Romania, una democrazia che si difende. Commento a margine della sentenza Călin Georgescu v. Romania della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

La Romania sta affrontando una delle crisi politiche più profonde della storia recente. Nel momento in cui viene scritto questo contributo, il Paese si ritrova con un presidente ad interim, Ilie Bolojan, leader del Partito nazional liberale (PNL) in seguito all’annullamento del primo turno delle elezioni presidenziali del 2024 da parte della Corte Costituzionale (decisione n. 32 del 6 dicembre 2024) e alle conseguenti dimissioni di Klaus Iohannis nelle scorse settimane, chieste da più forze politiche e presentate per evitare di soccombere a una procedura di impeachment.
Ripercorriamo le vicende che hanno portato alla decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, che l’11 febbraio 2025 ha rigettato il ricorso di Georgescu e che ha di fatto confermato la Sentenza della Corte Costituzionale rumena.
Innanzitutto, giova ricordare le modalità di elezione del Presidente della Repubblica, regolata dalla legge n. 370/2004 e che, ai sensi dell’art. 81 della Costituzione rumena, avviene «a suffragio universale, uguale, diretto, segreto e liberamente espresso». I commi 2 e 3 dell’articolo 81 prevedono invece che, qualora nessun candidato ottenga la maggioranza assoluta dei voti, si svolga un secondo turno di ballottaggio tra i due candidati più votati. Al primo turno, tenutosi regolarmente lo scorso 24 novembre, sono state presentate 14 candidature. Tra queste, i due nomi che, sorprendentemente, hanno superato il primo ministro socialdemocratico e il favorito alla vigilia delle elezioni Marcel Ciolacu, sono stati quelli di Elena Lasconi (Unione Salvate la Romania, 19,18%) e di Călin Georgescu (indipendente, 22,94%). Un risultato, quest’ultimo, che ha messo a soqquadro il mondo della politica e in generale la società civile romena, che ha risposto con manifestazioni in suo favore e contro. Degno di nota, inoltre, è stato il risultato del voto per il rinnovo della Camera dei Deputati e del Senato (le elezioni del Capo dello Stato e del Parlamento sono disallineate a seguito della riforma costituzionale del 2003, ed è dal 2004 che le elezioni parlamentari e presidenziali non si tenevano a così breve distanza l’una dall’altra) che il 1° dicembre 2024 ha dato la maggioranza relativa al Partito socialdemocratico di Marcel Ciolacu, con il 22% dei voti e il 26% dei seggi alla Camera e il 22,3% dei voti e il il 26,9% dei seggi al Senato.
Non stupisce, invece, l’ottimo risultato di partiti di estrema e ultra destra come Alleanza per l’ Alleanza Unione dei Romeni (AUR), secondo partito in Parlamento, S.O.S. Romania e il Partidul Oamenilor Tineri (POT), questi ultimi entrambi entrati per la prima volta in Parlamento. Ciò che più interessa però nella vicenda in questione dal punto di vista della struttura costituzionale del Paese è il ruolo incisivo della Corte costituzionale. In quanto garante della supremazia della Costituzione (art. 142 Cost.), la Corte esercita un controllo sia preventivo sia successivo sulla legislazione. Inoltre, sempre a seguito della riforma del 2003, con le sue decisioni ha giocato un ruolo molto importante nel delineare il perimetro dei poteri e delle responsabilità del Presidente della Repubblica. In base all’art. 146 lett f. la Corte vigila sull'osservanza delle procedure di elezione del Presidente della Repubblica e convalida, inoltre, il risultato delle elezioni presidenziali. In tale ambito gestisce le contestazioni riguardanti la registrazione o il respingimento delle domande di iscrizione dei candidati (nell’ultima tornata elettorale la Corte Costituzionale ha disposto l’annullamento della domanda di candidatura di Diana Iovanovici-Șoșoacă, leader del partito S.O.S Romania, data la sua «condotta sistematica e di lunga data volta a colpire i fondamenti costituzionali dello Stato rumeno») e si esprime sulle istanze dei candidati e dei partiti che denunciano l'impossibilità di svolgere la propria campagna elettorale. Con la decisione sopra citata, la Corte costituzionale dà atto di aver preso visione del contenuto dei documenti presentati nella seduta del Consiglio Supremo di Difesa del Paese del 28 novembre 2024, e poi declassificati il 4 dicembre 2024 su indicazione del Presidente in carica Klaus Iohannis. In relazione al contenuto dei documenti, che dimostrano la presenza di atti di manipolazione del voto come interferenze elettorali da parte di potenze straniere (specificatamente la Russia) o l’utilizzo distorto degli algoritmi delle piattaforme social, la Corte ha ritenuto che l’intero processo elettorale per l'elezione del Presidente della Romania sia stato inficiato da violazioni che «hanno distorto il carattere libero e corretto del voto espresso dai cittadini, compromesso l'uguaglianza di opportunità tra i competitori elettorali, alterato la trasparenza e l'equità della campagna elettorale, e ignorato le disposizioni legali relative al finanziamento della stessa». La Corte annulla così il primo turno e dà mandato al Governo di porre in essere tutti gli adempimenti necessari per stabilire una data per le nuove elezioni presidenziali.
