L’intervento militare degli Stati Uniti nel dibattito costituzionale

Nella notte tra il 21 e il 22 giugno 2025, le forze armate statunitensi hanno bombardato tre località iraniane, in cui sono ubicati siti di fabbricazione di ordigni nucleari. L’azione militare americana si è inserita in un contesto bellico già avviato, a motivo degli attacchi israeliani all’Iran, cominciati in data 13 giugno. Sia l’iniziativa israeliana sia quella americana si sono collocati nel quadro degli sforzi – politicamente condivisi da molti Paesi europei – di evitare che l’Iran arrivi a dotarsi di testate atomiche. L’ordine dato dal Presidente Trump ha suscitato negli Stati Uniti un dibattito di natura giuridica e istituzionale.
La Costituzione (art. II, sezione seconda, primo periodo) assegna al Presidente il ruolo di Commander in Chief dell’esercito e della marina (e, per estensione, dell’aeronautica), senza ulteriori specificazioni. Tale disposizione è solitamente letta in chiave sistematica e, dunque, anche alla luce dell’art. I, sezione ottava, capoverso 11, della medesima Costituzione, che attribuisce al Congresso il potere di dichiarare guerra. Si tratta di formule costituzionali ampie ed elastiche che si sono prestate, sull’arco del tempo, a prassi multiformi e a precedenti variegati.
Generalmente, gli osservatori americani indicano come primo caso di deroga consentita alla lettera dell’art. I, sezione ottava, capoverso 11, l’aggressione improvvisa al territorio degli Stati Uniti. Durante la guerra di secessione, Abramo Lincoln usò l’esercito federale per bloccare i porti degli Stati secessionisti senza passare per il Congresso. La Corte Suprema non si oppose (v. i Prize Cases 67 U.S. (2 Black) 635, 1863), ritenendo che quello strumentale alla difesa tempestiva fosse un fascio di prerogative implicitamente compreso nel potere di alto comando delle forze armate.
Venendo a epoche più recenti, nel 1973 il Congresso ha approvato una risoluzione mediante la quale si è stabilito che i poteri di guerra e di conseguente uso della forza militare potevano essere riconosciuti al Presidente previa dichiarazione di guerra con legge del Congresso medesimo o in caso pericolo imminente per l’integrità territoriale americana.
La risoluzione del 1973 prevedeva anche momenti di consultazione con il Congresso, prima dell’azione militare; e di informativa, durante e dopo. Anche in virtù della procedura disegnata in tale risoluzione, nel 2001 (dopo l’attentato delle Torri gemelle) e nel 2002 (in vista dell’attacco all’Iraq, che sarebbe avvenuto nel marzo 2003) il Congresso ha approvato provvedimenti di autorizzazione all’uso della forza.
Tuttavia, molti Presidenti hanno ritenuto che il contenuto della risoluzione fosse illegittimo (v. al proposito T. Lundmark, Power and rights in US Constituional law, Oceania publications, Sidney 2001, pag. 47) e, nel corso dell’ultima parte del XX secolo e nei primi decenni del XXI, la Presidenza è venuta interpretando in chiave sempre più estesa quelli che ha ritenuto i poteri impliciti nella funzione di Commander in Chief e, quindi, a detrimento, dei poteri di previo vaglio del Congresso. Per esempio, il Presidente ha autorizzato senza l’assenso del Congresso le operazioni in Somalia nel 1992, quelle in Libia nel 2011 (che in definitiva hanno portato alla caduta di Gheddafi) e l’uccisione del generale iraniano Soleimani nel 2020. Tali iniziative sono state giustificate, ora con l’esigenza di salvare cittadini americani, ora con quella di perseguire interessi nazionali specifici.
