destra sinistra, è imploso e sembra aver lasciato il posto a una competizione fra tre schieramenti, reciprocamente ostili e per nulla desiderosi di allearsi fra loro. Se si formerà un gruppo LR, inoltre, ci sono buone probabilità che nell’emiciclo le opposizioni rimangano frammentate.
In Francia, tuttavia, la vittoria e poi il governo di uno schieramento politico sono resi possibili dagli effetti del sistema elettorale maggioritario a due turni (tranne per il RN, a cui mancano alleanze per il secondo turno), che invece sono inconcepibili al di là delle Alpi, dove si applica la proporzionale: in Italia attualmente nessun partito possiede da solo una vocazione maggioritaria. I partiti sono indotti a stringere (e a sciogliere) alleanze coi loro rivali all’interno del Parlamento. E stato il caso, per esempio, del Movimento 5 Stelle, che nel 2018 ha concluso un contratto di governo con la Lega diretta da Matteo Salvini, prima di venire a patti con la sinistra e, infine, partecipare a una forma di governo di unità nazionale. Il concreto esercizio del potere ha contribuito a fare chiarezza sulle sue posizioni e anche, per certi versi, a screditarlo.
In ogni caso, è importante sottolineare che durante la XV legislatura (2017-2022) l’Assemblea nazionale e il Senato si sono frantumati in un pulviscolo di gruppi (fino a 10, e a fine legislatura 9, al palais Bourbon, 8 invece al palais du Luxembourg). All’Assemblea nazionale ciò deriva in parte dall’emorragia nel principale gruppo della maggioranza, che è passato da 314 a 267 deputati, di cui 3 apparentati. La République en marche, perciò, ha perso la maggioranza assoluta nel corso della legislatura.
Questa situazione ha contribuito ad accrescere l’importanza relativa del Modem all’interno della coalizione, ma l’attuale fioritura di formazioni politiche all’interno della confederazione presidenziale potrebbe contenere fermenti d’instabilità, anche nel caso in cui questa vinca le elezioni. Eppure una maggioranza plurale può essere stabile, come tradizionalmente avviene in Germania. L’instabilità, perciò, non è ineluttabile. Lo scenario della vittoria della maggioranza uscente sugli altri schieramenti è il più probabile, anche se vale la pena di citare l’ipotesi di una cohabitation. 

Verso una cohabitation?
Evocando una sorta di «terzo turno» dell’elezione presidenziale, Jean-Luc Mélenchon afferma apertamente la sua ambizione di farsi «eleggere Primo ministro». Non c’è dubbio che la formula non sia felicissima dal punto di vista del diritto costituzionale in senso stretto, dal momento che l’articolo 8 della Costituzione stabilisce che «il Presidente della Repubblica nomina il Primo ministro» e dispone di un margine di manovra (limitato dalla struttura parlamentare del regime), ma si rivela estremamente efficace nell’ottica della comunicazione politica. Questo rinvia alla cohabitation (come nei periodi 1986-1988, 1993-1995 e 1997-2002).
Un’ipotesi del genere presuppone che la NUPES conquisti la maggioranza dei seggi al palais Bourbon e che Emmanuel Macron si risolva a nominare alla guida del Governo il leader della France insoumise. In altri scenari intermedi, non emergerebbe una maggioranza assoluta e il capo dello Stato sarebbe perciò costretto a negoziare con forze politiche ulteriori rispetto a quelle che lo appoggiano. Questo, però, è ipotizzabile soltanto se non si mobilitano gli elettori favorevoli alla maggioranza uscente, il che verrebbe a contraddire la sociologia elettorale classica della V Repubblica. I prerequisiti sono talmente numerosi che si fatica a immaginare il concretizzarsi di simili eventualità.
D’altro canto, se le formazioni coalizzate nella NUPES riescono a superare la soglia dei 15 deputati per formare un gruppo – e ciò sembra probabile –, allora il paesaggio politico seguiterà a essere frammentato e il «nuovo mondo» avrà confermato la risurrezione del mondo dell’altro ieri, cioè, in sostanza, della IV Repubblica, col pericolo di una nuova «balcanizzazione» del lavoro parlamentare.