A seguito della decisione della Corte costituzionale, il candidato Georgescu, invocando gli artt. 6, 10, 11 e 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo nonché l’art. 3 del Protocollo 1 della stessa, fa ricorso alla CEDU. Il ricorrente sosteneva che la decisione fosse illegittima in quanto fondata su accuse non comprovate e che violasse quindi il diritto a libere elezioni ex. art. 1 del Protocollo della Convenzione. Inoltre, richiamando gli artt. 6 e 13, denunciava come la scelta di negare il suo “diritto” a diventare Presidente della Repubblica fosse stata presa in un contesto di non trasparenza e, richiamando gli artt. 10 e 11, sosteneva che alla base ci fosse un’interferenza politica da parte del “partito al potere” (PSD e PNL) e che, in questo modo, fosse stata minata la libertà di partecipare al processo democratico, oltreché la libertà di associazione politica.
In merito al richiamato art. 3 del Protocollo n. 1 («Le Alte Parti contraenti si impegnano a organizzare, a intervalli ragionevoli, libere elezioni a scrutinio segreto, in condizioni tali da assicurare la libera espressione dell’opinione del popolo sulla scelta del corpo legislativo.»), la Corte ritiene che in questo specifico caso non sussista alcuna violazione e reputa questa parte della domanda inammissibile, ex art. 35 comma 3 a), dal momento che la norma fa riferimento alla sola scelta del corpo legislativo. Se è vero che la norma non va interpretata nel senso di ricomprendere i soli i parlamenti nazionali (Mółka c. Polonia, 11/04/2006), facendo piuttosto riferimento alla struttura costituzionale dello stato in questione (Timke c. Germania, 11/09/1995), il ruolo del Presidente della Repubblica rumeno non può nemmeno rientrare in questa accezione più ampia di legislatore. Questo sia perché non dispone di poteri di iniziativa, sia perché è la stessa Costituzione a stabilire espressamente che il Parlamento è l'unico potere legislativo del paese (art. 61 comma 1 Cost.). Al Presidente sono attribuiti solo pochi poteri che potrebbero essere interpretati, in misura limitata, come un'interazione istituzionale con il legislatore: può firmare e far ritardare temporaneamente la promulgazione delle leggi emanate dal Parlamento, ma a condizioni strettamente limitate ex art. 77 Cost. ma l'esercizio di tale potere crea un semplice obbligo procedurale per il Parlamento di riesaminare la legge senza perdere la sua discrezionalità quanto al risultato sostanziale di tale riesame che rimane ad ogni modo illimitata. In merito agli artt. 6 e 13, richiamati dal ricorrente in merito alla denunciata mancanza di trasparenza in riferimento alle modalità con cui era stata assunta la decisione della Corte nazionale – e alla mancanza di rimedi contro di essa – la Corte europea delinea in primis il diritto il cui esercizio è stato impedito dalla decisione, ossia il suo diritto a candidarsi alle elezioni presidenziali. Riguardando la controversia un suo diritto politico, non aveva alcuna attinenza con i “diritti e obblighi civili” oggetto dell’art. 6 comma 1 della Convenzione (cfr. Mutalibov v. Azerbaijan, n. 31799/03, 19 febbraio 2004, e Pierre-Bloch v. Francia, 21 ottobre 1997). Inoltre, la decisione della Corte costituzionale, sebbene il ricorrente parli espressamente delle “accuse contro di lui”, non riguardava la determinazione di queste ultime. Di conseguenza, la Corte ritiene che l'articolo 6 della Convenzione non sia applicabile in questo caso di specie e ne discende che il suo ricorso è irricevibile, ex art. 35 comma 3 a), e pertanto deve essere respinto ex art. 35 comma 4 della Convenzione.