In questa occasione, l’iniziativa del Presidente non è stata preceduta da un formale passaggio parlamentare ma è stata seguita da una lettera informativa, inviata dal Presidente medesimo il 23 giugno 2025, allo Speaker della Camera dei Rappresentanti e al Presidente del Senato (vale a dire il Vice Presidente degli Stati Uniti) e resa pubblica sul sito della Casa Bianca (la missiva, pur facendo riferimento alla risoluzione del 1973, fa proprie le ragioni interpretative dei poteri presidenziali poc’anzi menzionate, con particolare riferimento alla tutela della sicurezza dei cittadini americani in USA e all’estero). Ne sono emerse opinioni costituzionali opposte. Lo Speaker della Camera dei Rappresentanti, Mike Johnson, e il Majority leader al Senato, John Thune (eletto in South Dakota) hanno ritenuto pienamente legittima l’azione militare del 22 giugno, considerandola ricompresa nei poteri di alto comando delle forze armate. Viceversa, i maggiori esponenti democratici (Chuck Schumer, Minority Leader al Senato e Hakeem Jeffries, Minority Leader alla Camera) l’hanno ritenuta una violazione del dettato costituzionale, giacché – trattandosi di un attacco su un territorio estero, in cui non erano presenti cittadini americani in pericolo – vi sarebbe dovuta essere l’autorizzazione dei due rami del Congresso. E’ verosimile che gli esponenti democratici abbiano anche avvertito il disagio della mancata osservanza della prassi per cui il ministro della Difesa (o, per esso, i comandi militari) rivolge – prima dell’inizio delle operazioni - ai vertici dei gruppi parlamentari di entrambi i partiti il c.d. briefing (cioè un’informativa riservata con un certo grado di dettaglio). In questa occasione, mentre il briefing ha coinvolto i Repubblicani, ai Democratici è stata inviata solo una sommaria informazione (v. R. Jimison, Iran strikes inflame War Powers debate in Congress, dividing both parties, nel New York Times, edizione on line, 23 giugno 2025). La deputata del New Tork Alexandria Ocasio-Cortez ha ritenuto, persino, che la condotta del Presidente di non farsi autorizzare dal Congresso abbia costituito un fatto meritevole della procedura dell’impeachment. In questo panorama, nondimeno, il senatore democratico della Pennsylvania, John Fetterman, si è differenziato dai colleghi di partito e ha condiviso l’operazione delle forze armate (lo stesso ha fatto il deputato democratico del Maryland, Steny Hoyer); mentre, sul versante opposto, hanno espresso pubblicamente la loro contrarietà all’intervento militare i deputati repubblicani Marjory Taylor Green (della Georgia) e Thomas Massie (del Kentucky), quest’ultimo sottolineando la necessità della previa autorizzazione parlamentare (nonché sottoscrivendo una risoluzione in tal senso, insieme al deputato democratico della California, Ro Khanna).


Eletto un nuovo Speaker nella Camera dei Rappresentanti degli USA

ENGLISH VERSION

La Costituzione degli Stati Uniti d’America prevede all’art. I, comma 2, che la Camera dei Rappresentanti sceglie (chuses; l’inglese contemporaneo compiterebbe chooses) il suo presidente (lo Speaker). La formula pur laconica usata dai costituenti è stata sempre interpretata nel senso che occorre, comunque, la maggioranza assoluta dei componenti, in tutti gli scrutini, inducendo larga parte della dottrina a sostenere che – in linea teorica - non sia necessario che lo Speaker sia membro della Camera. Tale conclusione paradossale tuttavia non è mai stata messa in pratica (si v. K. Bradshaw-D. Pring, 55)
Negli Stati Uniti, lo Speaker ha lo stesso nome di quello britannico; tuttavia e nonostante – tranne eccezioni in pochi Stati - il medesimo sistema elettorale (detto, infatti, uninominale secco “all’inglese”), i due Speakers hanno ruoli e funzioni del tutto opposti.
Nel Regno Unito, lo Speaker è indipendente dal partito con cui è stato eletto deputato ed è l’arbitro imparziale della dialettica parlamentare; si siede in fondo al rettangolo dell’aula (la quale si presenta a banchi contrapposti); innanzi a sé ha la mazza (the mace), antico e pesantissimo attrezzo poggiato sul tavolo centrale, che sta a minacciare simbolicamente i deputati, onde costringerli all’osservanza del regolamento e del galateo istituzionale; applica rigorosamente e con assoluta neutralità il regolamento, alla luce dei precedenti. Non s’intrude nella determinazione dell’agenda parlamentare, competente a comunicare la quale è il Leader of the House (che in Italia sarebbe il ministro dei rapporti col Parlamento). Lo Speaker non di rado è del partito opposto a quello che governa (per esempio, attualmente è in carica il laburista Lindsay Hoyle, mentre - come è noto - il Primo ministro è il conservatore Rishi Sunak; nel 2009, il conservatore John Bercow era stato eletto mentre era ancora Primo ministro il laburista Gordon Brown). Per questo, quando viene eletto, di solito restituisce la tessera del suo partito e il principale partito avverso rinuncia a opporgli un candidato nel suo collegio.
A Washington, la situazione è tutta al contrario. Lo Speaker è il capo parlamentare del suo partito e uno dei principali responsabili delle campagne per il relativo finanziamento; se è dello stesso partito del Presidente degli Stati Uniti, ne è il massimo alleato istituzionale; se è di quello rivale, è il capo riconosciuto dell’opposizione politica (K. Bradshaw-D. Pring, 56).
