Lo Stato di diritto in Germania e in Europa: una storia complessa, confusa e dimenticata

La creazione dell’Unione Europea può essere forse intesa come la maggiore conferma del trionfo, nelle società occidentali, del principio dello Stato di diritto. E, tuttavia, le continue, e spesso condivisibili, critiche rivolte al suo impianto istituzionale e politico stanno a dimostrare la sostanziale insufficienza di un simile traguardo. D’altra parte, non va dimenticato che quella di Stato di diritto non può essere considerata una nozione del tutto univoca, come mostra facilmente una breve analisi storica della sua evoluzione.
I profondi legami al tempo esistenti con la dottrina giuridica tedesca spiegano bene perché la nozione italiana di Stato di diritto, sorta agli inizi del XX secolo, rappresenta un’esplicita derivazione di quella di Rechtsstaat e non evidenzia particolari differenze rispetto a essa. Questo al contrario di quanto negli stessi anni avveniva in Francia, dove certo la locuzione État de droit era nata secondo modalità affini a quelle italiane, ma guardava, soprattutto con Raymond Carré de Malberg, a una mitigazione del culto della sovranità popolare di derivazione rivoluzionaria tramite le istanze del nuovo diritto amministrativo tedesco e del costituzionalismo americano.
Le origini del termine Rechtsstaat si perdono nella storia della cultura giuridica tedesca. Il primo a parlarne, pur senza una particolare accuratezza definitoria, è probabilmente alla fine del XVIII secolo l’oscuro bibliotecario Wilhelm Placidus, e l’espressione trova qualche occorrenza in quel torno d’anni. Il fatto, tuttavia, che molti di coloro che la utilizzano, ad esempio Adam Müller, non si sentano in obbligo di spiegarne il senso e l’utilizzo che ne viene fatto, lascia pensare che essa fosse in realtà divenuta una sorta di luogo comune in alcuni ambienti scientifici. Quello che sembra mancare a noi, di conseguenza, è un’adeguata contezza degli ambiti in cui tale locuzione è stata primitivamente sviluppata, fino ad arrivare qualche decennio dopo a una più compiuta elaborazione.
Va, tra l’altro notato, che Placidus introduceva il concetto di Stato di diritto a proposito della filosofia giuridica kantiana, nonostante il fatto che Kant avesse al massimo parlato di status iuridicus, tradotto in alcuni casi con rechtlicher Zustand, proprio a sottolineare che con tale espressione egli voleva piuttosto intendere la condizione giuridica opposta allo stato di natura. Ciò nondimeno, rimane sostanzialmente giustificata l’ormai classica dottrina che vede in Kant il “padre” dello Stato di diritto, quantomeno in Germania, nella misura in cui, in alcuni momenti del suo sistema speculativo, di esso viene sottolineato il nerbo vitale, e cioè la limitazione dell’arbitrio del sovrano da parte della legge. Si può qui tralasciare la questione ermeneutica se Kant sia stato effettivamente disposto ad accettare la sottoposizione del potere al diritto, e mettere invece in evidenza come il filosofo prussiano delinei una prima interpretazione possibile dello Stato di diritto, cioè come Stato minimo che deve predisporre le strutture giuridiche affinché tutti gli individui godano delle medesime condizioni di partenza e siano reintegrati nei loro diritti in caso di indebite intromissioni da parte di terzi. Da notare è che la costruzione kantiana vuole esplicitamente porsi in diametrale contrasto con il cosiddetto Stato di polizia tipico della giurisprudenza cameralistica a lui precedente, che individuava come compito dello Stato quello di contribuire alla felicità dei propri sudditi. Per Kant la pursuit of happiness è strettamente individuale, e uno Stato che tenti di immischiarsi in tale questione è uno Stato paternalista, cioè il peggiore tipo di Stato che si possa pensare.
Se Wilhelm von Humboldt, autore che si è esplicitamente occupato in uno scritto giovanile dei limiti dell’attività dello Stato, condivide la posizione di Kant ‒ e anch’egli non usa mai la locuzione Rechtsstaat ‒, la prospettiva cambia totalmente con i due più importanti autori che tentano di descrivere l’essenza dello Stato di diritto: Friedrich Julius Stahl e Robert von Mohl. Il primo, conservatore e assertore del principio monarchico di diritto divino, nonché stretto collaboratore del re di Prussia, è mosso dalle necessità storiche del Nachmärz, ma probabilmente anche da una certa avversione personale nei confronti degli atti di puro arbitrio, a dare una definizione dello Stato di diritto tanto efficace nella formulazione, quanto semplice nel contenuto. Essa può essere riassunta (con qualche forzatura) nella frase per cui uno Stato di diritto è uno Stato che ha un diritto, cioè una struttura giuridica stabile, qualunque contenuto essa esprima. Frase semplice, è vero, ma al contempo rivoluzionaria, anche per la fonte da cui promanava; tanto che di essa si potranno servire molti giuristi estremamente più liberali di Stahl, nel momento in cui, anche con qualche merito del vecchio teorico di origine bavarese, l’assolutismo monarchico apparirà poco più che un relitto del passato. Dall’altra parte, il liberale Mohl, di qualche anno più anziano di Stahl, sviluppa negli stessi anni una teoria dello Stato di diritto ancora più attenta ai mutamenti sociali, e in primo luogo a quelli connessi allo scatenarsi di un impetuoso processo di industrializzazione, riprendendo il nucleo concettuale dello Stato di polizia, e intendendo con ciò l’opportunità che lo Stato intervenga attivamente per ripristinare gli equilibri infrantisi senza particolare colpa dei suoi cittadini. In questo modo, per quanto in maniera estremamente embrionale, Mohl poneva le basi per il passaggio dallo Stato liberale di diritto ottocentesco ai moderni Stati sociali di diritto.