Alla luce di tali risultanze, il richiedente non è in possesso di un “arguable claim” ai sensi dell’art. 13, che prevede un meccanismo di denuncia dinanzi alla Corte di tipo sussidiario rispetto ai sistemi giuridici nazionali e riguarda, in linea di principio, la dedotta violazione materiale delle disposizioni della Convenzione.
In riferimento agli artt. 10 e 11 della Convenzione, il ricorrente sostiene che la decisione della Corte costituzionale sia stata influenzata da condizionamenti politici da parte dell'allora partito di governo e che queste interferenze avessero sensibilmente compromesso la libera partecipazione al processo democratico, in particolare la libertà di associazione politica. La Corte EDU, richiamando l’art 34 della Convenzione (Ricorsi individuali), rammenta che un ricorso ai sensi della Convenzione deve comprendere due elementi correlati (cfr. Radomilja e altri v. Croazia, nn. 37685/10 e 22768/12, 20 marzo 2018), ossia le accuse di fatto (Eckle c. Germania, 15 luglio 1982), e gli argomenti giuridici su cui queste si basano. Nel caso in esame, tuttavia, non sono stati presentati argomenti di fatto e di diritto a sostegno dei reclami in oggetto. La Corte rigetta la domanda e aggiunge che non spetta a lei “speculare” sul merito delle denunce di un ricorrente che, nel caso di specie, è per di più rappresentato da un difensore di propria scelta. Dal momento che gli elementi addotti dal ricorrente in merito alla sua possibilità di partecipare al processo democratico sono esigui, il Tribunale lo ritiene un aspetto già esaminato in relazione all’art. 3 del protocollo n.1, mentre per quanto riguarda la libertà di associazione politica ricorda che il ricorrente era un candidato indipendente.
Con una decisione all’unanimità la Corte europea dichiara quindi la domanda inammissibile, sotto tutti i profili.
Potremmo affermare di essere di fronte a una decisione nazionale, quella della Corte costituzionale rumena, di difesa degli assetti democratici, che però risulta potenzialmente contestabile alla luce del fatto che sono stati superati trent'anni di consolidata giurisprudenza che fino ad oggi non si era mai spinta fino all’invalidazione di un intero processo elettorale. Si potrebbe criticare la scelta estrema della Corte sostenendo che essa ha trasformato un controllo costituzionale in un processo di tipo soggettivo privo di garanzie procedurali, traslando all’art. 146 lett f. gli strumenti di protezione previsti dall’art. 146 lett. k, in base al quale la Corte ha il potere di dichiarare l’incostituzionalità di un partito politico. Allo stesso tempo, però, la deliberazione della Corte rumena è “sorretta” da una pronuncia avvenuta a livello europeo: quella, appunto, della Corte EDU. Sebbene si tratti di una sentenza di inammissibilità, la decisione sembra a prima vista discostarsi dalla tradizione giurisprudenziale della stessa Corte nell’ambito della protezione della democrazia. Ad esempio, in riferimento allo scioglimento di partiti, è sempre stata molto cauta, richiedendo condizioni stringenti, come la necessità di difendere la democraticità dell’ordinamento (Klass v. Germania, 6 settembre 1978, n. 59), o di essere funzionale alla protezione di uno dei valori pubblici fondamentali ex art. 11 della Convenzione, come la difesa della sicurezza nazionale o dell’ordine pubblico (Sidiroupolos v. Grecia, 10 luglio 1998, n. 37).