Questo connotato – ovviamente – non gli consente parzialità nella conduzione della seduta della Camera o negli annunzi istituzionali (le convocazioni dell’organo, la moderazione del dibattito, la dichiarazione dell’esito della votazione, eccetera). La parzialità sta invece nelle sue esternazioni e nella curvatura politica che egli dà alla programmazione dei lavori (W. McKay-C.W. Johnson, 43).
Un caso molto marcato di protagonismo politico dello Speaker fu, per esempio, quello di Newt Gingrich, il quale – eletto nel 1994 – fu la spina nel fianco della presidenza di Bill Clinton fino al 1998, nel tentativo democratico di riforma sanitaria, prima; e nello sviluppo del caso Lewinsky, poi.
Il suo successore (sempre repubblicano) – Dennis Hastert – sentì il bisogno nel 2003 di stilare una sorta di decalogo del buono Speaker, teso a sottolinearne, pur nell’inequivoca appartenenza politica, le necessarie doti di affidabilità e concretezza (W. McKay-C.W. Johnson, 45). La democratica Nancy Pelosi – la prima Speaker donna della storia americana, eletta due volte, a seguito delle elezioni di mezzo termine del 2006 e del 2018 (intervallate dalle presidenze dei repubblicani John Boehner e Paul Ryan, tra il 2010 e il 2018) – è ritenuta essersi sostanzialmente ispirata ai dettami di Hastert. Ella è nota, al riguardo, anche per essere intervenuta sul regolamento della Camera a proposito delle Questions of privilege, vale a dire le proposte dei deputati singoli, disciplinate dalla Rule IX.
Questo articolo del regolamento disciplina una serie di fattispecie che nel Parlamento italiano stanno a cavallo tra l’intervento sull’ordine dei lavori, il richiamo al regolamento e il fatto personale. Entro questo schema, nel Congresso degli USA si colloca anche la motion to vacate the Chair, vale a dire – in termini sintetici - una sorta di mozione di sfiducia allo Speaker, la cui prima applicazione risale al 1910, occasione in cui la mozione non fu approvata. Questo strumento è riconosciuto anche dal Jefferson’s Manual, prima tradizionale fonte interpretativa del Regolamento.
Secondo una modifica introdotta proprio sotto la presidenza Pelosi, questa mozione era ammissibile solo se sottoscritta da un intero gruppo parlamentare (il Democratic Caucus o la Republican Conference). Viceversa, nel gennaio 2023, in esito alle elezioni di mezzo termine del novembre 2022, l’aspirante Speaker, il deputato californiano Kevin McCarthy promise alla Republican Conference che – ove eletto – avrebbe ripristinato la regola per cui un solo membro della Camera poteva far mettere ai voti una motion to vacate. A tanto s’indusse perché ancora il 6 gennaio 2023 dopo tre giorni e 11 scrutini a vuoto non era ancora stato eletto. Lo fu il 7 gennaio 2023 al quindicesimo scrutinio, accettando di essere sostanzialmente esposto al pericolo che dalla sua stessa Conference potesse venire un attacco parlamentare.
Il 3 ottobre 2023, il deputato repubblicano della Florida, Matt Gaetz, ha dato corpo all’ombra che sin dall’inizio gravava sulla presidenza di McCarthy e depositato una motionmelius: resolutionto declare vacant the Office of the Speaker, la quale è stata approvata, per la prima volta nella storia del Congresso statunitense. Hanno votato a favore 8 repubblicani e tutti i 212 democratici.
Ne sono seguiti giorni di vita parlamentare assai convulsa, in cui la Republican Conference ha tentato di trovare un candidato da portare al voto dell’Assemblea. In un primo tempo, in una sorta di ballottaggio interno, il deputato della Louisiana, Steve Scalise, aveva prevalso su quello dell’Ohio, Jim Jordan. Senonchè, prima ancora che il plenum della Camera si riunisse, Scalise ha rinunziato, perché coloro che avevano votato per Jordan avevano pubblicamente dichiarato che non l’avrebbero sostenuto. Una nuova votazione interna al gruppo aveva quindi designato alla carica di Speaker lo stesso Jordan, il quale tuttavia, in tre scrutini validi in Assemblea, non ha riportato i voti necessari (avendo avuto contro tutti i democratici e circa 20 repubblicani) e quindi si è ritirato a sua volta. La vicenda si è ripetuta il 24 ottobre: la Conference aveva votato per designare il deputato del Minnesota, Tom Emmer, preferendolo a quello della Louisiana, Mike Johnson. Nondimeno, Emmer – informato che i sostenitori di Johnson non avrebbero votato per lui – si è ritirato. Ne è seguito – a questo punto – uno scrutinio in Assemblea, il 25 ottobre 2023, in cui Mike Johnson è stato infine eletto Speaker.