Categorie sportive binarie e atleti non binari innanzi alla Corte Edu

Riflessioni a partire da Corte EDU, Semenya c. Switzerland (Sez. III, 11 luglio 2023), ricorso n. 10934/21

Con la decisione Semenya c. Switzerland dell’11 luglio 2023, la Corte EDU ha accolto il ricorso di Caster Semenya, atleta sudafricana affetta da disgenesia gonadica parziale (46 XY DSD), la quale lamentava una discriminazione determinata dall’applicazione di un regolamento sportivo che impone l’abbassamento farmacologico dei livelli di testosterone per partecipare alle competizioni di atletica leggera femminile. Con una maggioranza di quattro dei suoi sette membri, la Corte di Strasburgo ha ritenuto sussistente una violazione dell’art. 14, in combinato disposto con l’art. 8, CEDU, in quanto sia il CAS (Court of Arbitration for Sport) sia il Tribunale Federale Svizzero non hanno concesso alla ricorrente «sufficienti garanzie istituzionali e procedurali per consentirle di far esaminare efficacemente le sue denunce» (§ 201).
Sebbene non definitiva, in quanto potenzialmente soggetta, ove richiesto, al rinvio innanzi alla Grande Camera, questa sentenza merita attenzione, non soltanto perché costituisce l’ultimo episodio di uno dei casi più noti e discussi dell’atletica leggera, quanto perché impone di continuare a riflettere sul difficile bilanciamento tra il diritto a non subire discriminazioni per ragioni di sesso, da un lato, e il diritto di partecipare alla competizione in parità di condizioni, dall’altro.
La vicenda giuridica di Caster Semenya, campionessa olimpica e mondiale degli 800 metri, affetta da un disturbo dello sviluppo sessuale caratterizzato da una produzione di testosterone pari a quella maschile (10 nmol/L), inizia nel 2009, quando la IAAF (International Athletics Association Federation, oggi World Athletics) avvia una procedura di gender testing al fine di accertare, dopo alcune contestazioni, il suo sesso biologico (§ 5). Nel luglio 2010, in assenza di un’apposita disciplina, la IAAF le consente di partecipare a una gara soltanto dopo averle chiesto di sottoporsi a un trattamento volto a riportare il suo livello di testosterone al di sotto dei 5 nmol/L. Nel 2018, la IAAF formalizza tale limite nel Regolamento Eligibility Regulations for the Female Classification (Athletes with Differences of Sex Development), d’ora in avanti “Regolamento DSD”, che Semenya e la Federazione Atletica Sudafricana impugnano innanzi al CAS, sostenendone la natura discriminatoria. Il 30 aprile 2019, il CAS respinge la richiesta di arbitrato, considerando il Regolamento DSD un mezzo necessario, ragionevole e proporzionato per garantire una concorrenza leale (§ 26). Il 28 maggio 2019, Semenya e la Federazione sudafricana ricorrono in appello innanzi al Tribunale Federale svizzero, lamentando una discriminazione sulla base del sesso, in quanto il Regolamento si applica in via esclusiva alle donne (§ 27), e una violazione della dignità umana e dei diritti della personalità, poiché «soltanto le donne con caratteristiche biologiche corrispondenti allo stereotipo di donna sarebbero state autorizzate a gareggiare liberamente nella “classe protetta”, cioè come vere donne» (§ 38). Il 25 agosto 2020, il Tribunale federale rigetta il ricorso, ritenendo che la decisione del CAS non fosse in contrasto con l’ordine pubblico internazionale, in quanto basata su un’analisi completa caratterizzata dal coinvolgimento di numerosi esperti, e considerando il Regolamento DSD «una misura appropriata, necessaria e proporzionata ai legittimi obiettivi di correttezza sportiva e di mantenimento della “classe protetta”» (§§34-36).
Avverso tale decisione, il 18 febbraio 2021 Semenya ha presentato ricorso innanzi alla Corte EDU, la quale, respinta l’eccezione preliminare di competenza sollevata dal Governo, secondo cui il Tribunale Federale sarebbe stato privo di giurisdizione ratione personae et loci a esaminare il caso, ha ritenuto sussistente la giurisdizione della Svizzera ai sensi dell’art. 1 della CEDU (§ 112). Nel merito, la Corte, si è limitata «a un esame delle garanzie istituzionali e procedurali esistenti», prendendo in considerazione cinque aspetti: a) il potere di supervisione del CAS e del Tribunale federale; b) i dubbi scientifici sulla giustificazione del Regolamento DSD; c) il bilanciamento degli interessi e la considerazione degli effetti collaterali causati dal trattamento farmacologico richiesto; d) l’effetto orizzontale della discriminazione; e) il confronto con la situazione degli atleti transgender (§ 170).