È pur vero però che entrambe le sentenze sono inserite all'interno di un quadro geopolitico instabile e di fenomeni politico-istituzionali del tutto anomali. Con riferimento alla decisione della Corte di Strasburgo, il fatto che essa appaia, almeno in parte, in discontinuità con la precedente giurisprudenza potrebbe aver motivato la scelta di adottare una pronuncia di tipo più tecnico di inammissibilità. Questa strategia ha permesso alla Corte di evitare un confronto diretto su un merito particolarmente delicato e conflittuale, raggiungendo comunque l'effetto sostanziale di legittimare la decisione rumena, considerabile in fin dei conti ragionevole in quanto adottata in un contesto di emergenza. Se, in linea di principio, è sempre preferibile ricorrere a una dose elevata di prudenza nell’escludere candidati dalle competizioni politiche in ragione delle loro posizioni e dei loro comportamenti, altrettanto evidente è che quello rumeno costituisce un caso-limite, nell’ambito del quale manipolazioni e interferenze hanno superato una soglia critica – come evidenziato anche dall’esplodere delle intenzioni di voto per Georgescu da pochi punti percentuali a oltre il 20% in meno di un mese –, minando profondamente la fairness della competizione. Merita inoltre ricordare, in conclusione, che il Comitato elettorale centrale (Biroul Electoral Central) ha rifiutato la nuova candidatura di Georgescu per le elezioni previste il prossimo maggio, suscitando ulteriori proteste e disordini a Bucarest. La decisione si è basata su precedenti sentenze della Corte Costituzionale che, a sua volta, ha respinto il ricorso di Georgescu a seguito della decisione del Comitato, confermando il rifiuto della candidatura.


Pronti ma non del tutto. La Corte Costituzionale di fronte al superamento del binarismo di genere

La Corte Costituzionale italiana, con la sentenza del 23 luglio 2024 n. 143, è stata chiamata a decidere su due questioni di legittimità costituzionale inerenti ai percorsi di affermazione di genere sollevate dal tribunale di Bolzano (II sez. civ., ordinanza del 13 gennaio 2024). Una decisione che senza dubbio spinge a interrogarsi sulla complessità della relazione tra corpo, sesso e genere, sulla tensione tra diritti fondamentali sociali e diritti individuali di auto-determinazione nella cornice del dialogo/scontro tra la categorizzazione dei diritti costituzionali e le loro forme di riconoscimento e tutela.
Con questa sentenza il giudice delle leggi ha ammesso, espressamente e per la prima volta, l’esistenza delle persone non binarie, ossia di quelle persone che, non sentendosi di appartenere secondo una logica binaria né al genere femminile, né al genere maschile, avvertono l’esigenza di essere riconosciute con un’identità terza, altra.
Tuttavia, la Corte si è fermata “a metà strada”.
Il caso in esame riguarda una persona AFAB (assigned female at birth) e non-binary, che ha adito il Tribunale di Bolzano affinché decidesse sulla rettificazione anagrafica, non nel sesso opposto ma, per l’appunto, in un sesso “altro”, chiedendo inoltre di potersi sottoporre a un intervento chirurgico di adeguamento.
Dopo la Svezia e la Germania, l’Italia è stata il terzo Paese al mondo ad adottare una legge che consente alle persone trans di modificare il marcatore di genere nei registri dello stato civile. La disciplina prevede due procedimenti distinti: uno per la rettificazione anagrafica e l'altro per ottenere l'autorizzazione ad accedere al trattamento chirurgico. La normativa originaria non è rimasta invariata, infatti la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale sono intervenute (Cass. n. 15138 del 2015 e Corte Cost. n. 221 del 2015) ritenendo che la procedura per il riconoscimento legale del genere necessitasse di alcune modifiche, analogamente a quanto verificatosi nel caso della legge tedesca “Transsexuellengesetz", dove la Corte Costituzionale Federale tedesca (1 BvR 3295-07, Corte Costituzionale Federale, Germania, 11 gennaio 2011) aveva dichiarato incostituzionali i requisiti preesistenti per la domanda di rettificazione. Grazie a queste pronunce oggi non è più necessario ricorrere al trattamento chirurgico per vedersi accordata la rettificazione anagrafica. Resta comunque una valutazione rigorosa della serietà e dell'univocità dell'intento di un individuo e della obiettività della transizione verso la nuova – spesso più per l’ordinamento che per l’individuo – identità di genere.
Il diritto italiano, però, ha riconosciuto finora (e verosimilmente continuerà a farlo ancora per molto) solo due marcatori di genere, quello "maschile" e quello “femminile", e non consente l’accoglimento di una domanda di rilascio di documenti dove compaia un genere non corrispondente ai precedenti.
Il giudice a quo ha quindi richiesto l’intervento della Corte Costituzionale, ritenendo che una tale preclusione contrastasse con gli artt. 2, 3, 32 e 117, primo comma, della Costituzione, da leggere in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per la lesione inflitta all’identità, alla salute e al rispetto della vita privata e familiare della persona. Sulle stesse basi ha ritenuto che il regime autorizzatorio previsto dall’art. 31 del d.lgs. 150/2011 per accedere al trattamento chirurgico di adeguamento determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento poiché nessun altro tipo di intervento, anche con conseguenze irreversibili e di carattere demolitivo, è subordinato all’ottenimento di una preventiva autorizzazione giudiziale.