In realtà tra Mohl e l’effettiva affermazione dell’idea dello Stato sociale di diritto nel periodo weimariano, soprattutto per merito di Hermann Heller, ci sarà un lungo periodo di “stagnazione”, messo parzialmente in questione solo dallo svilupparsi della dottrina del diritto amministrativo come garanzia dei diritti dei cittadini di fronte allo Stato (Lorenz von Stein, Otto Bähr, Rudolf von Gneist, Otto Mayer). Nella seconda metà del XIX secolo, tuttavia, lo Stato di diritto, ormai definitivamente affermatosi come categoria corrente nella dottrina giuridica tedesca, servirà principalmente come suggello di quell’ortodossia formalistica e positivistica, che trova in Paul Laband il suo principale alfiere e che accompagna, in funzione legittimante, l’epoca bismarckiana prima e quella guglielmina poi. Il principio dello Stato di diritto appare, in questo periodo, come un’altra faccia dell’idea per cui lo Stato è dotato di una propria autonoma personalità e il diritto non può essere pensato altrimenti che come sua autobbligazione.
Dopo la distruzione fisica e morale provocata dalla Seconda guerra mondiale, si riscontra, non solo in Germania, un’affermazione incondizionata del principio dello Stato di diritto, connessa ora però a un sostanziale oblio dei significati che esso ha avuto nella sua fase germinale. Si procede così, nei fatti, a una sovrapposizione semantica, storicamente indebita, tra le locuzioni di Stato di diritto, Stato sociale e Stato costituzionale, come se all’ineccepibile indissolubilità politica di essi, almeno nel mondo occidentale, dovesse corrispondere una parallela indissolubilità teorica. Esempio privilegiato di questo atteggiamento è l’articolo 28 del Grundgesetz tedesco, che parla di uno “Stato di diritto repubblicano, democratico e sociale”.
Basta, tuttavia, dare uno sguardo alla letteratura costituzionalistica tedesca, per comprendere come in realtà l’armonizzazione tra queste declinazioni dello Stato di diritto, e in particolar modo tra quella Stato di diritto tout court e quella di Stato sociale di diritto, sia tutt’altro che ovvia. Se, infatti, per tutela dello Stato di diritto può essere con sicurezza inteso il rispetto di alcuni essenziali principi formali, primi fra tutti quello di eguaglianza e quello della divisione dei poteri, molto più complesso è trovare una risposta alla domanda su quale sia il livello materiale di tutela dei cittadini che renderebbe effettivamente realizzato il principio dello Stato sociale (la trasformazione della Germania in uno Stato socialista, come ha affermato provocatoriamente qualcuno?). Ed è, tra l’altro facile comprendere, come ha messo in evidenza principalmente Ernst Forsthoff, che la cifra autenticamente liberale dello Stato di diritto non potrebbe che regredire a fronte di una troppo ampia pervasività del principio di Stato sociale, facendo così riemergere il problema dal versante opposto.
La questione è divenuta oggi particolarmente spinosa rispetto alla natura e all’attività dell’Unione Europea. Nata anch’essa sulle ceneri fumanti del secondo conflitto mondiale, partecipava teoricamente, dal punto di vista della sua ideologia costitutiva, della descritta commistione tra i vari significati dello Stato di diritto; ma il suo culto per la libera concorrenza è oggi, per alcuni tratti, molto più vicino all’ideologia degli Stati liberali ottocenteschi che alle spinte solidaristiche, e virtuosamente dirigistiche, tipiche di alcune teorie progressiste del secondo Novecento. Anche il lungo, e finora piuttosto infruttuoso, braccio di ferro ingaggiato dall’Unione con Polonia e Ungheria, proprio sotto la rubrica della difesa dello Stato di diritto, è, come noto, principalmente incentrato sulla liquidazione da parte di questi Stati del principio formale di divisione dei poteri. Come, però, ha messo paradossalmente in evidenza Dieter Grimm, se si analizzano le sentenze in cui negli ultimi anni il Bundesverfassungsgericht si è più rumorosamente opposto alla recezione in Germania del diritto europeo, si vedrà come il Tribunale federale di Karlsruhe stia forse sviluppando una dottrina di opposizione agli eccessi del liberismo brussellese, e questo proprio in vista di una rivendicazione della necessaria armonizzazione del principio dello Stato di diritto con quello dello Stato sociale.
Per parafrasare uno che con lo Stato di diritto aveva poco a che fare, grande è la confusione sotto al cielo; anche se la situazione per lo Stato di diritto appare, purtroppo, tutt’altro che eccellente.