Con riferimento ai profili a) e d), la Corte ha ritenuto che la posizione di squilibrio di potere in cui versano gli atleti rispetto alle organizzazioni sportive come la World Athletics rende tale rapporto assimilabile a quello tra cittadini e Stato e, dunque, i tribunali nazionali sono tenuti a garantire una protezione effettiva contro la discriminazione da parte dei privati (§ 195). A ragionar diversamente, secondo la Corte, la tutela giudiziaria degli sportivi professionisti risulterebbe minore rispetto a quella posta a favore di «chi svolge professioni più convenzionali» (§ 178). b) Quanto ai dubbi scientifici sulla giustificazione del Regolamento, a fronte di «una denuncia di discriminazione la cui serietà e argomentabilità a priori non è stata confutata», per la Corte, è mancato «un esame approfondito, alla luce della Convenzione, dei motivi a sostegno della giustificazione oggettiva e ragionevole del regolamento DSD» (§ 184). Secondo la Corte, le preoccupazioni espresse dal CAS sul Regolamento DSD lo avrebbero dovuto indurre a sospenderne l’efficacia (come nel caso di Dutee Chand), in quanto all’atleta deve essere concesso il beneficio del dubbio (§ 181). c) In relazione al bilanciamento degli interessi in gioco, ad avviso dei Giudici di Strasburgo, il Tribunale federale si sarebbe «sostanzialmente limitato ad avallare, alla luce di un concetto molto ristretto di ordine pubblico, le conclusioni del tribunale di grado inferiore», senza condurre un esame «completo e adeguato della pretesa di trattamento discriminatorio, né una corretta e adeguata ponderazione di tutti gli interessi in gioco» (§ 185). La ricorrente avrebbe, dunque, subito una discriminazione in quanto non era posta in condizione di compiere una vera scelta: «o si sottopone a un trattamento farmacologico, suscettibile di danneggiare la sua integrità fisica e mentale, per ridurre il suo livello di testosterone e poter esercitare la sua professione, o rifiuta questo trattamento con la conseguenza di dover rinunciare alle sue gare preferite, e quindi all’esercizio della sua professione» (§ 187). e) Infine, la Corte contesta al Tribunale federale di non aver tenuto adeguatamente conto delle differenze significative tra le persone intersessuali per nascita e le persone transgender, le quali scelgono di cambiare sesso più tardi nella vita (§ 199).
In definitiva, secondo la Corte, «la Svizzera ha superato il limitato margine di apprezzamento di cui godeva nel caso di specie, che riguardava la discriminazione basata sul sesso e sulle caratteristiche sessuali, che può essere giustificata solo da “considerazioni molto forti”», in quanto «l’importanza del caso per la ricorrente e il ridotto margine di apprezzamento dello Stato convenuto avrebbero dovuto portare» i giudici di merito «a un approfondito riesame istituzionale e procedurale, di cui la ricorrente non ha beneficiato» (§ 201).
Dalla decisione in commento, segnatamente dalle argomentazioni sub b) e c), emerge la difficoltà della Corte EDU di risolvere i problemi, nuovi e in continua evoluzione, che la partecipazione di atleti non binari a sport tradizionalmente definiti secondo logiche binarie pone ai principi di cui agli artt. 8 e 14 CEDU. Posto che il Regolamento DSD non è volto a mettere in discussione il sesso femminile delle atlete 46 XY DSD o a definire cosa sia una “donna”, la questione giuridica che la Corte è stata chiamata ad affrontare consisteva nello stabilire se fosse contrario alla dignità umana prevedere regole di accesso alle competizioni sportive, volte ad assicurare l’equità sportiva e le pari opportunità, applicabili solo a determinate donne dotate di caratteristiche biologiche innate. Tuttavia, proprio su tale questione, la Corte ha deciso di non decidere, reputando «poco saggio, sia dal punto di vista giuridico che metodologico, fare un confronto semplicistico tra “atleti intersessuali” e “atleti di sesso femminile”» (§16 Parere concorde Giudice Pavli). Il che, a ben riflettere, stride con la sua consolidata giurisprudenza per cui «perché si ponga un problema» ex art. 14 CEDU «è necessario che vi sia una differenza di trattamento tra persone poste in situazioni analoghe o comparabili. Tale differenza è discriminatoria se non è basata su una giustificazione obiettiva e ragionevole» (§155). Per stabilire se, nel caso di specie, la giustificazione fosse o meno obiettiva e ragionevole, ci si sarebbe potuti, dunque, aspettare un raffronto tra la situazione in cui versano le atlete intersessuali, da un lato, e le atlete prive di tale caratteristica genetica, dall’altro, rispetto al precipuo scopo di assicurare parità di condizioni nella competizione.
Al contrario, la Corte, paragona implicitamente la ricorrente alle altre donne, senza mai affrontare espressamente la questione se le loro situazioni siano analoghe o comparabili. Questione che, come è noto, risulta centrale in ogni ragionamento trilaterale volto a stabilire la ragionevolezza di una differenziazione di trattamento. In altri e più semplici termini, ove la Corte avesse effettuato il confronto – reputato «semplicistico» – tra le (differenti) situazioni in cui versano le atlete 46 XY DSD e le atlete XX, il ragionamento trilaterale avrebbe potuto condurre a un esito differente. A fronte della mancanza di opinioni scientifiche univoche sui vantaggi competitivi determinati da elevati livelli di testosterone e sui possibili effetti collaterali dei trattamenti ormonali, la norma posta dal Regolamento DSD si sarebbe potuta considerare, per dirla con le parole della nostra Corte costituzionale, un tentativo “non irragionevole” di conciliare la divisione binaria maschio-femmina nell’atletica leggera con l’eterogeneo spettro delle caratteristiche sessuali biologiche presenti in natura. Del resto, quella in discorso è solo una delle soluzioni proposte dalle organizzazioni sportive, le quali, a seconda del tipo di attività agonistica, suggeriscono di prevedere categorie miste, separate o, addirittura, aperte a tutti gli atleti.
Al di là degli ulteriori esiti cui sarebbe potuta pervenire la Corte, questa sentenza restituisce le difficoltà determinate dalla scelta, per così dire tragica, tra una regola potenzialmente discriminatoria nei confronti di un genere o di donne dotate di peculiari caratteristiche genetiche e la possibilità che altre atlete partano naturalmente svantaggiate. Una scelta che, probabilmente, rappresenterà una delle sfide più impegnative che lo sport, per sua vocazione inclusivo, sarà chiamato ad affrontare nel più immediato futuro.