Nell’affrontare la prima questione di legittimità, la Corte, nonostante evidenzi come la sensibilità nei confronti di queste soggettività sia in costante crescita, mette in luce i limiti con cui il nostro ordinamento pare destinato a scontrarsi dal momento che «l’eventuale introduzione di un terzo genere di stato civile avrebbe un impatto generale, che postula necessariamente un intervento legislativo di sistema, nei vari settori dell’ordinamento e per i numerosi istituti attualmente regolati con logica binaria» (par. 5.5).
La Consulta, seguendo l’argomentazione dell’Avvocatura dello Stato, rappresentante del Governo italiano intervenuto in giudizio, dichiara quindi inammissibile la questione di costituzionalità riguardante la legge n. 164 del 1982 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso) nella parte in cui non prevede che la rettificazione possa determinare l’attribuzione di un genere “non binario”, in quanto il caso pone un problema che non può essere risolto dal controllo della Corte Costituzionale per le sue ampie conseguenze sul sistema giuridico. Ma se l’Avvocatura dello Stato sembra mettere in discussione la possibilità di riconoscimento delle persone non binary, la Corte Costituzionale non ha problemi ad affermare il contrario. Secondo la Consulta, infatti, la necessità di un riconoscimento di tutte quelle situazioni in cui il genere di un individuo non ricade nella sfera del binarismo maschio-femmina è da ricondurre al principio personalista sancito dall’articolo 2 della Costituzione e al principio di pari dignità sociale ex. articolo 3 e solleverebbe anche un tema di rispetto della tutela della salute ai sensi dell’articolo 32 Cost.
La Corte in tal senso cita l’ICS-11 (11esima revisione dell’International Classification of Diseases), il DSM-5 (quinta revisione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), la recente legge tedesca sull’autodeterminazione in materia di registrazione del sesso (Gesetz über die Selbstbestimmung in Bezug auf den Geschlechtseintrag SBGG), come anche la censura della Corte Costituzionale belga (arrêt n° 99/2019 del 19 giugno 2019) riguardo la delimitazione binaria che, secondo i giudici belgi, genererebbe un’ingiustificata disparità di trattamento fra chi sente di appartenere al genere maschile o femminile e chi invece non si identifica in alcuno tra questi. La Corte richiama inoltre la virtuosa pratica delle carriere alias «tramite le quali diversi istituti di istruzione secondaria e universitaria permettono agli studenti di assumere elettivamente, ai fini amministrativi interni, un’identità – anche non binaria – coerente al genere percepito» (par. 5.4).
In riferimento alla seconda questione di legittimità, la Corte Costituzionale ha ritenuto invece fondata la censura dell’articolo 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 dichiarando costituzionalmente illegittima la prescrizione dell’autorizzazione giudiziaria dell’intervento chirurgico nei percorsi di affermazione dell’identità di genere. Tale previsione, infatti, non risulta più supportata dalla ratio legis, specialmente a seguito della sentenza già ricordata emanata dalla stessa Corte. Un percorso di transizione, infatti, può realizzarsi già mediante trattamenti ormonali e un sostegno psicologico-comportamentale, senza che un intervento di adeguamento chirurgico risulti necessario. Da tali premesse si intuisce – e la Corte correttamente evidenzia – che la prescrizione dell’autorizzazione giudiziale di cui alla norma censurata è del tutto irragionevole quando relativa a un trattamento chirurgico che avrebbe luogo dopo la rettificazione. A tal proposito, nella sentenza si fa riferimento alla giurisprudenza di merito (Tribunale ordinario di Padova, sezione prima civile, sentenza 17 giugno 2024, e Tribunale ordinario di Torino, sezione settima civile, sentenza 27 marzo 2024) che non di rado rilascia l’autorizzazione all’intervento chirurgico contestualmente alla sentenza di rettificazione. Sebbene questa scelta risulti essere un grosso passo in avanti per le persone trans, il giudice sembra delimitare la non obbligatorietà dell’autorizzazione giudiziaria a un trattamento medico-chirurgico di modificazione del sesso ai soli casi in cui il percorso di affermazione dell’identità di genere si possa ritenere concluso in base ai criteri imposti dal quadro normativo e quindi «qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso.» (par. 6.2.4)
La Corte quindi, nonostante riconosca il carattere paternalistico della prescrizione, sembrerebbe dire che il regime autorizzatorio non è irragionevole tout court, ma lo è solo nella misura in cui questo non si coordina con la giurisprudenza della Corte di Cassazione e della stessa Corte Costituzionale, che vede il trattamento chirurgico solo come un «possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico» (par. 6.2.1) e non come momento necessario ai fini della rettificazione. Il fatto di decidere di sottoporsi al trattamento chirurgico in maniera libera, autodeterminata e senza alcun intervento giudiziario rimane quindi sottoposto al riconoscimento, da parte del tribunale, del completamento del percorso di transizione che fa sorgere in capo al soggetto interessato il diritto a riconoscersi nel genere di appartenenza, sempre che questo rientri tra quelli previsti dall’ordinamento.
Tutto ciò considerato è interessante procedere ad alcune osservazioni.
In merito alla prima questione di legittimità, è indubbio che l'apertura della Corte non sia da sottovalutare, non potendo contare né sull'univocità delle indicazioni degli altri ordinamenti europei (attualmente in Europa solo Islanda, Germania e Belgio riconoscono a pieno titolo le identità non binarie) e delle Corti sovranazionali sul tema, né su un’obbligazione positiva di registrazione delle persone non binarie che è stata di recente esclusa dalla Corte EDU (sentenza 31 gennaio 2023, Y. contro Francia) e considerando che le norme di genere che dividono gli individui in donne e uomini possono essere ritenute il sistema normativo più antico di classificazione delle persone, a tutt'oggi caro ad alcuni governi. La Consulta individua nel legislatore, come è giusto che sia, colui che deve occuparsi di normare ciò che evidentemente esiste ma che non è ancora giuridicamente riconosciuto. Tuttavia, un tale richiamo non ha gli effetti vincolanti di una pronuncia di incostituzionalità, quale ad esempio è stata quella della Corte Costituzionale Federale tedesca, che nel dirimere un caso similare (la decisione c.d. “Dritte option” del 10 ottobre 2017) ha dichiarato parzialmente incostituzionale la legge sullo stato civile invitando il parlamento ad intervenire entro 14 mesi alternativamente attraverso l’abolizione di tutti i marcatori di genere o introducendo dei marcatori non binari di genere (scelta poi perseguita dal legislatore). La nostra Corte ha invece solo segnalato un'opportunità di intervento al fine di evitare che il perpetuarsi di un mancato riconoscimento giuridico di queste soggettività continui a generare un pregiudizio sotto l’aspetto della dignità, della salute e del benessere psicofisico. E se si tiene conto di richiami ben più forti da parte della Consulta, come ad esempio quello riguardante la materia del fine vita, si può ritenere che nel prossimo futuro il tema in esame ben difficilmente sarà oggetto dell’attenzione del nostro legislatore.
Sotto il profilo della necessarietà dell’iter giudiziario per la rettificazione del genere e per il trattamento chirurgico, anche e specialmente a seguito delle precisazioni formulate dalla Corte in merito e dell’intervento dell’Avvocatura di Stato, siamo distanti dall’ipotizzare l’introduzione nel nostro ordinamento di un percorso di riconoscimento del genere che esuli dall’intervento del giudice, come è invece avvenuto in Spagna nel 2023 con la Ley 4/2023, de 28 de febrero, para la igualdad real y efectiva de las personas trans y para la garantía de los derechos de las personas LGTBI, che ha introdotto la possibilità di ottenere la rettifica del sesso e del nome unicamente sulla base di una dichiarazione di volontà del soggetto richiedente senza l’intervento di un funzionario della giustizia.
In generale, siamo ancora più distanti dallo scorgere la possibilità che il legislatore metta in campo una regolamentazione che tenga davvero conto della pluralità dell’esistente e che riconosca la complessità dei corpi oltre il dato meramente biologico e oltre il sistema culturale dominante basato sul binarismo sessuale che implica un’esatta corrispondenza tra sesso e genere. Bisognerebbe, invece, calarsi in una logica del destrutturare per ricostruire tenendo conto che la dimensione del genere inevitabilmente e intrinsecamente apre a orizzonti variabili, circolari e a una ricerca caratterizzata da una necessaria visione globale dai confini mobili.